di Alessandro Novoli
Le grandi idee prendono corpo nei momenti più impensati. Quella di Gianni Medoro, ingegnere elettronico di 42 anni, originario di Cerignola (Foggia), con laurea e dottorato all’Università di Bologna, si manifestò durante una pausa al bar ai tempi del phD e fu consegnata a un rapido sketch su un pezzo di carta da cui sarebbe nato il primo brevetto. Allora di anni Medoro ne aveva meno di 30 e probabilmente non immaginava ancora che la sua idea, nel frattempo elaborata in un più raffinato sistema tecnologico con il contributo del suo collega bolognese Nicolò Manaresi – classe ’67, un dottorato in Ingegneria a Bologna e già ricercatore presso il Politecnico di Zurigo – sarebbe stata pubblicata su Scientific Reports, rivista del gruppo Nature. Oggetto della recente pubblicazione è il funzionamento del DEPArray™ system, uno strumento in grado di scovare le cellule tumorali presenti in un campione biologico (ad es. sangue) e di isolarle con un grado di purezza pari al cento per cento.
Una tecnologia digitale made in Italy nata – racconta Medoro – dalla volontà di applicare la microelettronica alla biologia per poter gestire le cellule in modo digitale. Non a caso essa nasce dall’incontro fra microelettronica, micro-fluidica, dielettroforesi e biologia cellulare: un approccio multidisciplinare che consente a questo sistema di analizzare le cellule una ad una, favorendo l’acquisizione di informazioni importanti per individuare la cura più adatta a ciascun paziente. Intorno a questo sistema i due scienziati italiani hanno creato nel ’99 l’azienda Silicon Biosystems, con sedi a Bologna e a San Diego, acquisita nel 2013 dal colosso farmaceutico toscano Menarini.
Denominato anche “biopsia digitale”, il DEPArray™ system – spiega Medoro – consente di digitalizzare le cellule tumorali di un campione biologico anche esiguo, di analizzarle singolarmente isolandole come gruppi omogenei e di indagarne il genoma senza interferenze ponendolo a confronto con quello delle cellule sane presenti nella biopsia. Ciò è possibile grazie al fatto che le cellule selezionate dal sistema sono mantenute intatte, vive e capaci di riprodursi, pronte per successive indagini molecolari di DNA e RNA.
Spesso (circa in un paziente su 6) – aggiunge Manaresi, Chief Scientific Officer di Silicon Biosystems e coordinatore dello studio – la percentuale di cellule tumorali presenti nel campione di una biopsia è troppo bassa per avere una valutazione affidabile delle caratteristiche genetiche del tumore, necessaria per la scelta della terapia. Grazie a questa nuova tecnica – precisa – “è invece possibile disgregare la biopsia fino ad avere una sospensione di cellule libere che vengono passate nel sistema per essere digitalizzate una per una. In pratica, ciascuna cellula diventa un ‘pixel’ che può essere seguito e analizzato, con una precisione di analisi estrema che consente di eliminare il “rumore di fondo” inevitabilmente presente quando le cellule tumorali sono poche o non tutte esprimono le stesse mutazioni”.
Si tratta di un risultato importantissimo perchè il tumore solitamente ha caratteristiche di eterogeneità a causa delle continue modifiche cellulari dinamiche a cui va incontro, le quali generano sottotipi tumorali diversi, ciascuno con un differente potenziale di malignità: in alcuni casi sono presenti cloni tumorali in scarsa quantità ma altamente aggressivi per cui possono essere responsabili dello sviluppo veloce e maligno del cancro. Fino ad ora nessun metodo riusciva a caratterizzare le diverse tipologie di cellule neoplastiche che danno luogo a tale eterogeneità. Riuscire a valutare le diverse popolazioni cellulari contribuirà a riconoscere quelle con più alto potenziale di generare metastasi, fondamentale punto di partenza per poter arrivare a “bloccarle”.
Lo strumento che consente di fare tutto questo – spiegano i due scienziati – ha più o meno le dimensioni di un frigo americano, ma il suo cuore è un microchip con centinaia di migliaia di elettrodi ciascuno delle dimensioni di cellule umane. Medoro ha sottolineato come il sistema DEPArray™ abbia già dato ottimi risultati sui tumori solidi come quelli al seno, ai polmoni, al colon e per il melanoma, “ambiti nei quali si sono avuti diversi sviluppi clinici interessanti”.
ESCALATION DI UN SUCCESSO
Prima che poco più di due anni fa la Silicon Biosystems fosse assorbita dal gruppo Menarini, essa ha vissuto le tappe di una normale start up ad alta tecnologia, non senza momenti di sconforto – come raccontano i due fondatori – ma le sue potenzialità di successo non hanno tardato a rivelarsi con la vittoria del primo premio alla Business Plan Competition – Start Cup, organizzata per la prima volta dall’Università di Bologna. I 50 mila euro del premio hanno così permesso ai due ricercatori di realizzare il prototipo del DEPArray™ system. Nel 2012 la Silicon Biosystem è arrivata a poter vantare una trentina di brevetti, 33 dipendenti (di cui 23 ricercatori), un fatturato di circa 1,2 milioni di euro e una clientela costituita dai principali centri di ricerca oncologica del mondo. Nel 2013 è infine arrivato l’acquisto da parte della Menarini.
Di recente un esemplare del DEPArray™ system è stato donato all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, dove viene impiegato in ricerche avanzatissime nei dipartimenti di Oncologia pediatrica e di Neuroscienze, mentre altre cinquanta macchine sono già da tempo operative in alcuni importanti centri internazionali di ricerca biomedica fra Europa, Stati Uniti, Cina, Giappone, Corea, Taiwan e Singapore. All’Università di Manchester il DEPArray™ ha permesso di individuare il farmaco più efficace in un caso di cancro al polmone, mentre un gruppo del Baylor College of Medicine a Houston in Texas, diretto dall’italiano Dario Marchetti, ha utilizzato il DEPArray™ per isolare le cellule tumorali che generano metastasi al cervello nelle pazienti con cancro al seno. Nell’anno appena trascorso, i laboratori della Silicon Biosystem hanno inoltre sviluppato nuove applicazioni che consentiranno di isolare cellule tumorali da biopsie e tessuti sempre più piccoli.
Medoro e Manaresi non si sono però fermati al campo dell’oncologia estendendo le possibili applicazioni della loro tecnologia a quello della diagnosi prentatale non-invasiva: già nel 2014 hanno annunciato come da una goccia di sangue sia possibile conoscere le eventuali anomalie genetiche del nascituro mandando così in soffitta l’amniocentesi (ossia il prelievo di liquido amniotico dalla cavità uterina a scopo diagnostico che oggi si effettua tra la 16esima e la 18esima settimana) e qualsiasi altro esame di carattere invasivo e potenzialmente rischioso per il feto.