di Enzo Garofalo
Il concerto sinfonico in cartellone lo scorso 17 ottobre al Teatro Petruzzelli di Bari ha riservato gradevolissime sorprese rivelando al pubblico due giovani e interessanti talenti approdati di recente ai teatri e alle sale da concerto italiani: il direttore d’orchestra inglese di origine indiana Alpesh Chauhan e il violinista russo-tedesco di origine coreana Roman Kim, apprezzatissimi ospiti dell’Orchestra del Teatro Petruzzelli. Un programma decisamente impegnativo dal punto di vista esecutivo ed estremamente ricco di contenuti emozionali è stato lo speciale banco di prova che i due artisti hanno affrontato e superato con una sicurezza ed un controllo davvero sorprendenti, senza trascurare una sensibilità musicale di prim’ordine, qualità che non sempre va di pari passo con l’impeccabilità tecnica, ma che in questo caso è stata profusa a piene mani.
Il primo capolavoro che ha dato a Chauhan l’opportunità di mostrare la sua capacità di interloquire al meglio con l’orchestra, ottenendone massimo coinvolgimento, chiarezza e profondità di lettura della pagina musicale, è stato “Voyevoda”, la ballata sinfonica che Pëtr Il’ič Čajkovskij scrisse nel 1891 ispirandosi alla traduzione curata da Pushkin di un poema del polacco Adam Mickiewicz. Una storia drammatica di amore e morte tradotta in musica con una maestria che è superfluo sottolineare ma che, complice la fredda accoglienza del pubblico in occasione della prima esecuzione, portò l’autore – pur inizialmente soddisfatto del suo lavoro – a distruggerne la partitura, fortunatamente poi ricostruita da Alexander Ziloti grazie al recupero delle parti orchestrali. Un brano in cui già s’avvertono le cupe atmosfere della Sesta Sinfonia, la celebre “Patetica”, considerata il testamento spirituale di Čajkovskij. Una curiosità: in questo lavoro il compositore impiega per la prima volta la celesta, strumento di recente concezione successivamente, e più notoriamente, utilizzato anche nel balletto Lo Schiaccianoci.
Il Concerto n. 1 in re maggiore per violino e orchestra op. 6 di Niccolò Paganini ha invece offerto il destro al violinista Roman Kim per far apprezzare le sue formidabili doti tecniche non disgiunte da una matura ricerca espressiva e da una nitidezza di suono davvero notevoli, soprattutto tenuto conto della giovanissima età (22 anni). Qualità che gli hanno permesso di affrontare con disinvoltura il virtuosismo trascendentale della parte solistica della composizione, decisamente preminente sull’orchestra e piena di ardimenti tecnici impensabili prima di Paganini, peraltro non disgiunti da uno spiccato gusto per la melodia. Iperbolici passaggi tecnici si coniugano infatti con momenti di più intenso lirismo, salvaguardando il valore della sostanza musicale. Più ad effetto invece le Variazioni di Paganini su God save the King, brano fuori programma eseguito come omaggio speciale al pubblico. Anche qui una nota curiosa, stavolta sull’interprete: l’uso di un paio di bizzarri occhiali (a dire il vero piuttosto antiestetici) nel presumibile intento di accentuare le possibilità di controllo dello strumento. Del resto Roman Kim dichiara apertamente di essere interessato “ad ampliare le possibilità sonore e i limiti tecnici del violino”.
Grande prova di eclettismo per Alpesh Chauhan che in chiusura ha diretto la Sinfonia n. 6 in si minore op. 54 di Dmitrij Šostakovič, ottenendo un’esecuzione di grande intensità e brillantezza, complice l’Orchestra del Teatro in una delle sue migliori serate. Quanta inquietudine e struggente malinconia in quel “Largo” di amplissime proporzioni con cui il pezzo esordisce: c’è già tutto il presentimento della tragedia che sta per abbattersi sull’umanità con la Seconda Guerra Mondiale. Eppure negli intenti dichiarati dall’Autore questa sinfonia doveva essere “un tentativo di esprimere le atmosfere di primavera, di gioia, di vita”. Un obiettivo decisamente mancato, com’era normale che fosse in quel clima. Anche l'”Allegro” centrale ed il “Presto” conclusivo hanno andamenti quasi parodistici, nei quali la vivacità e la ricchezza della scrittura strumentale appaiono poste al servizio dello spirito corrosivo dell’autore, infallibile interprete di un senso di dissoluzione che già incombeva sull’esistenza di tutti.
Intense e meritate acclamazioni per tutti gli interpreti non potevano che essere la degna conclusione di un magnifico concerto.