Da Matera prendo l’Appia in direzione Taranto, un sabato mattina di sole, imbocco la provinciale per Ginosa e mi concedo un percorso bucolico lungo la Murgia bassa. In lontananza il luccichìo del Mar Ionio, a destra e sinistra pascoli pietrosi a perdita d’occhio interrotti da boschi e macchia. Raggiungere Ginosa è un micro viaggio denso di suggestioni tra passato e futuro: mentre attraversi le solitudini dell’area protetta del Parco della murgia materana, qua e là punteggiate dalle masserie di allevatori di bovini e cavalli, non ti sorprende costeggiare per un tratto le strutture avveniristiche del Centro di Geodesia Spaziale- Telespazio. Il miracolo è proprio qui, mi dico, nell’oggettivo deficit infrastrutturale che risparmia la terra dalla presenza antropica a volte selvaggia ed empia e fa della marginalità un valore aggiunto. Tre provincie si toccano, Matera, Bari e Taranto, una cuspide che racchiude un’area metropolitana omogenea per natura, cultura e identità, protesa da sempre e per sempre verso i mari e le terre d’Oriente a far da ponte tra il Mediterraneo e l’Europa. Oltre a questo aspetto di crocevia tra le culture, anche la capacità di tradurre in eccellenza le abilità artigianali della tradizione contribuisce a motivare la designazione di uno dei vertici del triangolo territoriale a capitale europea della cultura. È questo che voglio osservare e studiare, un esempio di abilità e eccellenza.
Incontro Angelo Inglese nel suo negozio all’angolo della luminosa piazza principale del paese moderno; il centro storico lo cinge e lo chiude dal basso, con le Gravine di Casale e Rivolta: vi scenderemo dopo, mi assicura, e promette di riservarmi una sorpresa. In verità mi sorprendono subito il sorriso di Angelo e della moglie Graziana, che con lui condivide da quindici anni sogni e lavoro. Ancor più mi sorprende la luce che balena negli occhi quando mi parla del suo lavoro e pronuncia un’espressione per me inedita, il turismo sartoriale, che sintetizza la volontà di contribuire, con il suo apporto creativo, a diversificare, implementare e potenziare l’offerta turistica del territorio, più che per quantità di presenze, per qualità e specificità delle azioni, nate da un felice connubio tra risorse, cultura, tradizione e imprenditorialità artigianali, pronte a tramutarsi in attrattive per il turismo internazionale e interno. Il viaggio sentimentale nella terra degli ulivi secolari, una speciale “via dei Sensi”, in cui anche alla sartoria spetta il compito di regalare emozioni, può prevedere una tappa a Ginosa, nell’atelier Inglese, e certo non solo per la meritata esplosione mediatica, ma per la perfezione delle camicie e dei capi realizzati interamente a mano, che hanno convinto i reali d’Inghilterra e soddisfatto le esigenze di una committenza internazionale raffinata e attenta alla cura del dettaglio.
La sartoria tradizionale su misura è un settore di nicchia in ripresa, che trova nel mercato maschile una crescente domanda di bespoke, non solo per la fascia degli arbitri elegantiarum, o dudes, definizione inglese diffusissima nella letteratura e sui blog del settore, quanto per rispondere a esigenze di un confort classico e sobrio per un pubblico ben più vasto. È chiaro che sia destinato a generare un indotto economico significativo, a patto che si educhi alla bellezza duratura più che al consumo eco-insostenibile. La scelta di restare al Sud, per di più in un Sud decentrato rispetto ai maggiori flussi di transito, a prescindere dal riconoscimento internazionale dell’altissima qualità della proposta creativa, non è mossa da un nostalgico e pur giustificato legame con la propria terra, ma a un’autentica azione culturale, fortemente simbolica. A fronte della logica dell’abbandono da parte delle nuove generazioni, in un altrove che sembra poter assicurare spazi e successi, la scelta alternativa di Angelo resta tenacemente quella di radicare il suo impegno e la notevole visibilità raggiunta nel difficile luogo di origine. Un esempio che dovrebbe far riflettere. E di certo a lui e al suo marchio non sono mancate seduzioni e proposte di investimenti allettanti. Ma la terra, le sue pietre, i suoi colori, i suoi frutti e i suoi profumi sono fonti continue d’ispirazione.
Finora si è servito di tessuti di provenienza italiana, svizzera e britannica, ora accarezza il progetto di realizzare una filiera sartoriale interamente locale, a partire dalle materie prime, ridando vita ai mestieri scomparsi dei tessitori, con il restauro dei telai tradizionali in legno e con la raccolta e la realizzazione di filati naturali, estratti dalle “piante dei padri”, che la natura offre spontaneamente, dalla ginestra, dall’ortica, dalla canapa, dal cotone e dalla tosatura delle pecore dell’alta Murgia di Altamura; poi dei tintori, con l’impiego di pigmenti naturali estratti dalle piante; degli artigiani del taglio e del cucito, delle sarte e delle ricamatrici, cui riserva una formazione continua in laboratorio, affidando lo scrigno dei segreti tramandati dalla sua famiglia. La perfezione si raggiunge con attenta precisione rivolta a tutte le fasi di realizzazione del capo e la cura meticolosa di ogni dettaglio, come ha appreso dalla nonna Annunziata, finissima camiciaia, cui si deve l’apertura della sartoria di famiglia, fondata nel 1955.
La vestibilità confortevole delle camicie Inglese non passò inosservata a Gianni Agnelli, che richiedeva loro un modello a polo, inusuale e esclusivo. Dal padre Giuseppe e dalla collaborazione degli zii ha assorbito ogni forma di sapere e virtù, indispensabili per raggiungere risultati artigianali superiori: mentre andava a scuola, studiava contemporaneamente ogni fase del processo di confezionamento che oggi prevede 25 rigorosissimi passaggi a mano e una trentina di ore di lavoro. Mentre Angelo si anima al ricordo dei primi passi nella sartoria di famiglia, io penso ai nostri armadi zeppi di capi “usa e getta”, spesso privi di controlli di qualità e, soprattutto, alla trasformazione dei concetti attuali di moda e eleganza, confusi con tendenza e griffe, che a volte nulla hanno a che fare con l’unicità della maestria artigianale. Un’arte, insomma, che ci sottrae dall’effimero sostituibile della società liquida,per dirla con Zygmunt Bauman. A vederli, oggi, nelle esposizioni, nei musei demoantropologici o indossati dalle donne più anziane nei paesi, i costumi storici tradizionali delle regioni meridionali si distinguono per lavorazione di stoffe e ricami, come accade per i velluti della Sardegna e i ricami in oro di Procida, stupisce constatare che le donne vestissero da regine, non meno degli uomini, nel costume della festa, e il valore dei loro abiti sembrasse sproporzionato al loro uso. Quei vestiti, quelle camicie, quei mantelli erano cuciti per sfidare il tempo, spesso sopravvivendo ai loro proprietari.
Le mie domande sono continue, mi interessa sapere chi sono i modelli di sarti e imprenditori a cui si ispira. Paragono il suo lavoro e la mission che si prefigge, naturalmente in attività e contesti diversificati, a quelli di Antonio Marras a Alghero, per il recupero della tradizione sarda e il radicamento al territorio, e a quelli di Brunello Cucinelli nel borgo umbro di Solomeo, per la filosofia dell’“impresa umanistica” e del “capitalismo etico”, che mira a investire sull’uomo per migliorare la qualità del lavoro, recuperare e valorizzare le bellezze del mondo. A questo punto mi parla del suo sogno, mentre ci inoltriamo nel cuore antico di Ginosa, duramente colpito dall’alluvione del 2013. Raggiungiamo il sagrato della cinquecentesca Chiesa Matrice, già dedicata a S. Martino di Tours. A pochi passi sorge il coevo Palazzo dell’Arciprete, a guardia della selvaggia Valle dell’Oscurusciuto, acquistato di recente per offrire una sede unitaria all’atelier͘.
L’edificio è semplice e severo, caratterizzato da un contrafforte e da un ingresso a corte. Visitiamo le ampie sale al piano terra, dotate di un forno, un palmento e splendidi camini in pietra. Ora è in corso di restauro, ma i lavori hanno subito una battuta d’arresto per la necessità di provvedere al consolidamento statico dell’area contigua di proprietà del Comune. La sorpresa è questa, mi dice, fonte di gioia e speranze e fonte di ansia e attese. Il tempo scorre in fretta, per un’impresa come la sua non c’è possibilità di sviluppo se tutte le fasi di lavorazione non vengano concentrate in un unico luogo. La sua richiesta alle istituzioni del territorio consiste nel poter usufruire di una sede consona, anche se provvisoria, che gli consenta di soddisfare una domanda crescente. Con soli nove collaboratori, sarte e ricamatrici, e una dotazione di preziose macchine Singer, l’azienda non riesce a produrre più di 4͘000 camicie l’anno. È una vera comunità: tra loro si respira una corale unità d’intenti, nella convinzione che un ambiente sereno e coeso esalti la creatività umana e la qualità finale sia il risultato della condivisione dei valori e delle qualità interiori di ciascuno.
In linea con una visione olistica del bello che coincide con il bene, si collocano il desiderio e il proposito di corredare ogni camicia con una bustina che contenga i semi della varietà di cotone da cui è realizzato il filato. Si sensibilizzerebbe la riflessione sul rapporto uomo-natura e sulle dinamiche di una corretta coscienza eco-biologica, attraverso la tracciabilità delle materie prime. Se poi, al termine del viaggio, vogliamo portarci dietro i profumi della Murgia e spingerci in una disciplina sconosciuta, l’archeologia vegetale, non abbiamo che affidarci all’olfatto: l’Acqua di Ginosa è un profumo distillato dal fiore del cappero, con note di gelsomino selvatico e di menta selvatica, raccolti lungo il territorio delle gravine, a cui si affiancano varianti più intense, con essenza di ginestra, o più delicate, con essenza di fico selvatico e fiore di cotone. La forza, la semplicità, il fascino di Ginosa sono l’oggetto dei suoi sogni e il laboratorio del suo successo.
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