di Enzo Garofalo
Ricordo nitidamente quella sera di giugno di circa sette anni fa quando vi misi piede per la prima volta. Avevo sempre avuto il mito della Terra delle Sirene, quella terra che l’inglese Norman Douglas aveva descritto in modo estremamente suggestivo nel suo long-seller Siren land, un quaderno di viaggio del 1911 nel quale aveva trasfuso tutta la sua passione per quella che gli antichi consideravano l’immagine riflessa in terra dei mitici Campi Elisi. Luminosa sede di eroi e semidei. Ora finalmente ne avrei colto un’immagine più intensa, non da semplice turista di passaggio, ma soffermandomi ad assaporare quelle emozioni che mi si fecero incontro nell’istante stesso in cui varcai il cancello della casa dove avrei soggiornato per alcuni giorni.
Con un gruppo di amici carissimi arrivai alle porte di Sorrento all’imbrunire e, dopo un breve tragitto, costeggiando i muri di cinta di antiche ville e di alberghi dai nomi altisonanti, evocanti il soggiorno di teste coronate, esuli russi, celebri musicisti, coppie in fuga d’amore, giungemmo in via Aniello Califano dove ci stava conducendo il nostro giovane ospite. Residente a Napoli nel resto dell’anno, aveva deciso infatti di farci conoscere la sua abituale dimora estiva.
Chiuso il cancello alle nostre spalle, attraversammo un piccolo giardino affollato di palme di S. Pietro, agavi e lussureggianti buganvillee, che separava la casa – una villa-palazzo di fine 800 – dal muro di cinta e dalla strada e imboccammo un vialetto che costeggiava il fianco destro dell’edificio. Il nostro ospite, ansioso di rendere agevole il nostro ingresso, si fiondò ad accendere le luci del giardino la cui estensione proseguiva fin sul retro della casa. Fu come l’illuminarsi di una sorprendente scena teatrale: due altissimi e secolari pini italici dal tronco possente proiettavano l’ombra del loro magnifico ombrello di rami su un immenso parco-terrazza prospiciente il bordo dell’alta scogliera sorrentina e costellato di arbusti tipici della macchia mediterranea, di rossi ibiscus, di palme delle Canarie e di vasi stracolmi di colorati gerani edera. Sotto di noi s’udiva lo sciabordio delle onde del mare, raggiungibile tramite una lunga scalinata tagliata nel costone roccioso, mentre di fronte si stagliava in lontananza la scura sagoma del Vesuvio, incombente sulle luci notturne di Napoli e sull’intero golfo partenopeo. Una vista che ci lasciò senza fiato. Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, quasi a non violare l’incantesimo di quel momento che in un sol colpo d’occhio riassumeva secoli di speculazioni filosofiche sulla Bellezza e sul suo potere taumaturgico per lo spirito.
Stimolato dai racconti familiari del nostro ospite, volli in seguito approfondire la storia di quel luogo e venni così a scoprire che l’intero edificio insiste – fatto, questo, comune a molte dimore di Sorrento – su antiche strutture architettoniche di epoca romana, resti di ville marittime per lo più appartenute a membri della corte imperiale o a generali dell’esercito e in parte ancora visibili negli spazi destinati ad albergo. Il nome di questa affascinante struttura d’accoglienza – Lorelei et Londres – era un evidente richiamo, sia pure nella sua versione nordica e fluviale, al mito delle Sirene, leggendarie abitatrici di questi lidi, e alla capitale britannica, leziosamente evocata con nome francese. Scoprii altresì che quell’albergo – citato nei Baedeker dei viaggiatori della Belle Epoque – era stato a suo tempo il rifugio privilegiato di pittori paesaggisti e di letterati, come il napoletano Salvatore Di Giacomo e l’irrequieta e bella scrittrice e poetessa piemontese Sibilla Aleramo, che ne fece una sorta di dimora ‘del cuore’. Oggi si staglia contro l’orizzonte marino col suo colore rosa antico (che lo distingue dall’adiacente bianca Villa Garzilli) e con l’insegna scolorita dal tempo, arroccato sulla scogliera che incombe sul porticciolo di Marina Piccola, ma dal 2007 – dopo oltre un secolo di onorato servizio – è stato chiuso, forse per ristrutturazioni, ed al momento non è dato conoscere il suo destino.
All’interno, chi ha avuto modo di vederlo racconta che persistono tracce evidenti della gloria passata, come stucchi parietali, pavimenti intarsiati e lastre in pietra, per quanto recanti i segni implacabili di un inesorabile declino, fra arredi d’antiquariato e bric-à-brac di dubbio gusto. Ma ogni disagio veniva superato nel momento in cui il cliente si affacciava sui quei balconi dalla vista sublime.
Ogni mattina – ai nostri giorni, come ai tempi d’oro – la sala della colazione di questo albergo posto ad appena 15 minuti di cammino dal cuore di Sorrento si riempiva di inglesi alle prese con i loro programmi per il giorno dopo, di americani che passavano in rassegna le ‘avventure’ del giorno prima, di coppie di italiani intenti a consumare il loro cappuccino in religioso silenzio, di giovani di ogni nazionalità intenti a discutere, sacco in spalla, se fare una gita a Pompei, se scendere con l’ascensore a fare una nuotata lungo il molo privato, se fare un salto più tardi in centro per un limoncello-tour a base di assaggi gratuiti o se magari stare ad osservare gli anziani intenti a giocare a scopone sotto i portici settecenteschi dalle volte affrescate…
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