di Enzo Garofalo
Dopo il successo del volume #mineviandanti sull’Appia antica (Les Flaneurs Edizioni), la giornalista e fotoreporter beneventana Valentina Barile si è rimessa in viaggio sugli antichi basolati, purtroppo più immaginati che realmente calpestati vista l’esigua percentuale visibile dei loro resti. E lo ha fatto con #Mineviandanti sulla Via Popilia , resoconto di un viaggio volto a captare atmosfere, osservare paesaggi naturali, umani e culturali di oggi lungo quella che è stata la strada antica più importante del Sud Italia (la Capua-Regium), la cui costruzione sarebbe avvenuta nel 132 a.C. su iniziativa del console Publio Popilio Lenate. In realtà non manca chi attribuisce l’inizio della sua costruzione nel 153 a.C. al console Tito Annio Lusco o chi, salvi i meriti di Popilio, la vuole completata nel 131 da Tito Annio Rufo. Una questione controversa che non cambia la sostanza del ruolo strategico svolto da questa strada che, staccandosi dalla Via Appia a Capua, conduceva attraverso la Lucania e il Bruzio (l’odierna Calabria) fino a Reggio Calabria. Un collegamento stabile che Roma volle con la “Civitas foederata Regium”, importante città sull’estrema punta della penisola italica.
Diverse e complementari, Valentina e la sua inseparabile compagna di viaggio Federica, partono con la loro “Mini Minor giallo fiammante” da Santa Maria Capua Vetere, con la benedizione di Ida Gennarelli, direttore del museo archeologico dell’Antica Capua, dell’anfiteatro e del mitreo. Il viaggio si snoda inizialmente sullo sfondo di uno scenario in cui non è raro vedere natura e cemento rincorrersi, e a volte braccarsi reciprocamente, espressione di un territorio in cui la più alta poesia della natura e della cultura e uno spiazzante degrado di entrambe a volte camminano mano nella mano. In luoghi poi, dove l’archeologia dovrebbe farla da padrona perché la storia trasuda da ogni pietra, non è raro trovare siti chiusi o non fruibili senza preavviso. Parco archeologico di Suessola e anfiteatro di Nola, sono visioni negate alle due viaggiatrici, perse in mezzo a un traffico dal caos mediorientale mentre sullo sfondo il Vesuvio, dio del fuoco, soccombe all’azione dei piromani.
Intanto la statale per Salerno, sfiorando Palma Campania e Sarno, corre fra motorini spetazzanti e ali di palazzi che le fanno da quinte, mentre l’occhio raccoglie qua e là lacerti di paesaggio sublime, quello che migliaia di anni fa dovette invece colmare lo sguardo del viandante diretto a Nuceria Alfaterna, una delle città più antiche della Campania, alle origini delle odierne Nocera Superiore e Inferiore. Anche qui sfuggirà alle due ”esploratrici” l’appuntamento con la storia. Il libro offre allora al lettore lo spunto per una necessaria considerazione: in Italia i beni archeologici finiscono con essere, più spesso di quanto non si immagini, semplice ”materiale” da pubblicazione scientifica: guai a farvi venire la voglia di un incontro ravvicinato, rischiate di passare per eccentrici e invadenti. E poi perché turbare il custode di un parco archeologico mentre guarda la partita di pallone nel suo ufficio o protestare perché ha deciso di chiudere i cancelli due ore prima? Chi lo ha piazzato lì, spesso per ragioni clientelari, gli ha garantito un’immunità totale, con la quale è meglio astenersi dall’interferire, pena un travaso di bile.
Ma le due ragazze non demordono ed eccole quindi di rapido passaggio a Cava de’Tirreni per poi abbandonare l’autostrada e proseguire sulle vecchie statali 18 e 19, direzione Calabria, non prima di aver sfiorato Battipaglia. Il pensiero corre all’antica Paestum, più a sud, preziosa testimonianza della civiltà magno-greca nonché oasi fra gli scempi in cui – scrive Valentina – si riconosce “la morfologia dei politicanti”. La delusione di Nocera si ripete a Eboli, l’antica Eburum, dove il Museo Archeologico di sabato e di domenica è terra di nessuno. Chiuso. Off limits. Guai ai visitatori che s’azzardino a tentare una visita nel week-end. Al Ministero non vogliono, svela il sindaco. Neppure se a tenere aperto il museo ci pensano dei volontari, gente infida così attaccata alla cultura!
E mentre le due temerarie avanzano, abbandonando la costa e virando verso gli Appennini, la Popilia continua a rimanere un fantasma, sepolta com’è sotto l’autostrada, ma in compenso l’immersione nella bellezza del Cilento è più che appagante. Gli Alburni costellati di borghi fanno da suggestivo sfondo in direzione Polla lungo la Statale 19. Ed è proprio a Polla che si cela una delle tracce più importanti dell’antica strada (le altre sono in Calabria): è la Lapis Pollae, quel cippo miliare da cui Valentina e Federica apprendono che per Reggio Calabria mancano ancora oltre 200 miglia, mentre la Lucania è vicina, anch’essa con le sue spiazzanti contraddizioni grazie a “un sistema fatto apposta per essere disfunzionale” come scrive Valentina evocando la Val d’Agri e alludendo agli scempi causati da uno sfruttamento petrolifero dissennato.
Complice l’afa soffocante dell’estate e il fumo degli incendi, per le nostre due protagoniste il viaggio si rivela più complesso del previsto, ma entrambe procedono imperterrite così, tappa per tappa, fra riflessione e pacato divertimento, duplice mood che attraversa dall’inizio alla fine la brillante scrittura di Valentina Barile, capace di scolpire in pochi tratti atmosfere e volti di una parte d’Italia il cui grande passato poco si confà al ruolo marginale in cui oggi lo si vede spesso relegato.
Il viaggio prosegue così, volutamente all’avventura, con una programmazione dei soggiorni ridotta all’osso e accollandosi i rischi di tutti gli imprevisti che una scelta del genere comporta. E prosegue fino all’estrema punta della Calabria, fra paesaggi e incontri, a volte esaltanti a volte sconcertanti, come questo nostro Paese che nel recesso più remoto dei suoi sogni vorrebbe vivere di rendita grazie alla sua storia e alla sua arte plurimillenarie, eppure riesce spesso a dare il peggio di sé quanto a trascuratezza e abbandono. Ma un libro come #Mineviandanti serve anche a questo, a raccontare un Paese che soffre di amnesia – la peggiore, quella che annulla il senso delle radici, dell’identità – e, al tempo stesso, a svelare l’esistenza di luoghi particolari, spesso poco conosciuti ma pronti, là dietro l’angolo, a lasciarsi scoprire. Forse sarebbe valsa la pena approfondirne un po’ di più la conoscenza, anche se la protagonista del racconto è lei, la Via Popilia: in fondo una via è pur sempre un trait d’union fra vari luoghi, oggi come duemila anni fa, e sono essi a darle un senso. In compenso però nel libro abbondano i volti umani e ciò che essi esprimono, dando un senso profondo all’esperienza del viaggio, di ogni viaggio, nel bene e nel male. E sul filo di questa umanità, fatta di autoctoni e di migranti, là al termine del viaggio, di fronte ai vasti orizzonti mediterranei, la scrittura di Valentina Barile si fa “canto”.
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