di Enzo Garofalo
Nata dalla penna di Torquato Tasso, autore della Gerusalemme liberata (1581) la figura di Armida, la principessa-maga musulmana, ha ispirato – tra il XVII e i primi anni del XX secolo – oltre un centinaio di opere liriche e balletti, tutti ruotanti intorno al fatale amore fra lei e il guerriero cristiano Rinaldo al tempo delle Crociate in Terra Santa. Da Monteverdi a Lully, a Traetta, a Jommelli e a tanti altri, celebri e meno noti, sono numerosissimi i compositori ispirati dalla loro vicenda. E proprio la versione del pugliese Tommaso Traetta (1760) – su libretto di Giovanni Ambrogio Migliavacca ricavato dall’Armide, tragedie lirique di Quinault musicata da Lully (1686) – è tornata sulle scene nella edizione critica di Luisa Cosi grazie al 40° Festival della Valle d’Itria quale contributo della manifestazione di Martina Franca (Taranto) alla riscoperta e valorizzazione della grande Scuola Napoletana che ebbe molti pugliesi fra i suoi principali esponenti.
Affascina questo personaggio femminile intento a corrompere con le sue arti seduttive le schiere crociate, sicura di imporre lacci amorosi senza esserne a sua volta imbrigliata, ma come tutti gli esseri umani anche lei alla fine subisce l’incanto e il trasporto dei sensi perdendosi nello sguardo di Rinaldo a sua volta destinato – dopo una fase di iniziale e travolgente innamoramento – a resisterle con sommo sdegno di lei. La ripresa martinese di quest’opera che grande successo ebbe alla sua epoca, è la prima assoluta in tempi moderni, se si escludono alcune esecuzioni antologiche e solo concertistiche tenutesi negli ultimi dieci anni in Italia e all’estero.
Composta in occasione di festeggiamenti nuziali voluti dalla corte imperiale asburgica, l’Armida di Traetta si rivela oggetto di particolare interesse perché sancisce l’unione fra due modelli di opera lirica profondamente diversi, quello italiano incentrato sull’individualità solistica del belcanto, e quello francese interessato soprattutto all’azione drammatica, al coro, alla danza, all’orchestrazione. Il contesto internazionale che favorì la composizione dell’opera certo permise a Traetta di osare tale fusione riformatrice impensabile nei suoi anni napoletani in un ambiente poco incline a cambiamenti così radicali. Se però l’opera si giova senza dubbio della sapienza compositiva di un autore dotato di alta reputazione in tutta Europa, non risulta tuttavia brillare di quel particolare guizzo creativo riscontrabile in altri suoi lavori. Ciò non esclude la presenza di alcune arie e recitativi obbligati in cui Traetta vola alto, cosa che accade soprattutto, ed al massimo grado, nell’intera scena finale di Armida che con la sua chiusura aspra e concitata, si impone all’attenzione per originalità a capacità di anticipare sviluppi futuri.
L’allestimento martinese si è avvalso di un cast di buon livello, da ascriversi fra quelli rivelatisi più capaci di reggere bene l’impatto con le difficoltà dei ruoli, con un’esecuzione all’aperto e su un grande palcoscenico (il riferimento è al repertorio barocco negli anni portato in scena al Festival della Valle d’Itria). Lo hanno dimostrato anche i convinti e calorosi applausi del foltissimo pubblico presente nella corte di Palazzo Ducale. Ha molto convinto l’Armida del soprano Roberta Mameli che ha affrontato il complesso ruolo con grande impegno e senza risparmio di energie, conferendogli il giusto carattere grazie ad una voce e ad un temperamento scenico dalle ottime qualità espressive. Eccellente il Rinaldo del mezzosoprano Marina Comparato distintasi per l’ammirevole controllo vocale, la musicalità, l’eleganza del fraseggio e la padronanza scenica, qualità riscontrabili anche nel soprano Maria Meerovich che ha cantato nel ruolo di Artemidoro. Molto buona anche la prestazione vocale e scenica dei tenori Leonardo Cortellazzi (Idraote) e Mert Sungu (Ubaldo) e dei soprani Federica Carnevale e Leslie Visco, nei ruoli di Fenicia e Argene, confidenti di Armida. Ha confermato la propria versatilità l’Orchestra Internazionale d’Italia che ha offerto un’esecuzione di buon livello, sapientemente diretta dal M° Diego Fasolis, uno fra i più brillanti interpreti della scena internazionale.
Il rilievo dato alla danza in quest’opera è stato efficacemente sostenuto dai danzatori della compagnia Fattoria Vittadini su coreografie di Riccardo Olivier, peraltro caratterizzate da dosi di eccentricità a volte fuori luogo rispetto alle esigenze della musica e dell’azione drammatica. I veri punti deboli dell’intero allestimento sono però risultati regia, scene e costumi. Una regia insulsa, priva di dinamismo (che non fosse quello dei danzatori) e di soluzioni realmente creative, curata da Juliette Deschamps, ha fatto il paio con le scene praticamente ‘inesistenti’ di Nelson Willmotte ridotte a pochi spogli moduli geometrici di un colore grigio chiaro con gradini e dislivelli su cui hanno “agito” i personaggi dell’opera. Neppure l’idea – riportata dalla regista nelle note di sala – di un “paesaggio sopravvissuto alla guerra, un ‘paesaggio palinsesto’ che dia conto della storia, delle conquiste, delle invasioni”, ha trovato coerente attuazione in questo allestimento, che ha perseguito (con scarsi risultati) l’intento di “fare uno spettacolo con poco o niente: un secchio di vernice, dei pezzi di vetro, dei fiammiferi, un bastone per raccontare dei sortilegi…” E non hanno colto nel segno neppure i costumi di Vanessa Sannino, ai quali pur è parso volersi affidare il maggior impatto visivo. La scelta di esagerare i toni, creando a tratti (vedi in particolare Armida e i danzatori) figure da Drag Show modello “Priscilla, la regina del deserto” (celebre film ambientato nel mondo delle Drag Queen) non ha pagato per niente, aggiungendo note grottesche a un’opera che non le richiedeva. Tutto questo è un non senso nell’opera barocca, nella quale musica, scene e costumi erano i pilastri che fondendosi davano vita a spettacoli ricchi di fantasia, consentendo ad udito e vista di perdersi nelle suggestioni del meraviglioso e del magico.