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di Redazione FdS
Quando Corrado Giaquinto (nato a Molfetta da Francesco, sarto napoletano, e da Angela Fontana, quinto di otto figli, l’8 febbraio 1703, alle ore 21 e battezzato tre giorni dopo nella Cattedrale del borgo marinaro pugliese) dipinse questo capolavoro, oggi custodito al MET di New York, si trovava a Roma, città dove già nel 1727 aveva aperto una bottega indipendente presso ponte Sisto, nella parrocchia di San Giovanni della Malva, con l’allievo Giuseppe Rossi, poi suo testimone di nozze. Prima di allora era stato a lungo a Napoli, poi a Torino (dal 1733 al 1738) con una breve parentesi romana intermedia per motivi familiari, e poi ancora a Roma dal 1738, eseguendo durante l’anno successivo l’Assunzione della Vergine per la Parrocchiale di Rocca di Papa su commissione del nipote del papa Alessandro VIII, Pietro Ottoboni. La Lamentazione che qui vi presentiamo viene datata intorno al 1740, quindi è attribuibile proprio a questo periodo romano, nel corso del quale l’arte di Corrado Giaquinto – che negli anni napoletani era stata influenzata soprattutto dall’ultimo Luca Giordano oltre che, in certa misura, dalla scuola del Solimena (Giaquinto fu allievo del pittore Nicola Maria Rossi, a sua volta allievo del Solimena) – subisce una virata dal rococò in direzione del classicismo, anche per via dell’esempio dell’arte di Carlo Maratta e per l’influsso di artisti coevi come Pompeo Batoni e Pierre Subleyras.
Nella scena raffigurata nel dipinto si vede la Vergine che a mani giunte prega sul Cristo morto, il cui corpo scultoreo, messo in risalto da sapienti tagli di luce, è sorretto da un gruppo di angeli fra i quali spicca un cherubino ai piedi della croce nel gesto di tergersi le lacrime dagli occhi. Il dramma del momento sembra tuttavia concentrarsi più nell’atmosfera cupa che circonda i soggetti che non nelle loro attitudini, improntate più ad un senso di rassegnato malinconico turbamento a fronte di un ineluttabile sacrificio voluto da Dio per la salvezza dell’Uomo, che non ad un senso di devastante dolore, pur ricorrente in altri artisti alle prese con lo stesso soggetto. Il tutto è reso con linguaggio di grande eleganza e un colorismo che ha nella levità la sua cifra distintiva; del resto, come dice lo storico dell’arte Nicola Spinosa “Giaquinto a Roma schiarisce la tavolozza e realizza una pittura più luminosa, risalendo così alle radici del colorismo veneto del ‘500, filtrato dalla lezione del classicismo seicentesco”.
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