di Redazione FdS
“Non credo che esista in nessuna parte del mondo qualcosa di più bello della pianura ove fu Sibari. Vi è riunita ogni bellezza in una volta: la ridente verzura dei dintorni di Napoli, la vastità dei più maestosi paesaggi alpestri, il sole ed il mare della Grecia”: lo scriveva a fine ‘800 l’archeologo francese Charles-François Lenormant dopo i suoi molteplici viaggi nel sud dell’Italia, tra cui quello in Calabria del 1879. Nonostante le inevitabili trasformazioni nel paesaggio naturale determinate dalle bonifiche dell’area, un tempo parzialmente paludosa, col conseguente affermarsi di una discreta attività agricola fatta di agrumeti, oliveti e risaie, la Piana di Sibari – incastonata tra il massiccio del Pollino e l’altopiano della Sila – conserva un fascino straordinario.
Per rendersene conto basta affacciarsi da una delle alture che la circondano e coglierne una visione d’insieme che dall’entroterra raggiunge le azzurre acque del Mar Jonio. Qui, nei luoghi di una delle più raffinate città dell’antichità – la polis magnogreca di Sybaris -, la storia riecheggia nelle suggestioni del paesaggio e nelle tracce materiali che l’archeologia è riuscita a portare alla luce soprattutto nell’ultimo mezzo secolo. Purtroppo il particolare assetto geologico dell’area e la cronica carenza di fondi, ne hanno finora consentito solo un parziale recupero, e ancor meno per quanto concerne la città arcaica, la celebre Sybaris che gli Achei fondarono tra due fiumi (il Crati e il Sybaris) nella seconda metà dell’VIII° sec. a.C. e i Crotoniati distrussero nel 510 a.C. Una città che, come ha scritto l’archeologo Salvatore Settis, rappresentò per molto tempo “il modello di ricchezza e di cultura urbana avanzata” imponendosi come “la più opulenta città dell’Occidente greco”, caratteristiche che ne alimentarono la leggenda. Com’è noto, la città originaria – a cui antiche fonti attribuiscono un perimetro urbano di oltre 9 km, più di 300 mila abitanti e la supremazia sui vicini insediamenti – fu nel 444 a.C. rimpiazzata dalla colonia panellenica di Thurii il cui impianto, attribuito al celebre urbanista Ippodamo di Mileto, tuttavia non le si sovrappose del tutto. Nel 194 a.C. Thurii lasciò il posto alla colonia romana di Copia che – come afferma l’archeologo Emanuele Greco – non fu altro che la sua prosecuzione latina, con gli inevitabili cambiamenti introdotti a vari livelli, compreso quello urbanistico e architettonico, nel lungo arco di tempo che va dall’arrivo dei coloni romani al VII secolo d.C., epoca di abbandono del sito.
IL PARCO ARCHEOLOGICO E IL MUSEO NAZIONALE
Una parte dei resti dei tre insediamenti – ancora ampiamente imprigionati nel sottosuolo – è emersa nei decenni nelle località che formano l’attuale Parco Archeologico di Sibari, nel comune di Cassano allo Ionio (Cosenza): le contigue aree di Parco del cavallo, Prolungamento Strada e Casabianca, e quella di Stombi, poco distante dalle prime tre. In un edificio moderno a ridosso del Parco sorge invece il Museo Archeologico Nazionale della Sibaritide, attualmente in fase di profondo rinnovamento e senz’altro meritevole di una visita in quanto riunisce i reperti finora rinvenuti nell’area di Sybaris-Thurii-Copia oltre a quelli provenienti dai siti più importanti della zona, offrendo così un significativo spaccato della lunga storia del territorio. Si tratta di reperti che vanno da testimonianze delle popolazioni indigene che precedettero la colonizzazione greca dell’VIII secolo a.C. a corredi tombali, oggetti d’uso e votivi, preziosi monili e frammenti architettonici riconducibili alle varie fasi della storia del luogo, tra periodo greco e romano. In anni recenti le collezioni del museo sono state integrate con reperti restituiti da musei stranieri in quanto provenienti da scavi clandestini della zona e quindi illegalmente acquisiti.
Dell’area archeologica è oggi parzialmente visitabile il Parco del Cavallo, che si presenta come un sito pluristratificato: nel percorrere le strade basolate della colonia greca di Thurii, si incontrano alcuni dei monumenti della città romana di Copia, sovrapposti alla prima, come l’Emiciclo-teatro, le Terme, una ricca domus, la Porta Nord e un tratto delle mura urbane. Le attuali restrizioni di accesso al Parco sono dovute al persistente fenomeno di subsidenza riconducibile a cause geologiche e antropiche che hanno comportato un abbassamento degli strati archeologici sotto il livello del mare oltre a provocare inondazioni e ristagni d’acqua periodici fronteggiati con scarso successo tramite l’uso di pompe idrovore. Un recente studio condotto dall’ingegnere Nilo Domanico su incarico di Filippo Demma, direttore del Parco, ha evidenziato come la causa principale del problema sia una falda acquifera poco profonda, e prospettato una soluzione tecnica di contenimento che potrebbe rappresentare l’inizio di una nuova fase storica per il sito, soprattutto sotto il profilo della possibilità di intraprendere nuovi scavi oltre che di garantire una maggior tutela ai resti già riportati alla luce.
TRA LE TECHE DEL MUSEO: LA ”MISTERIOSA” MANO PANTEA
Volendo offrire ai nostri lettori qualche anticipazione sugli interessanti reperti che potranno scoprire visitando il Museo di Sibari, abbiamo immaginato un breve percorso tra le sue teche soffermandoci su alcuni degli oggetti più affascinanti. Cominciamo con un reperto decisamente insolito capace, nella sua enigmaticità, di evocare la presenza di pratiche occulte legate a qualche religione misteriosofica. Si tratta della cosiddetta Mano Pantea, reperto del I° sec. d.C. che riproduce in bronzo una mano atteggiata nel gesto della benedizione sacerdotale (con tre dita distese e l’anulare e il mignolo ripiegati sul palmo), gesto che quindi risale con tutta evidenza ad epoca pre-cristiana. A rendere però particolarmente enigmatico l’oggetto sono le figure sovrapposte alla mano, che si impongono all’attenzione dell’osservatore come gli elementi di un rebus (v. foto in alto). Ma vediamo innanzitutto di conoscere il contesto in cui il reperto è stato rinvenuto.
L’ECCEZIONALE SANTUARIO DI ”CASA BIANCA”, AREA DI CULTO MILLENARIA
La Mano Pantea proviene dall’area di un santuario le cui strutture furono riportate alla luce in località Casa Bianca, un sito nel quale, così come nel Parco del Cavallo, si registra la sovrapposizione di Thurii, la nuova entità urbana fortemente sostenuta da Pericle (ribattezzata Copia in età romana), su parte della città arcaica di Sybaris distrutta dai Crotoniati nel 510 a.C. Il ritrovamento del santuario è avvenuto tra il 2004 ed il 2012, durante lo scavo di un’area di circa 4 mila mq. diretto dalla compianta direttrice del museo Silvana Luppino e da Emanuele Greco, studioso della Scuola Archeologica Italiana di Atene. L’attenzione degli esperti si soffermò tra l’altro su un gruppo di tre plessi distinti, con al centro il santuario vero e proprio con cui gli altri edifici dovevano essere funzionalmente correlati. Il santuario, assegnabile all’età giulio-claudia (circa metà I° sec. d.C.) e quindi ascrivibile alla fase latina di Copia, sorgeva entro le mura della città, nei pressi della cd. Porta Marina, affacciato su una delle strade principali (plateiai) che lo metteva in diretta comunicazione con il teatro di Copia. Separato dalla strada da un imponente muro di almeno 5 metri, esso era introdotto da un portico a colonne ioniche dal quale si accedeva ad un peristilio. Al fondo, rispetto all’ingresso, si elevava il podio del tempio. Nell’area circostante sono stati recuperati minuti frammenti della decorazione architettonica litica, varie basi votive, qualche ex voto ed un pozzo situato poco a sud-est del tempio. Sempre nelle vicinanze furono inoltre ritrovati una moneta di Faustina Minore databile al 141 d.C. e un tempietto anonimo dalla cui cella è emersa un’iscrizione su lastra di marmo con i nomi di due prefetti che curarono la fabbrica e il collaudo dell’edificio (ritenuto antecedente al 96 d.C.).
La cosa più sorprendente emersa però dallo scavo fu constatare come la stratigrafia rivelasse la presenza di altre aree di culto sottostanti. Essa ha infatti consentito di risalire a ritroso nei secoli dall’età giulio-claudia fino a tracce del V sec. a.C. passando per un’area sacra di età tardo-repubblicana (I sec. a.C.) e un’altra del III° sec. a.C. Non manca tuttavia qualche traccia ancora più antica, sebbene riemersa in strati più recenti, e cioè un’antefissa a maschera gorgonica – risalente al secondo quarto del VI secolo a.C., indizio della probabile presenza di un edificio sacro – oltre a ceramica arcaica di risulta: tutti materiali che ci riportano al tempo di Sybaris. Il luogo venne infine sconvolto da un violento sisma nella seconda metà del II secolo d.C. e ciò che rimaneva delle strutture fu sottoposto a spoliazione, probabilmente intorno al IV secolo, per poi finire sotto uno spesso strato di limo alluvionale del fiume Crati. L’eccezionalità del monumento ritrovato – fa notare Emanuele Greco – risiede innanzitutto nell’essere testimonianza di una frequentazione di carattere cultuale avvenuta nell’arco di circa un millennio, scandito dalla successione delle tre città.
IL CULTO DELLA DEA EGIZIA ISIDE
Dopo la straordinaria scoperta, l’attenzione degli archeologi si è concentrata sull’identificazione della divinità a cui il tempio, almeno nella sua ultima fase, era dedicato. Incontrovertibile è subito apparsa una iscrizione su lamina in bronzo ritrovato in uno degli ambienti del complesso. Di probabile età domizianea, contiene la dedica di un certo Caius Marcius Silvanus a Iside, dea egizia della vita, della guarigione, della fertilità e della magia, il cui culto approdò in Italia almeno dal III° sec. a.C., godendo di particolare favore nel corso della dinastia flavia (69-96 d.C.). Agli studiosi si pose però il dilemma di capire se tale divinità fosse ricollegabile al santuario di età giulio-claudia fin dalla sua erezione o se invece fosse diventata oggetto di culto solo in una fase successiva e magari relegata ad un ambiente secondario dell’edificio. A tal fine il ritrovamento di alcuni elementi ascrivibili alla decorazione plastica del santuario ha offerto argomenti di riflessione.
UNA “MANO” CONTRO I MALEFICI
Uno degli elementi rinvenuti è appunto la Mano Pantea (I° sec. d.C.), con le misteriose figure accessorie che la completano: si tratta di una mano destra che sulle due dita ripiegate mostra il busto di Hermes (Mercurio), dio della sapienza (nella fusione sincretica del suo culto con quello del dio egizio Thot), accompagnatore dello spirito dei morti, riconoscibile dal caratteristico copricapo (petaso); il corredo di figure comprende inoltre due serpenti crestati (agatodemoni, con funzione magico-religiosa protettiva), una pigna (simbolo di vitale forza generatrice), una lucertola (simbolo di rigenerazione), e una tartaruga (animale legato a Hermes e considerato dagli antichi dotato della virtù di scongiurare i malefici, nonché simbolo di prudenza e costante protezione). Come si può notare, le fattezze di questa mano attingono a complesse simbologie esoteriche che ritroviamo (con alcune aggiunte o varianti, come il caduceo, la testa di ariete e il fallo, attinenti comunque all’evocazione di potenze soprannaturali in grado di allontanare forze malefiche) in oggetti analoghi ritrovati in altri luoghi d’Italia come Roma, Pompei, Ercolano. Detto anche “Mano di Sabazio”, questo oggetto veniva ricollegato alla figura dell’omonimo dio (originario dell’Asia Minore ma noto anche in Grecia dove riuniva caratteristiche di Zeus e di Dioniso) e costituiva un vero e proprio oggetto liturgico fissato su aste per processioni, oppure destinato ai santuari o al culto domestico. Il suo rinvenimento all’interno di un santuario isiaco non deve sorpendere perché la tendenza all’assimilazione o associazione di Sabazio con altre divinità nell’ambito del diffuso sincretismo religioso in età imperiale, fece sì che lo si trovasse correlato a divinità come Cibele, Mithra e appunto Iside (in quest’ultimo caso non è raro trovare tra gli elementi decorativi della mano la testa di Serapide o il sistro, strumento musicale rituale connesso al culto di Iside).
ALTRI REPERTI ”EGITTIZZANTI”
Altro oggetto associabile alla pratica del culto isiaco nel santuario di Casa Bianca è una lucerna, che l’archeologo Valentino Gasparini definisce “di chiara ispirazione egittizzante”. Allo stesso contesto – aggiunge lo studioso – sembrerebbe riconducibile anche il frammentario e bellissimo Toro Cozzante, un originale bronzeo della fine del V – inizi del IV secolo a.C. , maldestramente restaurato in età romana, che pur riecheggiando il simbolo tipico della monetazione di Thurii in epoca classica, potrebbe essere stato ricontestualizzato nel santuario per alludere al dio egizio Api. La presenza isiaca trova ulteriori indizi in due reperti di età tardo-tolemaica: un frammentario torso maschile in basalto, identificabile come immagine del dio Horus-Arpocrate e non a caso riscontrato nella sua versione ellenizzata anche su una lucerna del I° secolo d.C. rinvenuta a Parco del Cavallo; e il frammento di una statua in granito nero, con superstite la sola estremità degli arti inferiori di una figura maschile stante, probabilmente di rango regale. Si tratta – spiega Gasparini – di originali egizi che contribuivano all’apparato decorativo del santuario insieme ad altri pezzi di fattura sicuramente romana di cui sono sopravvissuti solo alcuni frammenti. Al culto isiaco riporterebbero anche alcuni frammenti in pietra calcarea provenienti dal fregio ad alto rilievo della trabeazione del tempio e decorati con falchi (rapaci simbolo del dio Horus), oltre che con elementi vegetali tra cui spighe di grano, capsule di papaveri, pigne (tutti attributi isiaci); elementi che trovano riscontro in noti complessi isiaci fuori Egitto. Significativi sono infine alcuni frammenti di capitelli corinzieggianti sui quali compaiono degli urei (cobra egizi) rampanti e con testa coronata, affiancati alle volute del capitello, dettaglio anche questo non privo di molteplici riscontri in area mediterranea. Insomma tutto concorre – conclude l’archeologo – a definire l’atmosfera egittizzante di cui il tempio doveva essere ammantato, consentendo di ipotizzare che l’intero santuario fosse consacrato al culto di Iside e dei numi ad essa legati, ovvero Api, Arpocrate, Osiride, probabilmente anche Serapide, Anubi, e altri.
L’USO RITUALE DELL’ACQUA E LE TRACCE ARCHEOBOTANICHE
Nell’area del tempio sono stati inoltre ritrovati due esemplari di bacile marmoreo (labrum) che dovettero servire ai fedeli per potersi ritualmente purificare prima di accedere al luogo sacro. Legati ad un probabile uso rituale dell’acqua risultano essere anche un pozzo ed un sistema idraulico costituito da tre distinti canali di raccolta delle acque pluviali convogliate dal tetto del porticato del santuario, con un dispositivo in grado di consentire artificialmente l’inondazione dell’intera area della corte, per rievocare a scopo rituale – secondo una verosimile ipotesi formulata dagli archeologi – l’annuale inondazione del Nilo.
Interessanti suggestioni in chiave isiaca – sebbene non sia da escludere il legame con rituali funerari – provengono anche dagli esiti dello studio archeobotanico di resti organici ritrovati nell’area sacra di età giulio-claudia e riconducibili a sacrifici rituali: si tratta di essenze legnose quali il pino domestico (Pinus pinea) e la quercia (Quercus sp.), oltre che di offerte di fiori della famiglia delle Rosaceae, di pinoli e pigne, elementi ricorrenti nelle pratiche isiache come testimoniato da fonti letterarie, affreschi pompeiani e ritrovamenti in contesti sacrificali di sicura matrice isiaca.
Concludiamo questo rapido sguardo ad uno dei più interessanti ritrovamenti archeologici dell’ultimo ventennio, sottolineandone il duplice motivo di rarità: il primo è dato dalla stratificazione unica del luogo, in quanto – spiega Emanuele Greco – non risulta che altri santuari egiziaci siano stati impiantati sopra precedenti strutture sacrali; anzi, normalmente i culti orientali prendevano posto in aree non prima occupate. A rendere inoltre raro questo ritrovamento è il quadro attuale di sostanziale carenza di evidenze archeologiche relative ai culti isiaci in Magna Grecia a sud dell’asse Paestum-Bari. Per quest’area – osserva Valentino Gasparini – gli unici materiali significativi ci sono giunti finora solo da Brindisi, Lecce, Taranto, Locri e Reggio, con il resto della Calabria e la vicina Basilicata rimaste in una sorta di cono d’ombra; lacune che sembrano da ricondurre più alla insufficienza di indagini sul campo che ad una accertata assenza storica di tali culti nell’area in questione. In attesa dunque di scoperte future non resta che concedersi una visita al Museo Archeologico di Sibari per prendere visione della Mano Pantea e di tutti gli altri reperti in esposizione.
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Museo Archeologico Nazionale della Sibaritide,
Strada statale 106 Jonica, Km 24, Cassano allo Ionio (CS)
Apertura: dal martedì alla domenica, ore 9:00 – 19:30 (la biglietteria chiude alle 19:00)
Ticket: intero 5 euro; 18-25 anni 2 euro; meno di 18 anni gratuito
Area archeologica Parco del Cavallo (visita parziale inclusa nel biglietto del Museo)
Aperto dal martedì alla domenica, 10:00 – 16:00
Dell’offerta culturale del Parco di Sibari fa parte anche il Museo Archeologico Nazionale “Vincenzo Laviola”, presso la poco distante Amendolara (P.zza Giovanni XXIII – Info: 0981 911329)
Altre info: www.parcosibari.it
AA.VV., Il santuario delle divinità orientali e i suoi predecessori (Sibari – Casa Bianca), Scavi 2007, 2009-2012, Vol. 89, Serie III Vol. 11, Giorgio Bretschneider, Roma, 2012, pp. 370
E. Greco, V. Gasparini, Il santuario di Sibari – Casa Bianca, in L. Bricault, R. Veymiers (eds.), Bibliotheca Isiaca, III, Bordeaux 2014, pp. 55-72
E. Greco, Il santuario delle divinità orientali e la stratificazione preromana (scavi 2007, 2009-2011, 2012), in Annuario della Scuola Archeologica di Atene LXXXIX, serie III, 11, tomo II, 2011
Frederic Thomas Elworthy, The Mano Pantea, in The Evil Eye: An Account of Ancient and Widespread Superstition, John Murray Albemarle Street, London, 1895, pp. 472