di Kasia Burney Gargiulo
Per l’uomo moderno il fascino principale di Pompei risiede oltre che nella straordinaria bellezza delle testimonianze d’arte e di civiltà che questa piccola città campana ha lasciato ai posteri, soprattutto nell’immane dramma umano che la sua storia racchiude; in quel suo essere rimasta come cristallizzata nell’attimo estremo della propria vita spezzata dalla furia del vulcano che se tanto ha distrutto, altrettanto ha conservato sotto una spessa coltre di ceneri e lapilli. Le sagome tridimensionali di uomini, donne, bambini, animali ottenute grazie alla geniale intuizione dell’archeologo Giuseppe Fiorelli – che a fine ‘800 ricavò i calchi delle vittime dell’eruzione colando gesso liquido nel vuoto lasciato dai loro corpi nella cenere – accresce ancor più il senso di profondo pathos che questa città ci trasmette. E se dai suoi affreschi, dagli oggetti di vita quotidiana, dalle frasi goliardiche graffite sui muri, riesce a comunicarci ancora una intensa gioia di vivere, al tempo stesso – percorrendo le sue vie ancora intatte – capita a volte di avvertirne quasi l’urlo, un’invocazione d’aiuto soffocata dall’oscurità di un giorno che ai testimoni dell’epoca parve come l’immagine stessa della fine del mondo. E proprio la voce di uno di questi testimoni vogliamo proporvi, quella di Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto anche Plinio il Giovane per distinguerlo dall’omonimo zio Plinio il Vecchio.
Plinio aveva 18 anni, suo padre era morto che era ancora bambino e in seguito era stato adottato dallo zio, il rinomato scrittore e naturalista di Como che al tempo dell’eruzione del Vesuvio si trovava sul Golfo di Napoli come prefetto della flotta imperiale romana all’ancora presso Miseno. Plinio il Vecchio allo scoppio dell’eruzione si imbarcò allo scopo di andare osservare il fenomeno vulcanico più da vicino e al tempo stesso per aiutare alcuni suoi amici in difficoltà sulle spiagge della baia di Napoli. Attraversò il golfo fino a Stabiae (oggi Castellammare di Stabia) dove però trovò la morte, a 56 anni, soffocato dalle esalazioni vulcaniche. Grazie a suo nipote, che seguì la vicenda dalla terraferma, possediamo una testimonianza diretta sull’eruzione; un resoconto delle ultime ore riferito in due lettere indirizzate, 27 anni dopo l’accaduto, all’amico Tacito, il celebre storico. Le lettere fanno parte del suo epistolario, Lettere ai familiari, l’opera maggiore di Plinio il Giovane composta da 247 epistole suddivise in nove libri più 121 aggiunte in seguito in un decimo libro. Sono la sedicesima e la ventesima del libro VI.
La data stessa dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. è stata ricavata dalla prima lettera. Nella variante più accreditata del manoscritto, si legge nonum kal. septembres cioè nove giorni prima delle Calende di settembre, data che corrisponde al 24 agosto. In tempi recenti però questa datazione [forse dovuta all’errore di un copista] è stata messa in dubbio* perchè alcuni dati archeologici emersi non si accordano col periodo estivo. Il ritrovamento di frutta secca carbonizzata, di bracieri, usati all’epoca per il riscaldamento, di mosto in fase di invecchiamento trovato ancora sigillato nei contenitori, e soprattutto, di una moneta riferita alla quindicesima acclamazione di Tito ad imperatore, avvenuta dopo l’8 settembre del 79, lasciano supporre che l’eruzione sia avvenuta in autunno, probabilmente il 24 ottobre di quell’anno. La tragedia di Pompei
Epistola VI, 16
“Mi hai chiesto di narrarti la morte di mio zio per tramandarla più esattamente ai posteri. Te ne sono grato; sono convinto infatti che, divulgata da te, la sua morte avrà gloria senza fine. Sebbene lui sia perito nel disastro di quelle splendide contrade, e sia per questo motivo destinato a perpetuo ricordo come le popolazioni e le città andate distrutte in quell’incancellabile cataclisma, e benchè abbia egli stesso composto numerose opere che resteranno nel tempo, purtuttavia la sua futura gloria molto si gioverà dell’eternità delle tue opere. Credo siano fortunati coloro ai quali gli dei hanno concesso il dono di compiere cose degne di essere raccontate o di scrivere cose degne di essere lette; ma certo più fortunati sono coloro che ebberò entrambe tali virtù. Fra questi ci sarà mio zio grazie ai suoi libri e ai tuoi. Pertanto accetto volentieri il compito che mi affidi.
Mio zio si trovava a Miseno dove comandava la flotta. Il nono giorno prima delle calende di settembre*, nel primo pomeriggio, mia madre gli indicò una nube di forma e grandezza straordinarie che era apparsa all’orizzonte. Dopo aver fatto un bagno di sole e poi uno freddo, si era fatto portare una colazione a letto e in quel momento stava studiando. Si fece portare i calzari e salì in un punto elevato da dove si poteva perfettamente osservare il fenomeno.
Una nube si levava alta (guardando da lontano, non si capiva bene da dove provenisse, da quale monte, ma poi si seppe che era il Vesuvio) ed era tale che nessun altro albero meglio del pino avrebbe potuto rendere l’idea della sua forma e del suo aspetto. Difatti, drizzandosi come su un altissimo tronco, si allargava poi ramificandosi; e questo perché, io suppongo, sollevata inizialmente da un soffio impetuoso e poi abbandonata a sè stessa al cedere del vento, oppure vinta dal suo stesso peso, si diffondeva per l’aria e si allargava dissolvendosi, ora candida, ora torbida e maculata, a seconda che avesse trascinato con sé terra o cenere.
A mio zio, che era uomo molto dotto, questo parve un fenomeno importante e degno di essere osservato più da vicino. Fece preparare una liburnica e mi offri, qualora lo avessi voluto, di andare con lui. Risposi che preferivo studiare: era stato lui stesso, peraltro, a darmi qualcosa da scrivere. Mentre usciva di casa gli fu consegnato un biglietto di Rectina, moglie di Casco, la quale, spaventata dal pericolo incombente perché la sua villa stava proprio lì sotto e ormai non c’era altra via di scampo se non per nave, lo supplicava di correre a liberarla da una situazione così grave.
Mio zio allora modificò il suo proposito e compì con spirito eroico quello che si era accinto a fare per ragioni di studio. Dette ordine di mettere in mare alcune quadriremi e vi salì egli stesso con l’intenzione di soccorrere non solo Rectina, ma anche tutti gli altri, perché quell’amenissima costa era densamente popolata. Si diresse subito là, da dove gli altri fuggivano, tenendo diritta la rotta e diritto il timone verso il pericolo, e con animo così impavido da dettare o annotare egli stesso tutti i momenti e tutti gli aspetti di quel terribile disastro, via via che gli si presentavano allo sguardo. Già la cenere cadeva sulle navi più calda e più fitta quanto più esse si avvicinavano; già cadevano anche pomici e pietre nere, arse e frantumate dal fuoco; poi improvvisamente si formò una secca e per i massi rotolati giù dal monte la costa era diventata inaccessibile. Ebbe un attimo di esitazione, incerto se fosse il caso di tornare indietro, ma poi al pilota che così gli suggeriva di fare, disse: “La fortuna aiuta gli audaci; punta verso la villa di Pomponiano!”
Questi si trovava a Stabiae, dall’altra parte del golfo, perché il mare si insinua nella costa, tutta insenature e sporgenze. Là Pomponiano – quando il pericolo non era ancora imminente, ma ben visibile e, crescendo, sempre più vicino – aveva imbarcato i suoi bagagli, deciso a fuggire appena il vento contrario fosse cessato. Il vento invece favoriva molto la navigazione di mio zio, il quale, appena giunto, abbracciò l’amico tremante, lo confortò, lo incoraggiò e, per calmare la sua agitazione con la propria tranquillità d’animo, si fece portare nel bagno; dopo essersi lavato si mise a tavola e cenò di buon umore o, cosa egualmente magnanima, si mostrò di buon umore.
Intanto su più parti del Vesuvio rilucevano enormi fiamme e alti incendi, il cui bagliore e la cui luce erano accresciuti dall’oscurità della notte. Lo zio, per placare gli animi terrorizzati, disse che quelli erano fuochi lasciati accesi dai contadini nella loro fuga precipitosa, e ville abbandonate che bruciavano. Poi andò a riposare, e dormì davvero profondamente perchè il suo respiro, molto grave e sonoro per via della gran corporatura, era udito da tutti coloro che passavano davanti alla soglia della sua camera. Ma intanto il piano del cortile da cui si accedeva al suo appartamento, si era già tanto alzato di livello a causa della grande quantità di cenere mista a pietre pomici da cui era stato invaso, che lo zio, se fosse rimasto più a lungo nella camera da letto, non sarebbe più potuto uscirne.
Svegliato, venne fuori e si unì a Pomponiano e agli altri che non avevano chiuso occhio. Si consultarono fra loro se dovessero rimanere in casa o tentare di uscire all’aperto: infatti per frequenti e lunghi terremoti la casa vacillava e, come smossa dalle fondamenta, dava l’impressione di oscillare in un senso o nell’altro per poi tornare al suo posto. All’aperto però c’era da temere la caduta delle pietre pomici, anche se leggere e porose, ma alla fine il confronto fra i due pericoli, fece scegliere il secondo. In mio zio prevalse la più ragionevole delle due soluzioni, negli altri invece il più forte dei timori. Si misero dei cuscini sulla testa e li legarono con fazzoletti: e questo valse a proteggerli da ciò che cadeva dall’alto.
Già altrove faceva giorno, mentre là era notte, la più scura e più fitta di tutte le notti, sebbene rischiarata da tante fiamme e tanti bagliori. Fu deciso di recarsi alla spiaggia per vedere da vicino cosa il mare consentisse di fare; ma questo era agitato e contrario. Allora fu steso un lenzuolo per terra e mio zio vi si stese sopra, poi chiese e bevve due volte acqua fresca. Ma poi le fiamme e un odore di zolfo annunciatore del fuoco costrinse agli altri a fuggire e lui ad alzarsi. Si tirò su appoggiandosi a due servi, ma subito ricadde a terra perchè, come io suppongo, l’aria era troppo impregnata di cenere, tale da impedirgli il respiro ostruendogli la gola per sua natura debole, angusta e soggetta a frequenti infiammazioni.
Quando tornò a risplendere la luce del giorno (il terzo da quello che egli aveva visto per l’ultima volta), il suo corpo fu trovato intatto, illeso e coperto dalle vesti che aveva indosso; l’aspetto era quello di un uomo addormentato, piuttosto che d’un morto.
Intanto a Miseno io ero con mia madre…Ma questo non ha nulla a che fare con la storia, nè a te interessava altro se non la morte di mio zio. Perciò concluderò.
Aggiungerò solo una parola: che ti ho esposto tutte circostanze alle quali sono stato presente e che mi sono state riferite immediatamente dopo, quando i ricordi conservano ancora la massima precisione. Tu ne trarrai gli elementi essenziali: sono infatti cose ben diverse scrivere una lettera od una composizione storica, rivolgersi ad un amico o a tutti.
Stammi bene.”
Epistola VI, 20
“Mi dici che la lettera che io ti ho scritto, dietro tua richiesta, sulla morte di mio zio, ti ha fatto sorgere il desiderio di conoscere, dal momento in cui fui lasciato a Miseno – ed era esattamente questo che stavo per raccontarti, quando ho interrotto il mio resoconto -, non solo quali timori ma anche quali pericoli io abbia dovuto affrontare.
“Anche se il semplice ricordare mi provoca un brivido di sgomento nel cuore… incomincerò”.
Dopo la partenza di mio zio, trascorsi tutto il tempo che mi restava nello studio, dato che era stata proprio questa la ragione per cui non lo avevo seguito; poi il bagno, la cena ed un sonno breve ed inquieto. Si erano già avuti per molti giorni dei leggeri terremoti, ma non avevano suscitato troppo spavento, essendo un fenomeno usuale in Campania, quella notte invece le scosse ebbero una tale intensità che tutto sembrava non muoversi, ma capovolgersi.
Mia madre si precipitò nella mia stanza mentre stavo per alzarmi con l’intento di svegliarla a mia volta nel caso che dormisse. Ci mettemmo a sedere nel cortile che separava la casa dal mare. A questo punto non saprei se definirla forza d’animo o incoscienza (non avevo ancora compiuto diciotto anni!): chiedo un volume di Tito Livio e così per ozio mi metto a leggerlo soffermandomi sugli estratti che avevo già iniziato. Quand’ecco sopraggiungere un amico di mio zio, da poco arrivato dalla Spagna per incontrarsi con lui. Alla vista di me e mia madre seduti nel cortile, ed io per giunta che leggevo, rimproverò lei per la sua indolenza e me per la spensieratezza. Ciononostante non levai gli occhi dal libro.
Il sole era già sorto da un’ora eppure di esso non traspariva che una luce debole, come di crepuscolo. Allora le case furono scosse con tali veementi oscillazioni per cui grande fu il timore di un crollo; non c’era più alcuna sicurezza a sostare in un luogo che per quanto scoperto risultava troppo angusto. Soltanto allora ci risolvemmo di abbandonare la cittadina; una folla spaventata ci seguiva, incalzandoci e spingendoci mentre ci allontanavamo e per quell’alterazione della prudenza che è tipica dello spavento, ognuno rinunciava alle proprie valutazioni ritenendo più sicuro imitare quel che vedeva fare agli altri. Una volta fuori dall’abitato ci fermammo e qui assistemmo a molti fenomeni sbalorditivi e a fatti che incutevano terrore. Infatti i carri che avevamo al nostro seguito, sebbene il terreno fosse pianeggiante, tendevano ad indietreggiare e neppure il peso di grosse pietre riusciva a tenerli fermi in uno stesso luogo. Vedemmo inoltre il mare come riassorbito in se stesso e quasi sospinto via dalla sua sede naturale dal forte scuotimento della terra. E in effetti il litorale era diventato più ampio trattenendo nelle sue sabbie ormai asciutte numerosi animali marini. Dal lato opposto una nera e orrenda nube, attraversata da infuocati bagliori che si sprigionavano in lingue sinuose e spezzate, si squarciava emettendo raggi simili a fulmini ma molto più grandi.
A questo punto ci si avvicinò nuovamente l’amico spagnolo incalzandoci con tono ancora più inquieto e stringente: “Se tuo fratello, se tuo zio è vivo, certo vi vuole incolumi; se è morto, vorrebbe che voi gli sopravviveste. Perchè dunque indugiate a mettervi in salvo?”. Gli rispondemmo che non potevamo pensare alla nostra sicurezza mentre eravamo incerti della sorte del nostro congiunto. Egli non indugiò ulteriormente, subito ci lasciò sottraendosi velocemente al pericolo. Poco dopo quella nube discese fino a terra e ricoprì il mare: aveva già avvolto e celato al nostro sguardo l’isola di Capri e oscurato il promontorio di Miseno. Allora mia madre cominciò a pregarmi, a scongiurarmi, ad ordinarmi di fuggire in qualsiasi maniera, aggiungendo che io, ancora giovane, avrei potuto riuscirci, diversamente da lei impedita dall’età e dalla pesante corporatura, e che sarebbe morta felice sapendo di non essere stata la causa della mia morte. Io però le risposi che che non mi sarei salvato senza di lei; la presi quindi per la mano costringendola ad accelerare il passo. Ella accondiscese a malavoglia accusandosi di rallentare il mio cammino. Intanto la cenere cominciò a cadere su di noi, sebbene in poca quantità.
Mi voltai e mi accorsi che una densa caligine incombeva alle nostre spalle riversandosi sulla terra e inseguendoci come un torrente. “Deviamo, le dissi, finchè si riesce a vedere, per evitare di essere travolti una volta raggiunti dalla folla che ci segue!” Ci eravamo appena seduti quando scese la notte, ma ad avvolgerci non era l’oscurità di un cielo senza luna o ricoperto da nubi, bensì il buio di una camera ben serrata dove tutti i lumi sono spenti. Avresti potuto udire i gemiti delle donne, le invocazioni dei bambini, le urla degli uomini; gli uni cercavano a gran voce i padri; gli altri i figli o i consorti; chi deplorava la propria sventura, chi quella dei suoi familiari. Vi erano alcuni che, per timore della morte, la invocavano. Molti supplicavano gli dei, ma molti altri ritenevano che gli dei non esistessero più e che quella notte dovesse essere l’ultima ed eterna notte del mondo. Né mancavano quelli che accrescevano la legittima paura con terrori immaginari e false affermazioni. Dicevano che a Miseno la tale costruzione era bruciata o crollata e il timore conferiva autorità alle loro menzogne.
Riapparve una tenue schiarita, ma non sembrava essere la luce del giorno quanto un preannuncio dell’avvicinarsi del fuoco. Ma il fuoco si arrestò più lontano e scesero di nuovo le tenebre e ancora cenere densa e abbondante. Di tanto in tanto eravamo costretti ad alzarci per scuotere i nostri vestiti altrimenti ne saremmo stati sommersi e schiacciati. Potrei vantarmi che in mezzo a così tanti e tremendi pericoli non mi sono lasciato sfuggire nè un gemito nè alcun segno di debolezza, se non e non avessi trovato gran conforto alla morte nel pensiero che in quel momento tutto il mondo periva con me.
Finalmente quella oscurità si attenuò e parve dissolversi in fumo o in vapori. Poco dopo apparve il giorno e risplendette anche il sole, ma livido, come suole mostrarsi durante una eclissi. Agli sguardi ancora smarriti tutte le cose apparivano con forme nuove, ricoperte com’erano di una spessa coltre di cenere che pareva fosse nevicato. Ritornati a Miseno, e preso quel po’ di ristoro che fu possibile avere, trascorremmo una notte ansiosa ed incerta tra la speranza e il timore. Ma il timore finì col prevalere; le scosse telluriche infatti continuavano e molti individui, del tutto fuori di senno, dileggiavano le proprie disgrazie e quelle altrui con spaventose profezie. Noi tuttavia, sebbene avessimo vissuto da vicino tremendi pericoli e altri ce ne aspettassimo ancora, neppure allora pensammo di andarcene, finché non ci fosse giunta notizia dello zio. Ti invio questa narrazione affinché tu la legga e non perchè ne scriva, dato che non merita di trovar spazio nella tua Storia; imputerai quindi a te stesso, che me l’hai richiesta, se non ti dovesse sembrar degna neppure di una lettera.
Stammi bene.”
Traduz. dal latino di Kasia Burney Gargiulo