Così ci appare la Croazia in una giornata di aprile. Merletto di isole vaporose che la nave aggira come un fusello.
Quando nei primi anni ottanta ho percorso la stessa rotta e la stabilità delle navi Jadrolinija non confliggeva ancora con le ruggini e l’usura degli arredi di un cinquantennio di traversate quotidiane, la frontiera si chiamava Jugoslavia e il controllo di dogana, certo lungo e meticoloso, era unico. Le banchine pullulanti di donne e uomini che si facevano largo con cartelli Rooms, Zimmer, Camere e sorrisi accoglienti non ci sono più, sostituiti dai messaggi iconici del turismo di massa. Pur provenendo da Matera e naturalmente indirizzati a usufruire del porto di Bari, preferiamo imbarcarci da Ancona per Split e risparmiarci in andata sei frontiere consecutive nel cuneo di poche decine di chilometri di costa bosniaca, esperienza non motivante che abbiamo riservato al viaggio di ritorno da Dubrovnik con una dilatazione esponenziale dei tempi di percorrenza.
Siamo l’unico pullman non diretto a Medjugorje. Oggi il pellegrinaggio si chiama turismo religioso. Il linguaggio della modernità non è riuscito a sottrarre lo stesso spirito di espiazione e gioia mistica che muoveva i pellegrini medievali. Come pure le istanze separatiste e nazionaliste, fiorite in questi decenni e fomentate da surrogati conflitti di fedi religiose, hanno fatto sì che il principio sacrosanto di autoderminazione dei popoli assuma il sapore di un ritorno al medioevo.
Anche il nostro è un viaggio religioso. Se per religione si intende la libertà legittima di professare il culto dei padri e delle madri. Ortodossi, cattolici, ebrei e musulmani hanno convissuto e dialogato fianco a fianco nei Balcani tanto sotto l’Impero Ottomano, quanto sotto l’impero austroungarico. Con l’editto di Blagaj, a pochi chilometri da Mostar, di cui si conservano due copie, una nella tekja (casa) dei dervisci e l’altra nel convento francescano di Fojnica, il sultano Mehmet II el Faith riconosce il diritto alle genti di Bosnia di professare la propria fede nel rispetto reciproco. Era il 1463. Chi voglia, oggi, rinnegare quell’atto costitutivo della compresenza di intrecci di culture e tradizioni religiose, sotto i colpi degli scontri e della paura, disconosce e mina una delle idee fondanti dell’Europa.
Durante l’epoca del maresciallo Tito, gli aspetti religiosi collettivi e privati, accantonati dal governo ma mai sopiti nelle coscienze dei popoli, erano visti come potenziali intralci del socialismo verso l’unico culto reale da coltivare, ossia quello dell’unità di un grande Stato degli Slavi del sud, sogno irrimediabilmente dissolto. La propaganda ideologica titina, che si palesava ai miei occhi nel mio primo viaggio di ragazza con numerosi segni (statue e ritratti del presidente, giganteschi alberghi di stato, slogan sui muri, fotografie nei negozi, parchi patriottici per lo svago delle famiglie, colonie estive per la gioventù e gli scolari), è stata spazzata via come ogni damnatio memoriae antica o moderna. Ogni epoca ha i suoi eroi e protagonisti, ma francamente dubito che le amnesie complete rappresentino un farmaco ai dolori della storia. Certamente bene non fanno ai politici attuali, che preferiscono avere memoria corta.
Di quel viaggio da studentessa avevo la consapevolezza di aver incontrato per la prima volta “l’altra Europa”, quella della disomogeneità e del crogiuolo di culture per cui avevo ricevuto in terza media il primo premio di un concorso sull’unità europea. Per la prima volta avevo indossato il velo per ammirare una moschea, compreso cosa fosse un caravanserraglio, osservato l’allineamento di architetture asburgiche senza soluzione di continuità con edifici ottomani, percorso coloratissimi bazar, attratta tanto dalla Sacher viennese, quanto dal baklava turco. Certo ogni anno visitavo la Fiera del Levante di Bari, la nostra porta verso l’Oriente vicino e lontano, ma non era la stessa cosa. Come diversa era anche la spinta di quel viaggio, un anticipo o un ologramma di una Istanbul balcanica, un tuffo in un modello di vita di un paese “non allineato”.
Ho avuto il desiderio e la presunzione di far vivere le stesse emozioni ai miei studenti dell’ultima classe, ma questa volta, io e loro, due generazioni, abbiamo guardato per la prima volta negli occhi la guerra. Negli occhi chiari di Ámela, la nostra guida di Mostar, e negli occhi scuri di Amzà, il nostro Hermes psychopompo di Sarajevo.
Quando l’autista ci scarica al parcheggio della Chiesa di S. Francesco, il suo snello campanile in cemento armato svetta più in alto di ogni minareto. Siamo sulla riva destra della Neretva e scopriremo di trovarci, anche dai modelli abitativi, nella zona a prevalenza cristiana di Mostar. Nessuno ci dirà di evitare di percorrere con la soma dei nostri bagagli il centro ottomano, lastricato di lapilli fluviali. Tutto sommato attraversare quasi come penitenti il ponte Stari Most, accarezzato dalla luce del tramonto, costruito nel 1566, distrutto nel 1993 e riaperto nel 2004, ci fa cogliere il suo valore funzionale e simbolico. Il ponte non unisce solo le due sponde della città, contraddistinta da tre comunità maggioritarie (i bosgnacchi musulmani, i serbi ortodossi della Repubblica Srpska e i croati cattolici dell’Herzegovina), con la fatica del suo passaggio giustifichiamo le difficoltà d’incontro tra le vie dell’Oriente e dell’Occidente.
È sera. Il via vai dei vicoli di Mostar si è acquietato. La luna riveste d’argento i selciati e i tetti di lastre di pietra, di cui noto solo ora la bellezza. I minareti e le cupole delle moschee illuminano la notte. Il letto del fiume si agita sotto l’abbraccio di sette ponti. Dal basso del lungofiume provengono musiche balcaniche. In un pub scavato nella roccia risuonano i pezzi della band di Pavel, che sui social scopro seguitissimo. Ammetto di conoscere solo Goran Bregovic, presenza piuttosto assidua in Puglia e Basilicata, e di ignorare completamente se il gruppo interpreti l’evoluzione della sevdah mostarina, una sorta di balkan blues che trasforma la musica tradizionale bosniaca, eseguita originariamente con il saz (un mandolino orientale) e malinconici struggimenti d’amore europei e sefarditi, in ritmi più allegri e incalzanti di violini, fisarmoniche e chitarre.
L’indomani Ámela ci aspetta, mentre noi ci attardiamo tra le raffinate comodità dell’hotel e nel molle consumo della colazione degna di un sultano. E ci risveglia dai vagheggiamenti da Mille e una notte, mentre noi ammiriamo l’imponente hamam pubblico, gongolanti perché ricostruito con gli aiuti finanziari dell’Italia. “Giratevi di là”, ci dice piano, riportandoci alla realtà cariata e maleodorante di un palazzo che fu favoloso, sull’opposto lato della strada. Stiamo percorrendo il ponte del bagno ottomano, teatro di gravissimi scontri dal marzo del 1993. I minuscoli villaggi dell’Erzegovina, come Pocitelj, un pittoresco e inaspettato borgo ottomano lungo la Neretva, portano tutti gli sfregi della guerra. Srebrenika è una pagina della follia delle supremazie etniche, una Melo del ventesimo secolo. Mostar, ci spiega, è stata più colpita di Sarajevo, in quanto isolata. Nessun convoglio umanitario riusciva ad arrivare. La popolazione che non era riuscita a fuggire viveva nei rifugi in grotta e poteva uscire solo di notte per procurarsi il cibo, calato dagli aerei. La nostra guida era una bimba di nove anni durante quell’inferno. La sua voce si spezza mentre racconta che sua sorella una volta inciampò sul selciato per un ostacolo invisibile al buio. Una gamba umana.
Voglio visitare il Liceo, di recente ricostruito in stile neomoresco, in un’area piantumata ed elegante. In un unico edificio si dispiegano due ali: un corridoio accoglie i ragazzi che seguono i programmi croati e l’altro frequentato dai bosniaci musulmani, separazione artificiosa che va dalle elementari all’università. Dopo la guerra 1992-94, il conflitto prosegue sul piano linguistico e sulla formazione culturale. La guida, un’insegnante di lingue, ci ha spiegato che la Repubblica Srpska impone programmi in lingua serba e caratteri cirillici. Ma i bosniaci colgono in questi provvedimenti un tentativo di pulizia etnica e preferiscono iscrivere i propri figli nelle scuole che seguono i programmi di Sarajevo. I Serbi, – avevo imparato a scuola-, fratelli meridionali dei Russi, avevano rappresentato da sempre l’avamposto di difesa all’avanzata dei musulmani, figli di un dio minore. Ecco perché spesso sui cartelli stradali le scritte in alfabeto cirillico sono cancellate.
Avrebbe frequentato questo liceo, penso, la mia alunna Sanja, studentessa a Matera nei primi anni del duemila, se non fosse stata strappata alla sua terra quando aveva sei-sette anni. Mentre mi trovo nella sua città, ricordo il suo italiano dall’accento grave e bellissimo, il suo sentirsi né di qua né di là, come ogni persona di confine. Ho avuto il privilegio di insegnarle le lingue classiche.
Il tuffo dalla chiave di volta dello Stari Most è diventata un’attrazione turistica. C’è gente che paga per vedere lo spettacolo e i più temerari fanno dei tuffi un mezzo di sostentamento. Il rischio è la forza della corrente e di fallire nel centrare il punto di sette metri di profondità. Nel mio viaggio precedente i giovani più valenti facevano delle competizioni tra loro e soprattutto, in capannelli, si godevano il passeggio ammiccando alle turiste.
La compravendita di oggetti artigianali in rame, in argento e in pietra ci assorbe molte energie. Oltre al cambio, in verità non sempre necessario, acquistare è una vera conquista, perché noi non sappiamo più cosa significa contrattare sul prezzo. Una usanza che, se disattesa, può essere interpretata come cattiva educazione. Tutti sono socievolissimi, in attesa di rispolverare, a inizio stagione, la conversazione in italiano.
Da Mostar la strada prosegue con lunghe e ampie salite fino a Sarajevo. Ci riserva paesaggi di spettacolare bellezza, montagne e colline, boschi, fiumi, torrenti e laghi. Come sempre ho con me alcuni libri, Scoprire i Balcani, le poesie di Izet Sarajlić e Il ponte sulla Drina di Ivo Andric. Non leggerò quasi nulla, ma rappresentano il mio ramo d’oro.
La chiamano la Gerusalemme dei Balcani. A partire dalla Baščaršija, il quartiere turco, lungo un’unica via ci sono due maestose cattedrali, una cattolica e una ortodossa, una frequentatissima moschea e una sinagoga. Un punto sulla pavimentazione dell’arteria pedonale demarca la topografia delle fedi religiose che si incrociano come in una rosa dei venti e le “rose di Sarajevo”, le tracce sull’asfalto della deflagrazione delle bombe ora ricoperte di vernice rossa, ce lo ricordano continuamente mentre camminiamo.
Arriviamo di sera. La voce metallica dell’ultimo richiamo alla preghiera del muezzin proviene dal minareto di fronte all’albergo: è il primo suono distinto che ci accoglie, infondendo in noi un senso di pace e spiritualità. Arriviamo per ricostruire nel nostro immaginario una Sarajevo dei vivi, dopo essere passati con l’autobus lungo cimiteri estesissimi, macchie di filari di pilastrini bianchi, uguali persino nelle date, che si ergono fitti in diverse aree della città. Non ci spieghiamo perché manchi il divieto di seppellire accanto alle case e alle strade. È così che si guarda negli occhi la guerra? 1450 giorni di assedio, 12.000 vittime, 1500 bambini, le ferite sembrano sanguinare ancora.
Al mattino trovo Amza ad aspettarci. È un simpatico giovane nato a Bologna, da padre bosniaco musulmano e madre rumena ortodossa. La sua famiglia mista è il tipico esempio della popolazione multietnica di Sarajevo. Dichiara di essere contento di non sentirsi più un “diverso”, come accadeva quando andava a scuola in Italia. Ci farà da guida durante il nostro soggiorno. Stabiliamo insieme il percorso a piedi a partire dalla fontana della piazza di Baščaršija, per raggiungere, attraverso le vie degli orefici e degli artigiani del rame, dei mercanti di tappeti e dei caffé, la moschea Gavi Husrev-Beg, sede di un’importante scuola, a giudicare dal numero delle ragazze e dei ragazzi che attraversano il cortile delle abluzioni.
Facciamo il nostro ingresso con il capo coperto e i piedi scalzi. Per molti è la prima esperienza di un luogo sacro non cattolico. Amza recita per noi una preghiera sunnita, prono e con il capo rivolto alla Mecca, poggia la fronte sul tappeto. Il sacrificio del ramadan sta per cominciare e bisogna assestare l’organismo al lungo digiuno diurno.
All’incrocio del Ponte Latino, lungo il corso della Miljacka, una tappa d’obbligo rievoca l’inizio del secolo breve. Qui si consumò l’attentato e l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando da parte dello studente Gavrilo Princip. All’atmosfera retro contribuisce il passaggio di tram sverniciati e cigolanti che sembrano provenire dalla stessa epoca.
Mentre visitiamo solo all’esterno la celebre Biblioteca, irrimediabilmente danneggiata nel suo patrimonio librario del 90%, ricostruita in stile ottomano e ora sede del centro culturale della città, ci proponiamo di visitare il Tunnel della salvezza. In direzione dell’aeroporto, a valle della città un boulevard di quattro chilometri costeggiato da piste ciclabili, palazzoni ricostruiti o ancora sventrati, riconosciamo l’unico grattacielo di vetro della citta, la Torre Avaz, di 176 metri.
Oggi la mancanza di mezzi, per non dire la povertà, è dignitosa e si respira l’orgoglio di chi sa vivere con poco. Non ho notato abitazioni, auto e brand di lusso. Non è che vogliamo fare loro i conti in tasca, ma siamo curiosi di confrontare quanto valga in Bosnia il lavoro. Amza ci risponde che uno stipendio può partire dall’equivalente di 250 euro e raggiungere la media di 500.
Carenza di viveri e mezzi, assenza di erogazione idrica e corrente elettrica erano davvero drammatici allora, ci spiega mentre commentiamo le fotografie documentarie all’ingresso del tunnel. La moneta di maggior valore erano le sigarette. Un pacchetto valeva dai 15 ai 40 euro. L’ingresso si trova nel cortile di una modesta casa di periferia, messa a disposizione dall’anziana proprietaria, perché vicinissima all’unica area neutrale dell’aeroporto, controllata dalle forze dell’ONU.
Numerosi volontari bosniaci, ora ritratti sulle pareti dell’ingresso, scavarono una galleria di 800 m, alta 1,60 m e larga 0,80 m, lavorando ininterrottamente da gennaio a giugno 1993 e posizionando binari per il trasporto di carichi pesanti, feriti e ammalati. È spontaneo rievocare le sequenze cinematografiche di Venuto al mondo e di Welcome to Sarajevo. Mentre percorro il Tunnel of Hope penso al trauma e alla paura delle nascite e delle rinascite, al cordone ombelicale e alla natural burella dantesca.
Il Parco e la riserva naturale di Vrelo Bosne ci restituiscono l’ossigeno. Come pure la lunga passeggiata dal belvedere della collina, a partire dalla caratteristica stazione abbandonata di Bistrik, un esempio eccellente di architettura funzionale bosniaca. È da lì che salutiamo la città con un arrivederci.
Per l’ultima volta abbiamo voluto congedarci dalla Bosnia dinanzi a un piatto di ćevapčici, aromatiche polpette cilindriche di manzo e agnello, accompagnate da una pita fragrante e salse allo yogurt e ai peperoni. C’è chi già la rimpiange, insieme agli anni del liceo. Gli occhi sembrano scoppiare. A Sarajevo Fioriscono i tigli, dice il verso di una canzone, è ora di tornare.
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