A lui si deve la progettazione del sistema che misurava e controllava tutti i parametri di bordo della navicella Apollo. Nato nel 1924 a San Marco Argentano, emigrò negli USA col padre e la sorella nel 1937
di Redazione FdS
“Dario – America’s gift to an immigrant”: se nel titolo della sua autobiografia pubblicata nel 2011 è racchiuso un profondo sentimento di gratitudine verso gli Stati Uniti, Paese che tante opportunità gli ha offerto nella vita, non meno significativo sarà l’omaggio che quest’anno le autorità americane tributeranno, presso la Kennedy Hall di Washington, a lui e a tutti coloro che hanno contribuito in modo determinante alla riuscita della missione Apollo 11, quella che 50 anni fa – il 20 luglio 1969 – ha portato l’uomo per la prima volta sulla Luna. Parliamo di Dario Antonucci, un nome che forse nulla dice al grande pubblico, ma che appartiene all’ingegnere calabrese progettista del sistema che misurava e controllava tutti i parametri di bordo della navicella spaziale Apollo. Un uomo che, consapevole di partecipare a un’impresa straordinaria, si impegnò strenuamente in quella missione, dedicandosi fino a notte fonda al proprio lavoro, svolto a New York in un laboratorio poco distante da casa sua.
Impiegato presso la Grumman Aerospace Corporation, società nota per aver prodotto gli aerei utilizzati in Europa durante la 2a Guerra Mondiale, Dario ebbe presto modo di operare anche nel settore dell’ingegneria aerospaziale al quale il colosso industriale si era da poco accostato realizzando gli Orbiting Astronomical Observer, precursori del telescopio Hubble. Già nel ’62 la Grumman aveva inoltre firmato un contratto con la NASA per realizzare la strumentazione del modulo lunare (LEM), e dopo aver affidato, senza esiti convincenti, il progetto a un nutrito gruppo di persone, aveva optato per un team più ristretto, composto da tredici tecnici e quattro ingegneri, con a capo proprio Dario Antonucci.
Come Dario ricorda nel suo libro, quella missione – la prima di una serie a cui avrebbe continuato a collaborare – sarebbe stata l’occasione per produrre un nutrito bagaglio di tecnologia rimasto poi alla base anche delle missioni odierne così come di quelle future. Frattanto non era venuta meno in lui la passione per gli aerei, che lo avrebbe portato a collaborare anche ai progetti del bimotore turboelica C-2 e dell’aereo da guerra F-14 Tomcat, quello pilotato da Tom Cruise nel film Top Gun.
E mentre l’ingegnere ripercorre nella sua autobiografia i momenti salienti di una carriera ricca di soddisfazioni, non manca di ricordare, a se stesso e agli altri, il mondo delle proprie origini – una Calabria anni ’20, bella ma poverissima – convinto che “tu non puoi sapere dove stai andando se non sai da dove vieni”.
UN’INFANZIA IN CALABRIA
Il pensiero di Dario è infatti costantemente rivolto alla Calabria dov’è nato nel 1924 e ha vissuto fino al 1937, anno in cui tredicenne sarebbe partito alla volta degli USA a bordo del leggendario transatlantico Rex insieme al padre Angelo, contadino e reduce della Ia Guerra Mondiale, e alla sorella maggiore Giulia. In realtà il padre era emigrato da solo negli USA già nel 1923 mentre la moglie Rosa Lecce, giovanissima vedova di guerra che aveva sposato nel 1921, era rimasta in Calabria con la loro prima figlia e in attesa di Dario.
Gli Antonucci vivevano a San Marco Argentano, piccolo e antichissimo borgo in provincia di Cosenza, in una fattoria fuori dal paese, in contrada Iotta, dove la nonna paterna Giuseppina Patitucci, morto il marito Gaetano, si era trasferita nel 1913 dopo aver abitato per anni in contrada Richetto, una valle nei pressi della Cattedrale. Proprio nella fattoria di Iotta, posta nel punto più alto di un terreno collinare e affacciata su profonde vallate, sarebbe nato Dario nel 1924. I suoi nonni materni erano invece Giuseppe Lecce e Maddalena Argondizza, abitavano nello stesso paese, in contrada Stamile, ma erano entrambi originari di Mongrassano (Cosenza), piccolo paese abitato da persone di minoranza etnico-linguistica albanese (arbëreshë), presenti in Calabria da oltre 4 secoli.
A quel tempo la vita in campagna era molto dura: i terreni scoscesi ne imponevano la lavorazione a mano, con zappe e picconi o, al massimo, con l’aiuto di un gruppo di buoi, come quelli acquistati dal padre di Dario che, nel frattempo, era riuscito a comprare un altro pezzo di terra, stavolta pianeggiante e ricco d’acqua, posto a qualche chilometro, in contrada Chiararia, fra alberi d’ulivo, fichi e querce, risorse utili per nutrire uomini e animali. Ma ciò non era purtroppo sufficiente a garantire un futuro certo alla giovane famiglia Antonucci. Così Angelo, già candidatosi a far parte della quota di emigranti italiani ammessi negli USA, era stato finalmente invitato a partire nell’estate del 1923, approdando a New York dove lo aspettava un fratello residente a Brooklyn. Abituato solo ai lavori manuali, trovò presto occupazione nei cantieri di edifici e della metropolitana e si iscrisse a una scuola serale per imparare l’inglese. La sua formazione scolastica italiana era minima ma sufficiente a permettergli di scrivere e inviare qualche dollaro alla moglie Rosa, rimasta in Calabria a lavorare la terra nonostante il suo stato.
Era l’inizio di marzo del 1924 quando Rosa, impegnata a lavorare nei campi al nono mese di gravidanza, s’accorse che il parto era ormai imminente. Il lieto evento avvenne la sera dell’8 marzo e il mattino successivo la nascita di Dario fu annunciata dalla nonna paterna ai contadini confinanti con due colpi di postola sparati in aria. Per mamma Rosa l’esonero dal lavoro durò pochi giorni: tornata presto nei campi, si fermava solo per allattare il piccolo. Intanto il padre veniva sfruttato a New York per via della poca cultura e per le difficoltà con l’inglese, ma fece di tutto per migliorarsi e riuscire così a trovare condizioni di lavoro più decenti. Entro la fine dell’anno fu infatti assunto in una fabbrica di lampadari, ma il lavoro era al chiuso e, contadino com’era, abituato da sempre a stare all’aperto, lo svolse con grande sofferenza. Così, quando nel 1925 seppe che un compaesano aveva avviato un business da mastro giardiniere a Long Island, riuscì a farsi assumere per tagliare erba e potare siepi, abitando a pensione dal suo stesso datore di lavoro.
Qualcosa di drammatico stava però per accadere in Calabria: la povera Rosa, di fronte all’improvvida vendita dei buoi decisa arbitrariamente da suo cognato, pronto a trasferirsi a Padova con la moglie nordica, se la prese così a male da compromettere le sue già precarie condizioni di salute. Ebbe quindi poco tempo per tirar su i suoi due bambini, Giulia e Dario, che curò con amore fino alla fine: i due fratelli crebbero infatti correndo nei campi, raccogliendo fiori selvatici, inseguendo rane, cicale e lucertole, saltando nelle pozzanghere e arrampicandosi sugli alberi, ma anche aiutando la mamma nella raccolta delle olive e delle ghiande, o nella cura degli animali, senza peraltro esservi mai costretti; il lavoro nei campi rimaneva tuttavia la principale prospettiva di vita dei due bambini: “mia madre mi ha insegnato a imbrigliare un asino quando avevo 5 anni”, avrebbe ricordato Dario nelle sue memorie. Intanto assistevano impotenti al declino fisico della donna, vittima anche di cure mediche scarse e approssimative, somministrate da un medico che interpretò come malaria una grave forma di tubercolosi.
Dario aveva 5 anni quando a New York suo padre si mise finalmente in proprio come giardiniere, imparò a guidare ed ottenne infine la cittadinanza americana. Era il 1929, e a Natale l’uomo tornò in Calabria nella speranza, vanificata dalla burocrazia, di portar via con sè la famiglia. Dario lo vide così per la prima volta e fu in quell’occasione che suo padre acquistò nei paraggi una nuova e più ampia casa insieme a otto ettari di terreno. Ripartito per New York, il resto della famiglia si trasferì nella nuova proprietà l’estate successiva, e i due bambini ormai più assiduamente coinvolti nei lavori di fattoria, intrapresero lo studio scolastico a cui la mamma, sebbene analfabeta, teneva tantissimo. A 5 anni Dario iniziò a frequentare una scuola di campagna fatta d’una sola stanza costruita in mattoni di creta, con due finestre munite di sportelli ma prive di vetri e uno sgabuzzino esterno come servizio igienico. Qui un maestro teneva lezione a quattro allievi che, a partire dagli otto anni dovevano, come tutti i loro coetanei, far parte dei Balilla (la gioventù fascista) pagando una tessera annua con cui si accedeva a esercitazioni paramilitari.
Della dittatura fascista Dario ricorda come non ci fosse facilità di accesso a notizie dal mondo, a riviste popolari o libri da leggere, prevalendo la stampa e le trasmissioni radiofoniche di regime, aggiungendo che in campagna non c’erano radio o telefoni, essendo questi consentiti solo ai notabili del paese e ai sostenitori del regime. A San Marco Argentano, spiega Dario, c’erano infatti solo sei apparecchi radiofonici e un solo telefono ubicato nel palazzo comunale. Indelebile poi il suo ricordo della confisca delle fedi nuziali, ordinata dal regime nel 1933 per finanziare la campagna militare in Etiopia. Nulla sembrava alleggerire un’esistenza fatta per lo più di duro lavoro: e in quelle aspre condizioni di vita Dario si ritrovò sempre più immerso, man mano che la salute della madre andava peggiorando. Un peggioramento che nell’inverno 1932-33 impedì nuovamente agli Antonucci di partire tutti insieme per l’America. Il padre di Dario tornò a New York ancora una volta da solo e quando finalmente nel 1934 sembrava che fosse la volta buona, la malattia di Rosa la costrinse definitivamente a letto, uccidendola nel Gennaio del ’35, dopo le festività natalizie trascorse col marito e i figli. Dario aveva 10 anni, sua sorella 12, e i passaporti tardarono ad arrivare ponendo un freno al sogno di Angelo di allontanare i propri figli dal regime fascista di Mussolini.
Prima di ripartire per New York a febbraio di quell’anno, Angelo sistemò la figlia nella scuola di un convento di monache a Cosenza e iscrisse Dario alle scuole di S. Marco Argentano, affidandolo a un ex professore che con sua moglie aveva aperto un pensionato. Dette invece in custodia la fattoria a un cognato, con l’impegno di pagare le spese dei ragazzi con i relativi ricavi. A San Marco Dario conobbe i pregiudizi sociali delle famiglie agiate, quelle che – dice con ironia – “sarebbero morte di fame se non ci fossero stati i contadini, o tamarri, come loro ci chiamavano con disprezzo”, eppure considerò fruttuoso il soggiorno in paese poichè, inserito finalmente in una scuola decente, poteva perseguire il suo obiettivo principale, quello di studiare e imparare.
Di quegli anni gli rimane il felice ricordo dell’anziano professor Aieta, un docente di origine ebraica che volle sapere tutto di lui, si mise a sua completa disposizione e gli consegnò tre libri, uno di Italiano, uno di Storia e uno di Matematica, avendo intuito il desiderio genuino del ragazzo di imparare. Lo aiutò molto nella matematica e un giorno, chiamatolo in disparte, gli disse che avrebbe voluto mostrargli il funzionamento dell’Universo. Dario si incuriosì, lo seguì in una stanza polverosa ed entrambi si avvicinarono a un grande oggetto, ricoperto anch’esso di uno spesso manto di polvere: era un modello in rame dell’Universo, tutto ossidato ma ancora funzionante. Girando una manovella, esso mostrava il sole e tutti i pianeti in movimento: “Era la cosa più bella che avessi mai visto – ricorda Dario – ed era la prima volta che entravo in contatto con la scienza.” Fu inoltre il suo primo approccio con il mondo dell’astronomia: una sorta di premonizione. Quell’uomo lo aveva letteralmente conquistato, e anche quando arrivò il momento di cambiare insegnante, non perse i contatti con lui perché continuò a seguirne fuori orario le lezioni di matematica e fisica, materie che avrebbero aperto la sua mente e orientato il suo futuro.
NEW YORK: L’APPRODO IN UN MONDO NUOVO
Nel 1937 il padre di Dario torna ancora una volta in Calabria e, finalmente, riescono a partire tutti insieme. La partenza da Napoli, il 19 febbraio, fu rocambolesca perché i funzionari fascisti fecero di tutto per fermare Dario con la scusa dei 14 anni non ancora compiuti. Giulia era già sulla nave, ma il ragazzo e suo padre, superando ogni ostacolo frapposto dalle autorità, riescono a salirvi solo all’ultimo secondo saltando letteralmente sulla passerella del transatlantico Rex, una delle navi più belle e grandi dell’epoca. A New York sbarcano il 27 ma già dal 25 i due ragazzi si vedono riconoscere la cittadinanza in virtù di quella paterna, evitando così il passaggio a Ellis Island. Hanno solo 30 dollari in tasca, ma per 25 riescono a prendere un taxi che li porta a Long Island, nella piccola casa in affitto del padre ora adattata per tre. E’ l’arrivo in un mondo nuovo, un salto da una realtà ancora arcaica alla vera modernità. Tempo un anno di lavoro e Angelo riesce a costruire una casa tutta per loro su un terreno che aveva già acquistato, e nel ’38 vi si trasferisce con i figli. Dario impara a fare il giardiniere come il padre e al tempo stesso va a scuola a Baldwin con la sorella, imparando velocemente l’inglese. Frequenta con profitto la scuola superiore, riuscendo a svolgere anche attività extracurriculari come suonare la viola e il violoncello.
E’ il 1942 quando 18enne decide di arruolarsi nelle forze armate venendo impiegato negli anni della guerra come radio operatore, ruolo che svolse su una nave prima al largo dell’Europa, poi in Asia e in Australia. Tornato nel ’46, era più che mai deciso a frequentare il college, aspirando a diventare ingegnere aeronautico al Politecnico di Brooklyn, ma poiché l’eccessivo numero di richieste lo avrebbe costretto ad attendere, decise di optare per i corsi serali, mentre di giorno lavorava per mantenersi. Ma presto fu obbligato a rivedere i suoi piani perché, impossibilitato a frequentare alcune materie propedeutiche, dovette virare sull’ingegneria elettrica e meccanica, laureandosi in entrambe le materie e decidendo successivamente di seguire anche corsi in elettrofisica, termodinamica e business management. Sedotto dal mondo della ricerca inizia a lavorare per Sylvania Research Labs, dove si occupa di microonde, ma quando l’azienda fu rilevata dal colosso GT&E trasferendo i laboratori in California, non se la sentì di lasciare i familiari (nel frattempo si era anche sposato con la giovane chimica Annette Ventura) per cui scelse di rimanere a New York andando a lavorare da Grumman Aerospace. Il suo destino era ormai segnato. Era il 1960 e l’epopea spaziale, ormai imminente, era lì ad aspettarlo. Oggi vive a Knoxville, nel Tennessee, ma non ha mai dimenticato la Calabria, dove è tornato più volte a ripercorrere quei sentieri di campagna che lo avevano visto bambino a San Marco Argentano.
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