Quando, nel 1987, mio zio Rolando salì sul treno transiberiano che da Pechino lo avrebbe portato alla volta di Roma, Hong Kong era ancora inglese, Macao portoghese, in Cina giravano ancora con le bluse blu, l’Impero Sovietico non era ancora finito, il muro di Berlino non ancora distrutto. Ingegnere italiano in Oriente, lettore di Marco Polo, infaticabile viaggiatore, era arrivato in Cina insieme a un burocrate del Ministero degli Esteri che aveva conosciuto negli anni Settanta all’Ambasciata Italiana a Baghdad, in Iraq, che sarebbe presto diventato il suo migliore amico e con cui avrebbe visitato, credo, anche il Vietnam nel ’92, dopo aver peregrinato tra il Brasile, l’Egitto e l’India e chissà quale altro posto ancora. Di tutti i suoi viaggi aveva sempre riservato un racconto per me, per noi che lo aspettavamo, in Basilicata, avidi di notizie e d’immaginazione, per ascoltarlo. Ma del suo viaggio sul treno transiberiano, non mi pare di aver mai ascoltato un racconto. Conservava soltanto, come pure il suo compagno di viaggio, dei ricordi sfocati e quasi spettrali del chemin de fer e della Mosca comunista, in particolare, come di una città fantasma.
Il percorso transiberiano è il viaggio dei viaggi. Lo è certamente per un europeo, perché è il più lungo che si possa fare interamente via terra. Ma lo è anche, in assoluto, per la sua immensità, per la sua monotonia e la sua molteplicità impossibili da ricondurre a sintesi, per il suo progressivo affondare nel rincorrersi sempre uguale di betulle e di praterie dentro la profondità dello spirito russo. Diventa necessariamente un viaggio dell’anima, anche senza che lo si voglia, un viaggio in cui si possono distillare i pensieri uno ad uno alla maniera in cui si sgrana un rosario, ma anche un viaggio che provoca vertigine. Perché è il cammino delle grandi trasformazioni che da Gengis Khan a Tamerlano, hanno sfidato le geografie naturali e cambiato quelle politiche. È il crinale delle contaminazioni e dei cambiamenti, il confine, la soglia lungo la quale non si riesce che a salvare qualche aneddoto di viaggio e strappare, sottrarre al fluire qualche immagine, qualche parola, senza riuscire a farne sistema. È una strada che induce, allo stesso tempo, a riflettere sulla natura del potere e sulla sua malinconia.
Decido di ripercorrerla al contrario con monsieur Giovambattista, gentleman siciliano ormai trapiantato a Parigi, il compagno di viaggio di mio zio Rolando, per capire di quel loro viaggio la vertigine e il mistero. Porto con me le lettere che lo tsar Ivan IV Groznyj, il Terribile, scrisse al principe ribelle Andrej Kurbskij, rifugiatosi in Lituania, per ribadirgli la concezione totalitaria del potere, infallibile e incontestabile emanazione divina, che lo tsar derivava geneticamente – essendo nipote dell’ultima imperatrice bizantina – dalla millenaria tradizione dell’autocrazia di Bisanzio.
Mosca è la città della Russia in cui più che altrove si avverte il prolungarsi di questo retaggio anche nella storia moderna e contemporanea, nell’architettura come espressione del potere, dalle strutture quattrocentesche della spianata del Cremlino che sono il cuore dorato della città fino alle Sette Sorelle staliniane che la circondano come una catena di ferro. L’errore che il viandante può fare è quello di cercare di leggere Mosca con una lente europea, occidentale, perché non riuscirebbe a capirne le contraddizioni e ne proverebbe repulsione immediata. Da sempre, è una citta dura e multietnica. E chi, come Jules Verne, s’è cimentato a descriverla, s’è dovuto piegare al suo fascino singolare: “Intorno a questa cintura si disegnano tre città distinte, Kitaï-Gorod, Beloi-Gorod, Zemlianaï-Gorod, immensi quartieri europei, tartari, cinesi, che dominano le torri, i campanili, i minareti, le cupole verdi di trecento chiese sormontate da croci d’argento. Un piccolo fiume dal corso sinuoso riverbera qua e là i raggi della luna. Tutto ciò forma un curioso mosaico di case dai diversi colori che è custodito da un ampio quadro di dieci leghe”.
Le parole di Verne, all’inizio del suo Michel Strogoff, la descrivono come un rutilante caleidoscopio di etnie e di storie. È impossibile non sentirsi come Michel Strogoff partendo da Mosca, in treno, alla volta di Irkutsk, nel cuore della Siberia occidentale, e capita di immaginarselo in treno, partire in fretta e in furia su ordine di Alessandro II Romanov per avvisare il Granduca dell’invasione tartara che sta per investirlo. Ma è soprattutto l’incipit del romanzo di Verne a restare impresso nella memoria, mentre ci si addentra in Siberia. Perché non solo Mosca, ma tutta la Russia e sempre più a mano a mano che ci si sposta verso Oriente sembra un grande coacervo di etnie di identità di religioni, un mosaico. Ed è l’architettura, in particolare, a renderne icastica la coesistenza, oggi, in una città che è un continuo cantiere, con la Grande Sinagoga di Kitaï-Gorod e la Moschea-Cattedrale della Olimpiysky Avenue, con la ricostruita Cattedrale ortodossa di Cristo Salvatore, sede del Patriarcato di Mosca e di tutte le Russie, a testimoniare questa antica disponibilità all’accoglienza, insita forse in una remota vocazione imperiale. Verrebbe da dire che è un melting pot, sulla scia anche delle più o meno recenti politiche culturali che hanno trasformato Mosca in una officina creativa, ma la molteplicità di etnie che popolano la Russia resta, nell’integrazione e non nella mescolanza, cosciente di una sorta di separatezza e fiera delle proprie singole identità. Se a Mosca questo traspare nelle architetture, dove ogni cupola trasforma in immagine la presenza di ciascuna lobby etnica, in Siberia, che è da sempre, storicamente, il luogo delle diversità, questa molteplicità si compone continuamente nei volti, nelle storie, nei luoghi in cui il viandante s’imbatte.
Mosaico, più che crogiolo. Nei villaggi dei Vecchi Credenti Russi, deportati nel Seicento a seguito di importanti dispute teologiche e lì rimasti fino ad oggi. O in quel che rimane, a Irkutsk, delle dimore dei renitenti decabristi, raffinati intellettuali, ribelli e massoni. Con la pervasiva presenza cinese e coreana, e di quella mongola o buriata e i suoi antichi retaggi linguistici e religiosi, i grandi pali di legno circondati di stoffe variopinte posti a segnare, come sull’isola di Olchon, sullo sterminato Bajkal, la presenza del sacro.
Con una significativa, quantunque forse più esigua rispetto al passato, presenza ebrea che ha la sua apoteosi a Birobidijan, storica capitale della Regione giudea, ormai cristallizzata nel tempo. O a Kabarovsk dove nel 1969 si combatté una storica battaglia tra Russi e Cinesi e dove fu portato in esilio l’ultimo imperatore cinese. O, ancora, a Ulan Ude, dove si erge un magnifico complesso di templi buddhisti tibetani, voluti da Stalin al tempo, come la chiamano i Russi, della Grande Guerra Patriottica.
Madame Olga è buddhista e buriata. Ha in casa, a vegliare sull’uscio, un grande cane di pietra nera che l’ospite può confondere a prima vista con una tigre o una pantera fantastica, molti libri e cimeli, stoffe variopinte, fotografie del Dalai Lama, grandi Buddha dorati e rosari da conversazione. Madame Olga, l’affettuosa e colta signora buriata che ci ha accolti in casa sua per un paio di giorni, a Ulan Ude, ci racconta che per lei i tempi del socialismo reale e dell’impero sovietico fanno rima con nostalgia. Perché – dice nel suo francese melodioso e cantilenante che assomiglia al suono di un carillon (soltanto il francese di un russo può avere questa dolcezza), mentre Tatiana, la domestica, annuisce e sorride di tanto in tanto – il socialismo le ricorda la giovinezza. Perché, continua guardando fuori dalla finestra i palazzi in costruzione nel tramonto di Ulan Ude, le ricorda i bei tempi della spensieratezza, quando si è forti e sognanti e tutto sembra promettere qualcosa, per l’avvenire.
Per lei il capitalismo è arrivato così come si compra, dice, un cappello, un cappello di tanti colori, un cappello francese che solo poche settimane prima sarebbe stato impossibile persino da immaginare per lei, professoressa di provincia, abituata alle divise militaresche che il potere per qualche decennio aveva scelto in sua vece. Ci si può perdere – vi giuro – tra le sibilanti del francese di madame Olga, nel suo strascicare lentamente le sillabe, nel suo gesticolare vivace e aggraziato. Ma a un certo punto si ferma e domanda, all’improvviso, suscitando in noi la tenerezza di una bambina spaesata, appena uscita da un sogno, come mai la Russia non piaccia all’Occidente, come mai non piaccia, lei dice, a tutti gli altri paesi. Tatiana, la domestica, la guarda in silenzio, con aria dubitativa. C’è tutto il mistero del viaggio transiberiano, in questa domanda. Perché è lungo questo crinale che il mondo è cambiato negli ultimi venti, trent’anni. E forse anche prima, se è vero che la fine dell’Impero Sovietico è stata segnata innanzitutto dalla grande sconfitta in Afghanistan del 1979, quella sconfitta che è stata la più grande ferita inflitta alla Russia dai tempi di Guerra e Pace, e che al resto del mondo ha dato in contropartita l’inedita dialettica Nord-Sud in alternativa a quella Est-Ovest. È da quella sconfitta, anche, che l’islamismo, come protagonista politico del nostro tempo, è divampato.
La Transiberiana è come una faglia sospesa tra il Nord e il Sud del nostro tempo e giovani da tutto il mondo la percorrono, in una sorta di pellegrinaggio laico, per capire il proprio tempo. Lo ha fatto Guillaume, per un tratto di strada mio compagno di viaggio, prima di deviare con la Transmongolica e arrivare a Pechino, in viaggio con una copia dei Fratelli Karamazov e con la sua convinzione che il torto e la ragione, nella storia, non stiano mai da una parte sola. Lo ha fatto un gruppo di ragazzi lucani, l’estate scorsa, partiti in macchina, da Matera, lungo il percorso della Transmongolica. Lo ha fatto Flavio, partito dal Veneto con la sua Fiat Panda verde, interamente coperta di adesivi, con il suo grande entusiasmo, per giungere, come me, da Irkutsk a Valdivostok e di lì prima in Corea del Sud e poi in Giappone.
È come se il grande orgoglio russo stesse covando qualcosa sotto la cenere e fosse pronto a risorgere, mentre la sua anima bizantina si sposta sempre di più, impercettibilmente, verso il Pacifico, dove una grande icona dorata di sviatytel Nikolaj mi accoglie alla stazione di Vladivostok, la Regina d’Oriente, ormai un cantiere che compete con quelli della California, e dove, dalle sue origini, i Russi amano riconoscere, in quel Bosfor Vostočnyj, o Bosforo orientale, che ne caratterizza la morfologia fisica, un ologramma di Costantinopoli. Sul ponte del traghetto che mi porterà in Giappone, un gruppo di donne coreane, sedute sulle panchine di legno, avvolte in foulard di seta, intonano il motivo di arie d’opera e canzoni religiose, mentre i gabbiani ridono impazziti, volteggiando nel cielo di cenere. Qui, la vertigine. Vladivostok si trova – come Istanbul – circa al quarantesimo grado di latitudine nord. Vladivostok è stata fondata, come Istanbul, sopra una decina di colline. Affacciata sul Mar del Giappone, o Mare Orientale*, come Istanbul sul Mediterraneo, Vladivostok possiede, o forse immagina, il suo Bosforo e il suo Corno d’Oro. L’Asia è così, o forse si immagina, come in un circolo, come in uno specchio. Un Bosforo la apre, uno la sigilla.
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* Il nome internazionale per il mare che confina con Giappone, Corea del Nord, Russia Corea del Sud è in discussione. Il governo giapponese sostiene l’uso del nome “mar del Giappone”, mentre la Corea del Sud sostiene quello di “mare orientale”. Il Giappone dal canto suo si basa sulla Conferenza idrografica internazionale di Monaco del 1929. La Corea del Sud non ha però mai accettato questa designazione, dato che il governo coreano non ebbe modo di partecipare alla Conferenza, essendo in quel periodo sotto il dominio coloniale giapponese. Pertanto, da dopo la liberazione nel 1945, il governo coreano rivendica il nome di ‘mare Orientale’. L’IHO (Organizzazione Idrografica Internazionale) e UNCSGN (Conferenza della Nazioni Unite sulla standardizzazione dei nomi geografici) hanno quindi adottato la risoluzione in base alla quale se non viene raggiunto un accordo su un nome tra i paesi confinanti con un mare, si fa riferimento ai nomi di tutti i paesi interessati.