di Enzo Garofalo
E’ arrivato a Bari con il suo ultimo film “Return to Montauk”, proiettato per la prima volta in pubblico dopo l’anteprima all’ultimo Festival di Berlino, e per ritirare il premio che al Bari International Film Festival (Bif&st) rende omaggio all’eccellenza cinematografica, il Fellini Award. Lui è il regista Volker Schlöndorff, fra i capostipiti del Nuovo Cinema Tedesco, e ai premi importanti è abituato, avendo vinto nel 1979 la Palma d’Oro a Cannes e il premio Oscar per il “Il tamburo di latta”, un capolavoro tratto dall’omonimo romanzo del Premio Nobel Günter Grass. L’occasione era troppo ghiotta perché il Bif&st non approfittasse della sua presenza per regalare al pubblico un piccolo affresco dei decenni di esperienza che il regista ha vissuto nel mondo del grande cinema, avendo fatto tra l’altro da assistente a maestri del calibro di Louis Malle, Jean-Pierre Melville e Alain Resnais.
Protagonista di una affollata masterclass moderata dal critico Enrico Magrelli, Schlöndorff, 78 anni portati con vivace spirito giovanile, ha infatti ripercorso, con amabilità e in un ottimo italiano, alcuni momenti importanti della sua carriera a partire dalla sua prima volta al Festival di Cannes: “Nel 1966 ero a Cannes con il mio primo film, ‘I turbamenti del giovane Törless’ e conobbi tra gli altri Roman Polanski e Andrzej Wajda ma anche registi brasiliani e argentini, c’era un’atmosfera fantastica, ci sentivamo tutti una grande famiglia. La stessa atmosfera che ho ritrovato qui al Bif&st.” E’ iniziata così, con un omaggio alla manifestazione barese, il coinvolgente incontro che al Teatro Petruzzelli ha chiuso il ciclo di appuntamenti con importanti figure del mondo del Cinema.
Pochi minuti prima, la proiezione del suo ultimo film, Return to Montauk, era terminata fra i grandi applausi del pubblico, circostanza che Schlöndorff ha considerato di buon auspicio: “Se è andato bene qui a Bari vorrà dire che piacerà dappertutto”. Il film – un’intensa storia d’amore, di rimpianti e disillusioni – è tratto da un romanzo dello scrittore svizzero Max Frisch a cui l’opera è espressamente dedicata, confermando il gusto del regista per la letteratura, alla base di gran parte della sua filmografia: “Non so perché – ha osservato il regista – forse perché da ragazzino andavo poco al cinema e la letteratura era la mia finestra sul mondo. Ma credo ci sia anche un’altra ragione: gli scrittori hanno l’abitudine a combinare il mondo reale con un mondo di fantasia e di finzione, per cui le situazioni che vivono e le persone che incontrano vengono poi sublimati nell’immaginario della letteratura. Un po’ la stessa cosa che facciamo noi registi, talvolta facendo confusione, riscrivendo più volte le sceneggiature quando non funzionano e così finendo col tradire sempre di più le fonti reali. Ma nella vita reale le cose non si possono cambiare, accadono una volta sola. Io stesso vivo tra sogno e realtà e a volte non capisco dove sono”. Affermazioni queste che, non a caso, riassumono proprio la tematica del film presentato a Bari, che ha appunto per protagonista uno scrittore convinto che il passato possa “riscriversi”.
Proseguendo sull’utilizzo della fonti letterarie nel cinema, Schlöndorff ha ricordato come, dopo il successo del suo primo film abbia avuto “maggiore fiducia dai produttori portando sullo schermo i romanzi. In effetti – ammette – ho più o meno fallito ogni volta che ho parlato di me stesso, così sono diventato prigioniero degli adattamenti. Forse avrei dovuto essere autobiografico già dal mio primo film, ma allora avevo già 25 anni, dovevo esordire per forza altrimenti poi sarebbe stato troppo tardi ed ero talmente ambizioso da essere concentrato più sul cinema che sulla mia vita. Mi resta il rimpianto, che se invece di un film tratto da un romanzo di Musil avessi fatto un film autobiografico, forse ne sarebbe uscita un’opera più interessante.”
Tutto sommato il rapporto con la letteratura è stato per Schlöndorff molto fortunato considerato che il film forse più famoso del regista, quello con cui ha vinto tra gli altri premi la Palma d’Oro a Cannes e il premio Oscar, è tratto da un romanzo, “Il tamburo di latta” di Günter Grass: “Tutti mi dicevano che avrei dovuto portarlo io sullo schermo ma non ne ero per niente convinto, non volevo affrontare quel mondo grottesco, esagerato, surreale che c’era nel romanzo. Quando poi decisi di accettare, mi posi il problema di trovare il protagonista che nel libro era un nano: non riuscivo a trovarlo, sebbene avessi interpellato diversi circhi in Europa. Poi il mio amico Bertrand Tavernier mi disse che il pubblico avrebbe avuto difficoltà a identificarsi con un nano e lì ebbi l’illuminazione: utilizzare un ragazzino anziché un nano. Trovai così un dodicenne che però aveva un fisico di un bambino di quattro o cinque anni e capii che poteva diventare l’anima del film. E capii anche che potevo raccontare quella storia.”
In modo diverso andarono le cose con la riduzione di “Un amore di Swann”, frammento del romanzo di Proust “Alla ricerca del tempo perduto”: “quella fu un’operazione complicata e sbagliata, e non ho problemi ad ammetterlo. Prima di me ci avevano già provato Luchino Visconti e Joseph Losey con una sceneggiatura di Harold Pinter. Intanto il tempo passava e la produttrice smaniava perché da lì a un anno i diritti del romanzo sarebbero diventati di pubblico dominio. Per ottenere i finanziamenti fu così messo insieme un cast che comprendeva Jeremy Irons, bravissimo, Alain Delon che nel suo ruolo si rivelò invece un disastro, e Ornella Muti, nella parte di Odette. Finì che tra gli attori non si creò alcuna alchimia. Avrei dovuto abbandonare il progetto per tempo, ascoltando i consigli di chi diceva che un film da Proust era un’impresa impossibile. Nell’insieme, quindi, il film non funzionò anche se contiene alcuni momenti tra i migliori di tutto il mio cinema.”
Con una rapida virata all’indietro verso i suoi esordi, Schlöndorff ha ricordato come ad appena 16 anni fosse stato mandato a Parigi a studiare francese in un collegio di Gesuiti. Avrebbe dovuto rimanerci per due mesi, ma vi rimase 10 anni: “Non in collegio, però! – ha puntualizzato il regista ridendo –. A 19 anni con Tavernier capimmo finalmente che volevamo fare il cinema, per cui vivevamo di classici visti alla Cinémathèque française e frequentavamo gente come Chabrol, Godard, Truffaut, poi ho cominciato a fare l’assistente per Louis Malle, Jean-Pierre Melville e Alain Resnais. Io penso che la vera rivoluzione non sia stata quella del ’68, ma quella partita dal ’59 in Francia, con Brigitte Bardot, poi la fine del colonialismo, poi ancora i Beatles e i Rolling Stones e un’intera generazione che capì che voleva esprimersi in maniera diversa da quella dei genitori, volevamo partire da una nostra visione personale della vita.”
La menzione dei Rolling Stones, non poteva non suggerire al critico Enrico Magrelli una domanda sulla collaborazione di Schlöndorff con Brian Jones, il noto chitarrista scomparso tragicamente, autore delle musiche del secondo film del regista, “Vivi ma non uccidere”. “Per questo film – spiega – il primo da una storia originale, volevo un cast non convenzionale e quindi scelsi come protagonista la modella Anita Pallenberg che all’epoca era la compagna di Brian Jones, con il quale venne a Monaco. Lui mi propose subito di fare la colonna sonora del film e io accettai volentieri. Era però già confuso, drogato, e infatti la musica non venne fuori un granché. Poi una mattina a Cannes andai a trovare Anita Pallenberg nella sua camera d’albergo e la ritrovai a letto con Keith Richards!…”
Tra i tanti incontri importanti di Schlöndorff c’è anche quello con il celebre regista austriaco-statunitense Billy Wilder: “ho girato un documentario su di lui, durante il quale mi ha spiegato che ci sono storie complicate raccontate in un contesto complicato, storie semplici raccontate in un contesto complicato, ma mi ha insegnato che per funzionare davvero una storia deve essere semplice e raccontata in un contesto semplice. Chi voglia rivedere quell’intervista può trovarla su You Tube”.
La Masterclass si è conclusa con la risposta a uno spettatore che gli chiedeva un consiglio su come approcciare il lavoro di regista: “Bisogna accostarsi alla regia senza avere mai nostalgia per il cinema del passato. Oggi viviamo in un’altra epoca e con la tecnologia che abbiamo a disposizione sarebbe meglio, piuttosto che rievocare il passato, inventare le forme narrative del futuro.”
© RIPRODUZIONE RISERVATA