Uno di loro, Gioachino Greco da Celico detto “Il Calabrese”, fu il giocatore di scacchi più famoso del XVII secolo, ma si impose anche come teorico. Il suo “Trattato del nobilissimo gioco degli scacchi” si stampa ancora nel mondo
di Redazione FdS
Se il ricco patrimonio naturalistico e culturale della Calabria gode ormai di una crescente notorietà, molto meno note – se non a volte del tutto sconosciute al grande pubblico – sono diverse figure storiche di figli di questa terra che pure importanti contributi hanno dato nei diversi campi del sapere e delle attività umane. E’ il caso di due personaggi vissuti fra Cinque e Seicento e distintisi – sia sul piano pratico sia su quello teorico – nella difficile arte degli scacchi. Due figure che hanno fatto parlare di sè in tutta Europa lasciando una traccia importante ed indelebile nella storia di questo gioco. Si tratta di Giovanni Leonardo Di Bona, noto anche con il nome di Leonardo da Cutro (detto anche “il Puttino”, per la sua piccola statura), vissuto nella seconda metà del ‘500, e di Gioachino Greco vissuto tra la fine del ‘500 e i primi anni del ‘600. Due esistenze brevi le loro, ma animate da una invincibile passione, quella per gli scacchi, un gioco che alla loro epoca già vantava una storia plurisecolare, sebbene nel corso del tempo abbia visto un progressivo perfezionamento delle sue regole.
GIOVANNI LEONARDO DI BONA…E LA GRANDE SFIDA ALLA CORTE DEL RE DI SPAGNA
Giovanni Leonardo Di Bona, nato a Cutro (Crotone) nel 1542, era un giovane studente di Legge a Roma quando conobbe il prelato spagnolo Ruy López vescovo di Segura, noto per essere stato uno dei primi grandi giocatori e teorici degli scacchi nonché confessore del re di Spagna Filippo II. Con lui Di Bona ebbe modo di ingaggiare una partita che però, dopo due giorni, si concluse con la sconfitta del giovane calabrese. Dopo quell’episodio lo ritroviamo a Napoli dove, addestratosi per due anni con un suo zio, si misurò onorevolmente con Paolo Boi detto Il Siracusano, notissimo scacchista siciliano di vivace ingegno. Tornato a Cutro, Giovanni Leonardo sfruttò la sua abilità di scacchista per liberare suo fratello rapito dai saraceni, e lo fece sconfiggendo al gioco il capo dei pirati e vincendo anche 200 ducati. Ma la vicenda che lo ha collocato nell’olimpo degli scacchisti del suo tempo fu la clamorosa rivincita che riuscì a prendersi sul grande Ruy López; un episodio di cui si conservava fama ancora nell’Ottocento e che il pittore Luigi Mussini rappresentò nella celebre tela Sfida scacchistica alla corte del re di Spagna, del 1883.
La fase più avventurosa della sua vita iniziò quando insieme al suo amico Giulio Polerio, anch’egli abile scacchista (nativo di Lanciano e noto nell’ambiente come l’Abruzzese), Giovanni Leonardo decise di recarsi a Madrid per tornare a sfidare il sacerdote Ruy López. Fece tappa a Genova, dove soggiornò in una casa privata fidanzandosi poi con la figlia del proprietario. Sostò quindi a Marsiglia e a Barcellona dove conobbe lo scacchista Tommaso Caputo, detto Rosces, con cui continuò il viaggio al quale si unì anche il loro collega Giovanni Rodriguez. Strada facendo i tre amici fecero una burla a un locandiere chiamato el Muchacho: Giovanni Leonardo, fingendosi un dilettante, riuscì a vincergli 700 scudi, somma che restituì al ritorno.
Era l’estate del 1575 quando Leonardo giunse con i suoi amici a destinazione e una delle prime cose che fece fu individuare il locale dove Ruy López era solito tenere le sue partite e qui sfidò il prelato a colpi di 50 scudi alla volta. Presto si sparse la voce che un giovane calabrese era capace di tener testa al mitico Ruy López e la notizia giunse anche alle orecchie del re di Spagna, Filippo II, il quale volle che i due si sfidassero a corte in sua presenza mettendo in palio un premio di 1000 scudi. La vittoria sarebbe spettata a chi fosse riuscito ad aggiudicarsi due partite su tre. Giovanni Leonardo sconfisse il confessore del re e Filippo II era già pronto a versare l’ingente somma in palio quando lo scacchista propose di barattarla con una richiesta decisamente inaspettata: chiese al re che il suo paese, Cutro, ricevesse il titolo di Città e l’esenzione dalle tasse dei suoi cittadini per vent’anni.
Ma le avventure non erano finite. Ritornato in Italia ed appresa notizia della morte della sua fidanzata genovese, Giovanni Leonardo ripartì per il Portogallo dove sconfisse il Moro, campione di scacchi alla corte di re Sebastiano, il quale gli affibiò il soprannome di Il cavaliere erante. Triste ed ingloriosa fu invece, anni dopo, la sua fine: morì infatti alla corte del principe di Bisignano, si dice avvelenato per invidia.
A Cutro, nota oggi come “Città degli Scacchi”, la vittoria spagnola di Giovanni Leonardo, a partire dagli anni ’90, viene ricordata ogni anno la sera del 12 agosto, nella piazza centrale del paese a lui intitolata dove è stata costruita una grande scacchiera pavimentale sulla quale si svolge una partita con scacchi viventi, animata da centinaia di figuranti. Inoltre ogni anno, dal 24 aprile al 1° maggio, nella stessa cittadina si tiene un rinomato torneo internazionale al quale partecipano scacchisti di tutto il mondo.
GIOACHINO GRECO, GRANDE CAMPIONE E TEORICO DEGLI SCACCHI
Alle avventure straordinarie e un po’ picaresche di Giovanni Leonardo Di Bona, fa da contraltare la ancora più prestigiosa esperienza di Gioachino Greco, il giocatore di scacchi più famoso del XVII secolo. Nato a Celico (Cosenza) nel 1590, divenne celebre con l’epiteto de “Il Calabrese”. Visitò le corti di Francia e Inghilterra ripercorrendo e superando i fasti dei suoi predecessori, imponendosi non solo come grande giocatore ma anche come teorico degli scacchi. Infatti il suo Trattato del nobilissimo gioco degli scacchi (1619), riportò un successo enorme destinato a durare nel tempo.
Gioachino appartenne a una nobile famiglia e, come era d’uso ai suoi tempi, fu mandato a studiare presso il collegio dei Gesuiti di Cosenza. Qui Mariano Marano lo iniziò nella complessa arte del gioco degli scacchi, nella quale fece progressi talmente rapidi da destare meraviglia tra i numerosi cultori della materia. Nel 1610 si traferì a Roma, dove visse per dieci anni come scacchista professionista protetto da diversi prelati, fra cui il cardinal Savelli e Francesco Buoncompagni. Nel 1619, proprio a Roma pubblicò in lingua francese il Trattato del nobilissimo gioco degli scacchi che gli procurò una fama internazionale. Il trattato ebbe un successo tale che nel corso della vita del suo autore ne uscirono ben tre edizioni, ma il clamoroso riscontro proseguì anche dopo la sua morte allorché il trattato venne pubblicato in oltre cinquanta edizioni e in molti paesi europei. Una fama che persiste attualmente, considerato che il Trattato è ancora stampato, venduto e letto.
L’opera fu dedicata ad Enrico II duca di Lorena (una copia miniata con tale dedica si trova alla Biblioteca Nazionale di Firenze) e forse a seguito di ciò Gioacchino Greco si recò a Parigi dove prevalse clamorosamente sui campioni che in Francia a quel tempo si disputavano il primato negli scacchi. Altre copie manoscritte vennero invece dedicate ai suoi protettori romani. Una copia datata 1620 si trova oggi a Roma nella Biblioteca Corsiniana. Le prime copie a stampa sono del 1656 in inglese e del 1669 in francese. Nelle successive innumerevoli ristampe il Trattato appare spesso incluso in altre opere.
Oltre che la Francia, le cronache dell’epoca raccontano che Greco abbia raggiunto la Spagna guadagnandosi da vivere giocando a scacchi, mentre un viaggio in Inghilterra fu all’origine di una sgradevole disavventura: pare che qualche tempo dopo lo sbarco, fatto pedinare da alcuni rivali battuti al gioco, sia stato aggredito da un gruppo di malviventi che gli portarono via più di 5000 scudi, praticamente il frutto di tutte le sue vittorie. Fortemente contrariato, se ne tornò in Francia convinto che là ci fossero le condizioni ideali per vedere apprezzata la propria genialità e il proprio stile: non a caso, ormai noto nelle corti e nei salotti delle più grandi famiglie, fu presto definito “superbo e affascinante come il suolo della sua Patria”. Si racconta persino che uno dei suoi famosi avversari, da lui battuto, cavallerescamente s’inchinò a salutarlo con un madrigale.
Le fonti sulla sua vita sono diversi suoi manoscritti con dedica autografa indirizzati ai suoi protettori e le poche righe a lui dedicate dallo scacchista campano Alessandro Salvio che nel 1634 parla di Greco come già morto. Proprio il Salvio riferisce di un viaggio dello scacchista calabrese nelle Indie Occidentali al seguito di un grande signore spagnolo, un viaggio che lo avrebbe portato a conoscere il Messico, il Perù ed il Cile e dal quale pare non abbia mai fatto ritorno. Si sarebbe spento in un luogo imprecisato del Nuovo Mondo proprio verso il 1634 lasciando ogni suo avere ai Gesuiti forse in memoria degli studi compiuti nel loro collegio di Cosenza e dell’assistenza ricevuta in luoghi distanti dalla sua patria.
Nel suo celebre Trattato Greco analizzò soprattutto i giochi aperti, in particolare la Partita Italiana e quello che oggi è noto come Gambetto Lettone, ma che a lungo fu denominato Gambetto Greco, un’apertura di scacchi così definita perchè il primo giocatore ad utilizzarla con successo fu proprio Gioacchino Greco. Dello scacchista calabrese è giunta fino a noi la descrizione di ben 77 partite e i suoi studi si concentrarono in particolare sulle mosse di apertura che potevano garantire già nella fase iniziale della partita un certo vantaggio. Dal suo Trattato presero le mosse tutti gli studi successivi dei sistemi di apertura favorendo così il progressivo formarsi della teoria delle aperture.
“Gioachino Greco, più conosciuto con il nome de Il Calabrese, visse verso l’anno 1640 e fu il più abile giocatore di scacchi del suo tempo. Egli percorse invano tutte le vie d’Europa per trovare qualcuno che lo eguagliasse. Il Duca di Némours, Arnauld-le-Carabin, Chaumont de la Salle, i tre più famosi giocatori della corte di Francia, vollero misurarsi con questo campione e furono sconfitti. Di lui ci restano le regole del gioco che amò così tanto, e i diversi modi che impiegò per battere i suoi avversari. Quest’opera è sempre stata ricercata dagli amatori del gioco degli scacchi che vi trovano numerosi e utili insegnamenti”
Gli elogi per questo grande campione proseguono nella successiva nota dell’Editore nella quale, fra l’altro, si legge: “(…) di tutti gli autori più famosi che hanno scritto intorno alla maniera di giocare agli scacchi, non ce n’è uno che abbia mai trattato questa materia con scienza maggiore di quella con cui il Calabrese l’ha trattata.”
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