di Redazione FdS
«Mentre stiamo parlando il tempo invidioso sarà già fuggito. Cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani.»
(Orazio, Odi, I, 11, 7-8)
Era la primavera del 37 a.C. quando l’imperatore romano Ottaviano inviò a Brindisi, in Puglia, una delegazione diplomatica capeggiata da Mecenate, suo influente consigliere, alleato ed amico, per incontrarsi con i rappresentanti di Antonio (uno dei quali, Fonteio Capitone, si mise in viaggio con lo stesso Mecenate). Lo scopo della missione – perseguito specialmente da Ottavia, sorella di Ottaviano e moglie di Antonio – era quello di cercare di appianare i dissidi e le tensioni fra i due cognati rivali, poichè l’accordo tra loro stipulato nel 40 era stato compromesso da vari incidenti accaduti nei due anni successivi.
Gli scarsi esiti della spedizione non servirono a scongiurare la nuova guerra civile, che, scoppiata più tardi, si sarebbe conclusa dopo sei anni nel mare di Azio. Mecenate probabilmente per rendere più gradevole il suo viaggio, volle essere accompagnato da Orazio, insieme con Virgilio, Plozio Tucca e Vario Rufo, poeti e letterati a lui e fra loro legati da un rapporto di profonda amicizia.
Il poeta lucano (nativo di Venosa) Orazio, allora 28enne, influenzato da una satira di Lucilio a carattere odeporico (cioè dedicata alla descrizione di un viaggio), ci ha lasciato una sua satira (la V del Primo Libro dei suoi ‘Sermones’), una sorta di coinvolgente taccuino di appunti (noto come ‘iter brundisinum’) su quanto avvenne lungo le 360 miglia (circa 580 km) del percorso svoltosi lungo la via Appia, strada che collegava appunto Roma e Brindisi, a quel tempo il più importante porto per la Grecia e l’Oriente.
Dopo Benevento, attraverso Venosa, la via Appia raggiungeva il mare di Tarentum (Taranto) e da qui terminava a Brundisium (Brindisi) dopo aver toccato altri centri intermedi (un’importante stazione era presente nella città di Oria). I nostri viaggiatori tuttavia scelsero di non seguire questo tragitto e deviarono lungo un altro tracciato risalente all’età repubblicana, quello sul quale molti anni dopo, fra il 108 ed il 110 d.C., Traiano fece costruire la via Appia-Traiana. Si trattava di una variante della via Appia e collegava Beneventum (Benevento) a Brundisium (Brindisi), attraverso Aecae (Troia), Herdonia (Ordona), Canusium (Canosa di Puglia), Rubi (Ruvo di Puglia), Butontum (Bitonto); da qui proseguiva lungo la costa toccando Barium (Bari) ed Egnatia (centro presso Fasano). Nelle campagne pugliesi e in qualche città (Bari) o borgo (Polignano) è possibile trovarne ancora alcuni tratti lastricati e le relative colonne miliari.
Nel racconto la motivazione diplomatica della spedizione passa del tutto in secondo piano: anzi, Orazio mostra di non curarsene affatto. La cronaca del lungo e faticoso viaggio gli offre semplicemente occasione per descrivere in modo fresco e spigliato località, ambienti, personaggi più o meno buffi e scenette comiche: un pretesto che gli permette di ironizzare in modo pungente sulle manie e i pretenziosi intenti di una povera umanità. Il tutto condito da quella spontanea salacità tipica degli antichi popoli italici, tra i quali il genere satirico affonda le proprie radici. Il poeta mette inoltre in evidenza le condizioni precarie nelle quali affronta il viaggio e conclude esprimendo con forza la convinzione che gli dei conducono un’esistenza tranquilla estranea alla nostra realtà, non intervenendo nella vita dell’uomo.
LA SATIRA V, LIBRO I° Sermones
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“Uscito dalla grande Roma,
m’accolse ad Ariccia una modesta locanda;
m’era compagno il retore Eliodoro,
senza pari il piú dotto dei greci:
di lí a Foro d’Appio,
brulicante di barcaioli
e di osti malandrini.
Noi, sfaticati,
dividemmo in due questa tappa,
che per gente piú solerte è una sola;
ma l’Appia è meno faticosa
a chi la prende comoda.
Qui, per via dell’acqua, ch’era pestifera,
mi metto a dieta e attendo di cattivo umore
i compagni che cenano.
Già si preparava la notte
a stendere le ombre sulla terra
e a spargere di stelle il cielo,
quand’ecco i servi lanciare improperi ai barcaioli
e i barcaioli ai servi:
’Attracca qui!’; ’Macché!
vuoi imbarcarne trecento?’; ’Basta, basta!’.
Fra riscuotere il nolo e legare la mula,
se ne va un’ora buona.
Zanzare malefiche e ranocchi palustri
ci tormentano il sonno;
un barcaiolo, fradicio di vino,
canta l’amante lontana e con lui
fa a gara un passeggero,
finché sfinito questo si mette a dormire
e il barcaiolo assonnato,
mandata a pascolare la sua mula,
lega le redini a una roccia, poi supino prende a russare.
Era ormai quasi giorno, quando ci accorgiamo
che la barca non si muoveva:
allora salta su una testa calda
che con una verga di salice
sferza capo e lombi a mula e barcaiolo:
solo verso le dieci
finalmente sbarchiamo.
Con l’acqua di Feronia ci laviamo mani e faccia.
Dopo colazione, ci arrampichiamo per tre miglia
fin sotto alle pendici di Anxur,
arroccata su rupi che biancheggiano lontano.
Lí, con Cocceio,
doveva raggiungerci il mio buon Mecenate,
ambasciatori entrambi di affari importanti
e abituati ormai
a conciliare gli amici in discordia.
Stavo, per la congiuntivite,
ungendomi gli occhi con il collirio nero,
quando giungono Mecenate,
Cocceio e insieme a loro
Fonteio Capitone,
uomo di grande cortesia
e amico di Antonio quant’altri mai.
Con sollievo lasciamo Fondi,
dov’è pretore Aufidio Lusco,
ridendo delle insegne
di quello scribacchino matto:
pretexta, laticlavio
ed il braciere acceso.
Affaticati pernottiamo a Formia,
la città di Mamurra:
Murena ci offre l’alloggio,
Capitone la cena.
L’alba seguente
sorge lietissima come non mai:
a Sinuessa ci vengono incontro
Plozio, Vario e Virgilio,
anime che piú candide
non nacquero su questa terra
e a cui nessun altro è piú legato di me.
Che abbracci furono i nostri e che gioia!
Finché avrò senno,
niente paragonerò a un amico diletto.
Una casetta vicina al ponte Campano
ci offrí ricovero e i provveditori,
com’è loro dovere, legna e sale.
Da qui i muli depongono in orario
i loro basti a Capua.
Mecenate va a giocare, io e Virgilio a dormire:
il gioco della palla
non è certo indicato
per chi soffre d’occhi o di stomaco.
Piú avanti ci accoglie, provvista di ogni cosa,
la villa di Cocceio,
subito sopra le osterie di Caudio.
Ora vorrei, o Musa, che tu mi ricordassi
brevemente la rissa di Messio Cicirro
con quel buffone di Sarmento,
da quale padre siano nati e
come vennero a lite.
La gloriosa stirpe di Messio sono gli osci
e di Sarmento vive ancora la padrona:
discesi da tali antenati, vennero a contesa.
’Io dico’, comincia Sarmento,
’che tu assomigli a un cavallo selvaggio.’
Ridiamo, e Messio a sua volta: ’L’ammetto’,
e scuote la testa. ’Cosa faresti’, dice l’altro,
’se non t’avessero reciso dalla fronte il corno,
visto che pur mutilato minacci?’
E per la verità una brutta cicatrice
gli deturpava in mezzo ai peli della fronte
la parte sinistra del viso.
Dopo avere a lungo scherzato
sul morbo campano e sulla sua faccia,
gli chiede di mimare
la danza pastorale del Ciclope:
non gli sarebbero serviti
maschera o coturni da attore tragico.
Gli insulti di Cicirro non si contano:
gli chiedeva se avesse già donato
in voto ai Lari la catena;
gli ricordava che, pur essendo scrivano,
su di lui non era per nulla scemato
il diritto della padrona;
voleva sapere infine perché fosse fuggito,
dal momento che, gracile ed esile qual era,
gli doveva bastare una libbra di farro.
Cosí in piena allegria
portammo a termine la cena.
Di qui filiamo dritti a Benevento,
dove l’oste zelante per poco non si bruciò
girando sul fuoco i suoi magri tordi:
divampato l’incendio,
la fiamma guizzando per la vecchia cucina
minacciava di lambire il soffitto.
Avresti dovuto vedere
i clienti affamati e i servi impauriti
che cercavano di mettere in salvo i tordi
e tutti insieme di spegnere il fuoco.
A quel punto cominciano a mostrarsi
i monti a me ben noti dell’Apulia,
che sono bruciati dallo scirocco
e che mai noi avremmo valicati,
se non ci avesse ospitato un casale
vicino a Trevíco e tutto pieno di fumo
da farci lacrimare, perché il focolare
bruciava ramaglie umide e foglie.
Lí sono tanto sciocco da aspettare
sino a mezzanotte una ragazza bugiarda;
poi il sonno mi coglie assorto nelle voglie d’amore
e le visioni lascive di un sogno
mi fanno bagnare supino
la tunica da notte e il ventre.
E via di corsa in carrozza per ventiquattro miglia,
intendendo far tappa in una cittadina,
che non si può nominare nel verso,
ma che per certi aspetti
è facilissimo indicare:
qui l’acqua, la piú vile delle cose,
si compera; in compenso il pane
è senza confronti il migliore,
tanto che i viaggiatori accorti
hanno l’abitudine di farne provvista,
perché a Canosa,
località fondata un tempo dal forte Diomede,
oltre a mancar l’acqua, il pane è di pietra.
Qui Vario sconsolato
prende congedo dagli amici in lacrime.
Giungemmo quindi a Ruvo,
stanchi morti per esserci sorbiti
un tratto interminabile di strada,
reso in piú difficile dalla pioggia.
Il giorno appresso il tempo migliora, ma non la strada,
almeno sino alle mura della pescosa Bari.
Poi Egnazia, eretta contro il volere delle ninfe,
ci offrí motivo di risa e di scherni,
perché volevano qui farci credere
che l’incenso sulla soglia del tempio
si consumava senza fiamma.
Può pensarlo il giudeo Apella,
io no: gli dei, cosí ho sentito dire,
passano il loro tempo indifferenti
e, se qualche prodigio si verifica in natura,
non è certo l’ira divina
a precipitarcelo dall’alto dei cieli.
Brindisi pone fine al lungo viaggio
e fine alla mia satira.”
Quinto Orazio Flacco (Venosa, 8 dicembre 65 a.C. – Roma, 27 novembre 8 a.C.)