IL BOSCO PRIMIGENIO, PATRIMONIO UNICO
Premessa fondamentale per la comprensione dell’attuale vegetazione forestale è uno studio storico che ci porti a dispiegare le sue molteplici vicende a cui è stata sottoposta nel corso dei secoli. Anche quando ci sembra aver scoperto uno scampolo di foresta primeva, ci inganniamo poiché l’attività umana ha operato millenni di manomissioni, o forse è meglio dire di rapina. Una bella pineta, una faggeta costituita da un manto uniforme è il risultato di attività agrosilvocolturali che ne hanno snaturato l’aspetto originario. Un bosco monofitico (costituito cioè da una sola specie), un bosco coetaneo (con alberi tutti della stessa età) è infatti il risultato di un orientamento voluto dall’uomo. È invece verosimile che i boschi per loro natura siano disetanei e polifitici costituiti cioè da un miscuglio di essenze arboree dove, qua e là, prevale talora una specie forestale, talora un’altra. Così il manto forestale che ricopriva l’Europa è stato depauperato sin da tempo immemorabile. I forestali si sono affaticati tardivamente a cercare di ricostruire le foreste, a volte invano, indirizzandone la crescita secondo le scuole di pensiero prevalenti. Compito davvero ingrato quello di voler ricostruire in pochi decenni quello che la natura aveva creato in millenni o forse anche in periodi più lunghi.
LA SILA, REGINA DELLE SELVE
La Sila (dal greco ὕλη = yle, e dal latino Silva, che significa foresta, bosco) è un altopiano del sud Italia (il più grande d’Europa) situato nella regione settentrionale della Calabria che si estende per 150.000 ettari attraverso le province di Cosenza (Sila Greca e Sila Grande), Catanzaro e Crotone (Sila Piccola). Secondo il geografo greco Strabone questi luoghi erano folti di alberi e di corsi d’acqua, ma è Dionigi di Alicarnasso fra i primi a farci sapere che i suoi boschi sono costituiti da abeti, ontani, pecci, pini, faggi e frassini (1) e che incominciarono ad essere sfruttati per il legname sin dal periodo romano. Quando questo popolo sottomise i Bruttii (o Brettii, antico popolo italico che abitò la quasi totalità dell’attuale Calabria) la Sila divenne ager publicus (demanio pubblico) della terza regione romana (2). Dallo stesso autore apprendiamo che i Bruzi cedettero la metà della regione montuosa chiamata Sila, ricca di piante che vennero utilizzate per costruire case e navi (3). Gli alberi posti lontano dal mare e dai fiumi, tagliati in pezzi, furono utilizzati per la produzione di doghe, remi, pali, per costruire e costituire la flotta navale.
Dalle piante più grandi si estraeva una resina chiamata Pix Brutia, per cui l’affitto ricavato da questi boschi rendeva a Roma un cospicuo reddito annuo (4). A parlare più ampiamente di questo prodotto è Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, in cui spiega che “dall’abete si ricavava la pece liquida, che serve per l’impermeabilizzazione degli scafi navali e per molti altri impieghi, e si ottiene per cottura. Il legno, fatto a pezzi, si metteva a scaldare in fornaci con il fuoco acceso tutt’intorno; un primo liquido che colava come acqua da un canale aveva proprietà così efficaci che in Egitto ne cospargevano i cadaveri per imbalsamarli. Il liquido che si ricava dopo questo è più denso e fornisce la pece liquida che, versata in caldaie di bronzo veniva poi fatta addensare usando l’aceto come coagulante, e prende il nome di pece bruzia (pix brettiana), adatta per sigillare le botti ed altri recipienti del genere e differisce dall’altra pece sia per la sua viscosità, sia per il colore rossiccio, e sia per il grasso che contiene in misura superiore agli altri tipi. Questi ultimi si ottengono dalla resina della Picea che viene raccolta per mezzo di pietre roventi in contenitori di rovere resistente, oppure in mancanza di recipienti facendo una catasta di rami, come per la preparazione del carbone, è la resina che si aggiunge al vino dopo averla ridotta in polvere, ed è di colore scuro. Se si fa bollire piano e si passa al setaccio, si ammorbidisce, prende un colore rosso e viene detta resina in gocce; generalmente per questa preparazione si mettono da parte gli scarti della resina e la scorza”.
Secoli dopo, il legno della Sila venne utilizzato anche per costruire i solai della Basilica di San Pietro e Paolo in Roma (5-6) e, come riportato dal Liber Pontificalis di Papa Sergio II (687-701) (7), anche per la ricostruzione della Basilica romana di San Paolo fuori le Mura (8). Sempre con gli alberi della Sila si ricostruì la Basilica romana di San Lorenzo fuori le Mura (9). E Gregorio II (715-731) mandò dei legati presso il vescovo cosentino Roffrido per agevolare il taglio di pini che utilizzò per la stessa Chiesa (10). Un’iscrizione del basamento della Basilica Vaticana ricorda che il Papa Benedetto XII (1334/1342) per rifare il tetto della Basilica fece prelevare dalle foreste silane delle travature lunghe 33 metri (11).
Nel Settecento fu usato il legname della Sila anche per la costruzione della Reggia di Caserta (12): S.E. Il Sig.e Cav.re d. Lor.o M.a Neroni Int.te Gen.le de Reali Stati di Caserta (Napoli) |Francesco Parascandolo e Nicola Mancini dal 20 ottobre 1763 al 3 febbraio 1764 trasportarono dalla marina di Crocchia (foce del fiume Crocchio) al porto di Napoli 683 tronchi di abete, prelevati dalla Sila piccola di Cosenza, per la costruzione del tetto del Real palazzo di Caserta. Il documento fa riferimento ad uno degli undici viaggi effettuati dal Parascandolo e dal Mancini.” (13).
L’estensione dell’altopiano venne stimata in 700 stadi (130 km), quindi comprendeva i monti vicini oltre che la Sila stricto sensu (14).
SILA REGIA E SILA BADIALE
Il demanio silano costituiva allora un corpo unitario che sopravvisse per secoli anche se, come vedremo, le incursioni di alcuni signorotti locali per appropriarsene risalgono al tardo medioevo. È documentato il caso dei conti di Catanzaro, i Ruffo, che attorno alla metà del 1200 rivendicarono il “tenimentum quoddam terrarum sylvestrium et culturum nemorum, sitam in dicto loco, qui dicitur Ampulinus” fra gli odierni confini dei comuni di Cotronei e S. Giovanni in Fiore. Il conte Ruffo impedì, catturandoli, di far pascolare gli animali dell’Abbazia florense e “prohibendo magistris furnorum picis existentium in tenimento ipso” (vietando cioè le attività di produzione della pece presenti nella stessa tenuta) (15). L’epilogo della lite che ne nacque, durata un ventennio, si concluse il 2 marzo 1278, nel riconoscimento da parte dei Ruffo dei diritti del Monastero e nella rinuncia ad ogni pretesa sul tenimentum Ampulinus (16).
Per evitare contestazioni di confine, sempre più frequenti, nel 1332 Roberto d’Angiò inviò in Sila due delegati, Giovanni Barrile e Paolo di Sorrento, per meglio stabilire i limiti della Sila Regia che finalmente furono codificati nel Diploma del 24 dicembre dell’anno successivo (17). Con lo stesso editto la Bagliva della Sila fu concessa al “magistro Michaeli de Cantono de Messana dilecto Consiliario familiari et fideli“ (18).
C’è da ricordare che, Guglielmo II, detto il Buono, fece una prima concessione il 1178, all’Abate di Santa Maria di Corazzo, il futuro Gioacchino da Fiore (19). Il 21 ottobre 1194 Enrico VI, a Nicastro, concesse a Gioacchino il Tenimento Floris, che avrebbe costituito la Sila Badiale (20); un’altra copiosa donazione fu elargita il 6 marzo 1195 (Regesta Imperii, IV, 3, 37-408), e una ulteriore il 21 febbraio 1197 (Regesta Imperii, IV, 3, 582). Queste furono poi confermate dalla Regina Costanza d’Altavilla dopo la morte improvvisa di Enrico VI nel settembre del 1197, con diploma emanato da Messina nel mese di gennaio 1198, poco prima che ella morisse (21). Questo vasto tenimento comprendeva una superficie di quaranta miglia i cui confini furono ristabiliti, come vedremo in seguito, dal tavolario Galluccio nella sua venuta in Sila (22). In sostanza tutta la Sila venne quindi divisa in due parti: Sila Regia e Sila Badiale. Quest’ultima è da considerarsi una concessione del sovrano alla Chiesa.
Molti altri territori boscati furono assegnati alla Chiesa. Nel 1104 Ruggero il Normanno, conte di Sicilia e di Calabria, conferma a Bartolomeo da Simeri dell’Abbazia di Santa Maria Nuova Odigitria o del Patire la proprietà del casale di San Pietro di Corigliano e di San Mauro con i casali di Cefalino, la Cona e San Giorgio (23). Nel 1122 Mabilia, figlia di Roberto il Guiscardo, ed il figlio Guglielmo, fanno dono di alcuni possedimenti tra i fiumi Crati e Coscile. Nel 1128 Mabilia conferma allo stesso Abate il diritto di pascolo sulle terre demaniali a Isola Capo Rizzuto. Così Federico II di Svevia, con un diploma dato a Palermo nel 1206, donò all’abate dei cistercensi del Monastero di Santa Maria di Acquaformosa l’isola di Dino e la Chiesa di San Pietro de Grasso in tenimento di Scalea e Mercurion (24). Con altro diploma del settembre 1206 lo stesso sovrano conferma ai cistercensi di Acquaformosa i territori e la miniera di ferro nelle vicinanze di Lungro in Calabria e tutte le altre donazioni fatte da Ogerio e Basilia, col diritto di libero pascolo e di una salma di sale ogni settimana dalle Saline di Brahalla (nome saraceno dell’attuale Altomonte) (25).
Un’altra concessione la fece il Duca Ruggero, figlio di Roberto il Guiscardo. Nel 1099 con un diploma, dato in Tropea, concesse la tenuta di Sanduca al Monastero dei Cistercensi di Altilia (monastero Calabromaria); concessione confermata dallo stesso Ruggero nel 1115 e nel 1149 (26). L’anno 1224 Federico II di Svevia donò all’Abbazia di S. Angelo di Frigillo alcuni tenimenti silani per il libero pascolo di Caput Tacinae et Chyricillum (27) e che comprendeva i boschi del Gariglione; all’Abbazia della Sambucina il tenimento di Vallis Bona, Sallola e Sancta Rosalia (28) e all’Abbazia del Corazzo i tenimenti di Campo Lungo, Sacchino e Castellammare (29).
C’è da ricordare che il tetto della Basilica di San Giovanni in Laterano, distrutta dall’incendio del 5 e 6 maggio dell’anno 1308, fu ricostruito con travi provenienti dalla Calabria (castrum Sancti Donati nei pressi del Mercurion) (30). Anche per i lavori di costruzione del duomo di Napoli si era attinto al patrimonio forestale della Calabria (31). Ancora dai boschi del Castrum Mercurii (Orsomarso) del Giustizierato della Valle del Crati e Terra Giordana furono estratte le travi per il tetto della Basilica di Santa Chiara di Napoli (32).
SILA: LE USURPAZIONI
Per tornare al regio demanio silano diremo che nel ‘400 si intensificarono le usurpazioni. Baroni, ecclesiastici e privati occuparono queste terre che vennero difese anche con le armi. Ed è in questo periodo che i boschi silani subiscono massive perdite a favore di pascoli e seminativi. Poiché ai cittadini di Cosenza e dei suoi Casali erano riservati gli usi civici (per es. diritto di pascolo, di ghiandaggio) (33) e le usurpazioni impedivano di esercitarli, più volte questi chiesero al sovrano di intervenire per stroncare l’usurpazione dei terreni demaniali silani (per es.: in data 23 gennaio 1473) (34); 1- 4 agosto 1487 (35); 28 febbraio 1507 (36); 1 maggio 1520 (37); 16 luglio 1533 (38) e 4 agosto 1555 (39). L’Imperatore emanò allora una prima prammatica: de incisione arborum con cui si vietava il taglio degli alberi in generale e dei pini silani in particolare (40).
Nel 1568 la Regia Camera della Sommaria incaricò uno dei suoi Presidenti, Loria, ad informarsi sulle usurpazioni silane. La spedizione non ebbe successo come non ebbe successo la successiva del Consigliere Vera nel 1585. Nel 1570 il Notaio Giovanni Antonio Gerace, di Spezzano, attuario di Camera, sollevò energicamente il problema (anche guidando i contadini dei Casali del Manco nell’occupazione delle terre) reclamando un’inchiesta per la reintegrazione al demanio di tutti i terreni occupati, che nel frattempo erano stati disboscati e dissodati. In un suo memoriale venne stabilito l’ammontare delle terre usurpate che coprivano, all’epoca, una superficie di 250 mila tomola (83.000 ettari circa) delle quali 100mila tomola (33.000 ettari circa) dopo il 1535 (41). Il loro valore: un milione di ducati e gli interessi da pagare in diritti illecitamente fruiti in altrettanti ducati.
LA MAPPA DELLA REGIA SILA
Il 1609 venne inviato in Sila il Presidente della Sommaria (42), il Principe Bernardino Montalvo, per dirimere l’intricata matassa degli abusi e degli usi civici silani (43). Si dovette intervenire anche sulla Sila badiale, data in concessione a suo tempo a Gioacchino da Fiore, perché il commendatario dell’Abbazia pretendeva di non pagare il dazio per l’estrazione della pece e per l’estrazione del legname. Dietro nuova sollecitazione del Gerace il due dicembre del 1613 Filippo III di Spagna diede ordine al Vicerè di disporre la compilazione della mappa della Sila Regia. Venne mandato il Presidente della Camera Sommaria Giacomo Saluzzo accompagnato dall’Avvocato fiscale Gian Girolamo Natale e dal Regio Ingegnere Michele Cartaro. A quest’ultimo si deve la prima stesura di una mappa della Regia Sila che sarebbe dovuta servire come base per proteggere tutto il territorio demaniale. Venne quindi emanata una seconda prammatica in cui si ribadiva il divieto di tagliare e bruciare nelle pinete silane (44). Ed è proprio in questo periodo che nascono le prime camere chiuse della Sila, furono cioè “eletti e riserbati boschi opportuni per le costruzioni delle navi, né quali proibita fu la fabbricazione della pece, ed ogni uso civico degli abitanti di Cosenza, e de’ casali. E tali boschi si dissero camere chiuse” (45). Erano camere chiuse: Anetra, Trionti, Troini, Cava dei Melisi, Serra dell’Altare, Callistro, Spinalba, Tiriolo, Pisanello, Ticina, Voturo, Ariola, Guerriccia, Marco e il Peciaro (46).
Successivamente furono mandati il tabulario Antonio Galluccio e il Presidente della Camera Sommaria Valero rispettivamente nell’anno 1663 e 1688 prima di tutto per fissare i confini della Sila Badiale. Il tabulario Galluccio nella sua venuta in Sila ebbe a confermare l’estensione del demanio regio e ne fissò i confini con delle pietre miliari (47). Il Valero fece apporre, successivamente, 87 pilastri che delimitavano la Sila Regia apponendo i confini anche alla Sila Badiale. Recentemente Recentemente è stata trovato dal sign. Francesco Cosco, nel Parco Nazionale della Sila, in località Musco di Petilia Policastro, a metri 1300 circa di altitudine, un grosso monolite inciso cui si legge la data del 1663 fatta apporre proprio dal tabulario Galluccio (48). Sempre Cosco ha individuato un secondo enorme cippo miliare in cima ad una delle tre vette del Monte Gariglione, ad oltre 1700 metri s.l.d.m.: è la Pietra di Dui citata nella mappa del Galluccio del 1663. Sul monolite e stato scoperto l’acronimo R.S. (Regia Sila) con una prima incisione delle date 1332/1333 che i messi di Carlo d’Angiò, Giovanni Barrile e Paolo di Sorrento fecero apporre sul masso. Il monolite reca anche le date del 1721 e 1755 relative ad altre due verifiche effettuale nella Sila Regia (49).
Si soggiunge che sorte migliore non ebbero le visite delle delegazioni del 1771, 1772, 1773 e 1779 rispettivamente effettuate dall’Uditore Nicola Venusio (50), dell’Uditore Vanvitelli, dal Preside Danero e dal Preside Dentice. Per evitare però di dilungarci troppo, accenneremo all’ultimo incarico degno di nota, quello dato al chiarissimo Giuseppe Zurlo, Giudice di Vicarìa (51), per dirimere finalmente la questione silana. Ed è eloquente quello che scrisse il Serravalle sulla spedizione dello stesso: “i lavori del Giudice Zurlo sulla Sila, e diciamo meglio del suo Segretario giureconsulto Carlo Romeo, furono importanti, improbi, immensi e formano epoca nella storia Silana. Eppure quei libroni che costarono tanta fatica, quei quinternioni che erano un tesoro inapprezzabile pel Governo, andarono perduti per oltre otto lustri. Solamente si avea la Relazione officiale sulla Sila del 28 ottobre 1792 diretta al Ministro Acton, che fu pubblicata per le stampe nel 1852 e di poi anche ritirata e resa ora rarissima perché si trovano accertati molti dritti dei possessori, e fatti dei progetti conciliativi e ispirati da giustizia e da equità” (52).
Proprio dalla relazione Zurlo emerge che dall’antico manto boschivo silano, nel 1792 erano sopravvissuti moggia 44908 (15.000 ettari circa) di Bosco di Pini, e moggia 60558 (20.180 ettari) di bosco di Faggi, il resto era diviso tra le terre di pascolo e quelle di semina (53). Furono distrutti col taglio e col fuoco 565.400 pini giovani nella Sila Regia e 410.900 in quella Badiale; 244.200 pini adulti nella prima e 312.500 nella seconda; 43.000 abeti nella Sila Regia, 285.100 piante di latifoglie nella Sila Regia e 92.200 in quella Badiale. Ancora che la coltura abusiva, dopo queste distruzioni, fu di 4.850 ettari nella Sila Regia e 2.400 ettari in quella Badiale. Ma la proposta di incorporare i terreni usurpati nel demanio regio non sortì alcun effetto degno di nota.
L’usurpazione delle terre silane comportò l’estirpazione degli alberi “su le montagne e mettere a coltura le terre, dalle quali se gli agricoltori ebbero abbondanti i primi ricolti, perché provenienti da terreni vergini, se li vedevano poi scemare di anno in anno, perché trasportato il terreno dalle acque, ingomberate le sottoposte pianure, solcato stranamente il dorso dei monti, e però denudato il colle, devastato il sottoposto piano, abbandonati i torrenti alle svariate devastazioni e all’impeto spaventevole dei turbini e delle bufere, l’agricoltura di quella provincia fu sovvertita” (54).
Alla fine del 1800 sopravvissero pochi scampoli di boschi. Ed ecco che agli inizi del secolo successivo non solo i boschi silani ma quelli di tutta la Calabria subirono un definitivo saccheggio. Vennero risparmiati solo gli alberi presenti nelle forre, sui dirupi irrangiungibili dalle motoseghe. Nella Sila Piccola, nel 1907, una parte del Bosco Gariglione viene venduta ad una ditta tedesca, la Rüping (Charlottenburg-Berlino) che inizia i tagli. La prima guerra mondiale congela l’operazione. Alla fine del conflitto la ditta viene liquidata con una forte somma e dopo un bando si aggiudica il taglio, nel 1925, la So.Fo.Me (acronimo di Società Forestale per il Mezzogiorno). La società fece costruire una ferrovia forestale Decauville con trazione a vapore che dal Monte Gariglione terminava a Differenze e da qui una teleferica che giungeva alla stazione ferroviaria di Mesoraca per trasportare a valle faggi giganteschi. Norman Douglas che aveva visitato quei luoghi ne aveva decantato la selvaggia bellezza primigenia definendo il sito Urwald, cioè giungla (55). In un suo secondo viaggio in Calabria, non volle più tornare a rivisitare i luoghi dopo il selvaggio taglio per non assistere allo scempio.
LO SFRUTTAMENTO DEI BOSCHI NEL RESTO DELLA CALABRIA
Anche nel resto della Regione le cose non andarono meglio. Nel 1910 il Comune di Saracena stipulò un contratto con la ditta tedesca Huslsberg di Charlottenburg che costituì a Napoli la Rueping per il taglio di 93.500 faggi dei boschi del circondario che iniziò nel 1911 e durò un ventennio (1933). Dapprima il taglio era stato limitato ai monti di Saracena ma successivamente comprese quelli di Acquaformosa, Firmo, Lungro, Morano, S. Donato di Ninea, S. Sosti e Verbicaro sistemando i propri impianti a Valle Scura, alle falde del Cozzo del Pellegrino, al Perticoso. Da questi luoghi il legname veniva confluito allo scalo verroviaro di Verbicaro. Venne costruita una ferrovia a scartamento ridotto che dai Piani di Novacco giungeva al Piano di Campolungo e da qui una teleferica trasportava i tronchi attraverso Vallecupa e Cernestà sino ai Piani di Zoccalia dove erano ubicate le segherie. Vennero quindi ceduate, a taglio raso, vaste aree e solo nei siti inaccessibili rimasero maestosi alberi a testimonianza della selva che ricopriva quelle zone (56).
Il Signor Casella ci ha informato che da notizie raccolte dall’associazione Skidros risulta che la stessa ditta Rueping ha svolto la propria attività di taglio dei boschi anche nel comune di Buonvicino. Una teleferica che partiva da Passo della Melara nei pressi della Montea, trasportava i tronchi tagliati al villagio di Serrapodolo dove il legname veniva parzialmente lavorato. Il migliore veniva trasportato a fondovalle inizialmente con animali da tiro e poi con grossi camion. Quello meno pregiato veniva utilizzato per alimentare le “carcare” ovvero le fornaci che producevano la calce. Nel secondo dopoguerra alla Rueping subentrò la ditta Palombaro da cui prende il nome il noto passo detto appunto “Varco del Palombaro” che costituiva la via d’accesso per le valli del Crati e di Sibari da dove veniva approvvigionato il salgemma per le popolazioni rivierasche. Il taglio venne abbandonato quando non più remunerativo. Nel 1911, Angelo Manzocchi, proveniente da Morbegno (Valtellina, Sondrio), avviò a Francavilla Marittima un’imponente attività di sfruttamento del legname facendo costruire una teleferica di 23 chilometri portando con sé trecento operai valtellinesi (molti dalla Val Tartano), tutti esperti segatori e di montaggio di impalcature per teleferiche (57).
Un altro duro colpo fu sferrato ai boschi dell’Orsomarso dalla Società Argentino-Rafosa. Per un paio di decenni fino alla metà degli anni cinquanta la scure non risparmiò nulla. Giunsero ad Orsomarso esperti boscaioli dal Veneto, dalla Toscana e da altre regioni. Venne costruita una ferrovia a scartamento ridotto lungo il corso del Fiume Argentino per circa 10 km su cui viaggiava la ferrettina carica di tronchi che una teleferica, i cui resti sono ancora ben visibili a Mare Piccolo, trasportava a valle. Il legname confluiva alla Segheria nei pressi di Orsomarso. Anche qui i resti superstiti, forse le matricine, oggi svettano imponenti nella valle. Un’altra ancora, trasportava il legname prelevato nella Fagosa e dalle sorgenti del Vascello attraversava la Manfriana e giungeva nella stazione di arrivo di Frascineto.
Sulle Serre vibonesi già agli inizi dell’800 venne fatta costruire la prima ferrovia decauville della penisola da Achille Fazzari e commissionata dai Borboni che partiva da Cerasella passava per Ferdinandea per terminare nella frazione di Caulonia fino al Passo della Ziia per complessivi 20 km. La seconda, lunga 10 km, si trovava a Bordingiano, frazione di Stilo, con un ponte in ferro attraversava lo Stilaro e terminava a Monasterace Marina dove vi era un molo realizzato dal Fazzari. I due tratti vennero collegati con dei carri e dalla località Baracche a Bivongi in Località Stazione vi era una teleferica lunga 7 km. Le due ferrovie servivano sia a trasportare la pirite delle miniere di Bivongi sia il legname che utilizzavano gli altiforni della Ferrieria di Mongiana. Si ricorda che Ruggero il Normanno aveva dato a Brunone di Caulonia (58) un territorio immenso che andava dall’odierno Monte Consolino di Stilo fino a Spadola e quindi ad Arena (59), e che l’estrazione della pirite fu concessa dallo stesso Ruggero alla Chiesa di Serra San Bruno sin dall’anno 1000 (60).
Anche in Aspromonte, nel 1913, viene costruita una ferrovia decauville lunga 10 km., ad opera dell’azienda De Leo di Bagnara, per trasportare i tronchi fino alla località Petrulli nel comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Insomma un vero sterminio dei boschi calabresi che in tempi remoti ricoprivano la regione con un folto manto verde senza soluzione di continuità.
SILA: I BOSCHI SCAMPATI ALLE USURPAZIONI
Per ritornare alla Sila gli unici boschi superstiti scampati alle usurpazioni, durate più di cinquecento anni, furono quelli delle c.d. Camere chiuse o riservate [Legge 25 maggio 1876, n. 3124 (Serie 2°) sulla Sila regia, Gazz. Uff. 26 maggio 1876, n. 123] (61). Si tratta di boschi dove vennero vietati anche gli usi civici dei cittadini di Cosenza e dei suoi Casali. Boschi i cui alberi dovevano servire per l’arsenale navale italiano. Il Bosco Gallopane è giunto fino a noi con maestosi e superbi pini che raggiungono l’altezza anche di 40 metri grazie a questa parziale protezione accordata, così come non mancano vetusti esemplari di faggi. Ne fece testimonianza il botanico Biagio Longo che visitò sia questo bosco che quello limitrofo del Corvo nel 1904 che li trovò fra i più belli della Sila (62).
SILA, NON SOLO LEGNAME
Ma i prodotti offerti dalle montagne calabresi non si limitavano al legname a uso industriale. I pini silani offrivano anche la teda o deda (dal latino tæda = fiaccola, torcia), il legname resinoso, di largo uso, che serviva una volta acceso ad illuminare le case e non solo. Pino Rende riporta che a cominciare dalla metà di luglio e fino a quella di ottobre 1541, la ‘frabica de Cotrone’, attraverso il suo ‘monittionero’ Aurelio de Ancona, si approvvigionò della ‘deda’ fornita dal crotonese Berardino Armingari e da Bellisario de Gallipoli, in maniera da consentire che fosse illuminato lo scavo di fondazione del baluardo Petro Nigro dove, mediante una ‘trumba’, i manipoli erano impegnati nottetempo a togliere l’acqua del mare, cosi da consentire alle maestranze di proseguire nell’edificazione durante il giorno (63). Per illuminare il Castello di Cosenza venne usato lo stesso materiale (64). I botanici Petagna, Tenore e Terrone, in un loro viaggio in Calabria, nei primi del 1800, raccontano che l’interno di esse delle case per la maggior parte era annerito dal fumo del pino della Sila, che nei villaggi della pre-Sila lo si bruciava per illuminare le abitazioni (65).
Vi erano poi le rendite dello jus picis ovvero dall’estrazione della pece dagli alberi dei Pini [Pinus nigra subsp. laricio (Poir.) Maire], che furono cospicue. L’estrazione della pece, come abbiamo già accennato, iniziò nel periodo romano e continuò per secoli. Il Giudice Zurlo, nel Settecento, valutò la rendita media annua calcolata in 20 anni dello jus picis che ammontava a ducati 826,19 annui per la pece bianca e 2197,03 per la pece nera (66). Due esempi per dare una idea della quantità di pece venduta nel Cinquecento: 1. Luca Grillo, genovese, vende 1000 cantara (circa 890 quintali) picis navalis ponderis […] quam dixit habere in Sila Cosentiæ a Giovanni Antonio de Guano anche lui genovese; 2. Pietro Antonio Ravaschieri, genovese, arrendatore della Regia Dogana del ferro e della pece in Calabria Citra appalta ad Alessandro Baldoviti la lavorazione di 3.300 cantara (2.930 quintali) di pece al peso napoletano al prezzo di untie trentatre à rotulo […] (67). L’antichità del commercio della pece in Calabria è testimoniato dal rinvenimento a Falerna di frammenti di grosse anfore che sul collo recano il bollo Pix Brut<ia>. Nel parco archeologico di Kaulon (Monasterace Marina) sono stata addirittura rinvenute anfore ancora piene di questa sostanza.
Un cespite di tutto rispetto lo rendeva anche l’estrazione della manna che in Sila veniva praticata soprattutto nei distretti di Bocchigliero e Campana. La sua estrazione risaliva a tempi immemorabili. Come ci testimonia Giovanni Fiore nel Seicento se ne estraevano grandi quantità tanto da essere gravata da una gabella (68). L’estrazione avveniva incidendo gli alberi del Frassino (Fraxinus ornus L.) e da queste ferite colava più tardi un liquido zuccherino che veniva raccolto una volta rappreso. L’uso medicinale della manna fece nascere, nel Cinquecento, la necessità di disciplinarla con una prammatica del Regno per impedirne le sofisticazioni (69).
Ancora una risorsa rendeva il bosco: il carbone. Carbonaie erano diffuse su tutte le montagne calabresi. Nella Sila Piccola, è noto un sentiero, detto dei Carbonai, che già nell’800 d.C. collegava quattro antichi monasteri basiliani. Una lavorazione quella dei Carbonai praticata quindi da tempi immemorabili. Per rimanere in tempi recenti, questo mestiere era diffuso nella popolazione di Serra Pedace. Da questo paese, a fine estate, i lavoratori del carbone si trasferivano in Sila con tutta la famiglia per ottenere il prezioso prodotto dal legno di Cerro, Faggio e Querce. Oggi, un cartello, posto sul sentiero nr. 2 del Parco Nazionale della Sila ne illustra la lavorazione ormai abbandonata.
Merita inoltre una citazione, sebbene non direttamente riferibile al bosco, la neve che cadeva copiosa durante i mesi invernali e veniva conservata nelle neviere per poi essere trasportata a valle in estate e usata per conservare i cibi deperibili e per preparare sorbetti. Il presidente della Regia Camera della Sommaria e avvocato del Regio Patrimonio, Fabio Capece Galeota, ci fa sapere che, agli inizi del Seicento, nella Calabria Citra già da tempo il Fisco aveva il possesso ed il diritto di affittarne la sua conservazione e vendita (70). Ancora nel Settecento lo ius prohibendi delle neviere silane rendeva la cospicua somma di 1.650 ducati (71). Anche in quella che veniva definita Calabria ultra erano presenti della neviere come testimonia il relevio (72) di Scilla del 1630 (morte di Maria Ruffo) da cui figura l’imponente entrata di 12.000 ducati per la fornitura di neve da parte di Giovanni Ruffo (suo figlio) alla città di Messina (73).
Ancora un prodotto boschivo: il tannino. Nel 1924, ad opera di una ditta francesce, la Petite, nacque a Catanzaro Lido una fabbrica, la Ledoga, per la produzione del tannino prodotto dal legname di castagno o di querce proveniente dall’altipiano silano. Anche in provincia di Cosenza, a San Vincenzo La Costa e Montalto, nei primi del Novecento, erano attive altre due fabbriche di tannino. Le ultime due entrarono nel novero di molti di questi opifici che distruggevano i castagneti italiani oggetto di una interrogazione parlamentare del 28 maggio 1908 (74). Infine c’è da segnalare un altro opificio tannico: la Legnochimica di Rende nata un trentennio fa dal trasferimento, nella valle del Crati, dell’industria tannica di Gesuiti di San Vincenzo la Costa e che ha operato fino a pochissimi anni fa. Questa industria ha fagocitato i tanti patriarchi arborei (Castanea sativa L.) disseminati lungo la Catena Costiera: da Grimaldi al Passo dello Scalone che i proprietari hanno svenduto pensando che la vendita delle castagne fosse diventata antieconomica. Per fortuna la lunga distanza da Cosenza ha risparmiato dalla scure alcuni castagneti impiantati da secoli nel territorio silano. Così maestosi patriarchi arborei fanno ancora mostra di sé. Titani, quasi monoliti, sono presenti a Melitani e a Cavallopoli nei pressi di Cerva-Sersale (pre-Sila catanzarese).
Nella prima località, il Castagno del Cielo sfiora i 10 metri di circonferenza, 28 metri di altezza e i 400 anni di età. Ancora a Sersale, in località Castanìa, è ubicato un ampio e vetusto castagneto costituito da alberi di 200-300 anni. Sempre nel comune di Sersale emerge imponente tra tutti il Gigante Buono, un castagno di circa 500 anni e oltre otto metri di circonferenza). In località Cozzo del Pesco (Sila Greca), a Rossano, sono presenti 103 alberi di castagno (e non solo) di proporzioni monumentali: 20 metri di altezza e 13 metri di diametro alla base il matusalemme. Altri 4 esemplari hanno la veneranda età stimata fra i 750-800 anni. Ed è commovente pensare come, per secoli, “l’albero del pane” abbiano sfamato uomini e animali con la sua pregiata farina e ancora può rappresentare una fonte di reddito non trascurabile per una regione la cui unica vera risorsa è la natura.
Per terminare questa breve disamina bisogna mettere in evidenza il crescente interesse, negli ultimi anni, per la conservazione della natura che ha indotto l’istituzione di due Riserve Regionali (Lago di Tarsia, Foce del Crati), un Parco Regionale (Serre Vibonesi) e tre Parchi Nazionali (Aspromonte, Pollino e Sila) in Calabria facendo diventare la regione una delle più verdi d’Italia (75). Sicuramente ciò permetterà prima di tutto la riconversione dei boschi cedui in fustaie e poi a una naturalizzazione dei boschi ricadenti nelle aree dei Parchi Nazionali, che con le attività silvocolturali sono stati sconvolti nel loro assetto fisionomico e strutturale.
Per quanto riguarda la Sila, si auspica che la candidatura del Parco Nazionale della Sila, già Riserva della Biosfera, a Patrimonio dell’Umanità UNESCO, trovi riscontro stante l’eterogenea geologia, la poliforma orografia, la variegata vegetazione e la sua grande biodiversità biologica che comprende anche molte specie endemiche sia animali che vegetali di estremo interesse biogeografico.
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NOTE:
1) Dionysii Halicarnassensis, Romanorum Antiquitatum Excerpta a libro XII usque ad XX. Lib. XII – XX, 66-67. Scriptorum veterum nova collectio è Vaticanis codicibus ab Angelo Maio Bibliothecæ Vaticanæ Praefecto. Romæ, Typis Vaticanis, MDCCCXXVII, vol. 2, p. 524)
2) Caius Plinius Secundus. Della Storia Naturale, Venezia, dalla Tip. di Giuseppe Antonelli ed. 1844, pp. 359-361.
3) Dionysii Halicarnassensis, ibid, p. 524.
4) Dionysii Halicarnassensis, ibid. p. 524.
5) Sancti Gregorii Papae I. Cognomento Magni, Opera Omnia, Tomus secundus, Parisiis, Sumptibus Claudii Rigaud, MDCCV, Liber XII, Epistola XXI, ad Arogem Ducem, p. 1193.
6) Conciliorum omnium, tam generalium, quam provincialium…. Tomus Tertius. Venetiis, MDLXXXV, Apud Dominicum Nicolinum, p. 408.
7) Cæsar Baronio. Annales Ecclesiastici. Tomus Octavus, Romæ, ex Typographia Vaticana, MDXCIX, p. 8.
8) Cæsar Baronio. Ibid., p. 8
9) Conciliorum omnium, tam generalium, quam provincialium…. Tomus Tertius. Venetiis, MDLXXXV, Apud Dominicum Nicolinum
10) Davide Andreotta. Storia dei Cosentini. Vol. 1. Napoli, Stabilimento Tipografico di Salvatore Marchese, 1869, p. 355.
11) Davide Andreotti. Storia dei Cosentini. Napoli, Stabilimento Tipografico di Salvatore Marchese, 1869, Vol. 1, p. 25.
12) Maria Raffaella Caroselli. La reggia di Caserta: lavori, costo, effetti della costruzione. Milano, Giuffrè, 1968, p. 61.
13) ARC, C.C., vol. 336, ff. 396-403; vol. 362, ff. 101-118. Fonte: Antonio Gianfrotta. Manoscritti di Luigi Vanvitelli nell’archivio della Reggia di Caserta 1752 – 1773. Pubblicazione degli Archivi di Stato. Fonti XXX. Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 2000, p. 70.
14) In Nicola Leoni. Della Magna Grecia e delle tre Calabrie: ricerche etnografiche. Vol.2, Napoli, Tipografia di Vincenzo Priggiobba, Calata S. Sebastiano, n.° 15, 1845, p. 9.
15) De Leo P., a cura di, Documenti Florensi, p.146-147 e sgg., Ed. Rubbettino 2001.
16) De Leo, ibidem, pp.155-160.
17) In Privilegii et capitoli della citta de Cosenza et soi casali, op. cit., f. 113r-114r.
18) Ibidem f. 113r.
19) In Godefrido Hanschenio et Daniele Paperbrochio. Acta sanctorum. Vol. 20, Parisiis et Romae, apud Victorem Palmé, Bibliopolam, 1866, p. 98
20) A tale proposito si veda la pergamena originale dell’Archivio Storico Diocesano di Cosenza nr. 1. Giuseppe Russo. Inediti documenti di archivi e biblioteche calabresi (sec. XII-XVII). Ed. Il Coscile, Castrovillari, 2007.
21) In Ferdinando Ughelli. Italia Sacra sive Episcopis Italiae. Venetiis, Apud Sebastianum Coleti, MDCCXXI, pp. 195-196.
22) “Terras laboratorias, aquas, Sylvas adjacentes eidem Monasterio a vadlo fluminis Nethi, quod est subtus Castellum de Sclavis sicut vadit via ipsa versus meridiem per Petram Caroli Manci, et per serraticum usque ad vadum Sabuti; et ab ipso vado versus ortum ipsius fluminis usque ad alveum Ambolini; ed discendi idem fluvius ad eum locum , ubi miscetur fluminis Netho, et ascendit terminus per alveum ejsdem fluminis Nethi, et vadit ultra flumen per fines Monasterii Sanctorum Trium Puerorum, et Monasterii Abatis Marci, usque ad viam, quae venit a civitate Acherentiae, et vadit per Portium, quae videlicet via manet in confinis a parte Aquilonis usque ad locum, qui dicitur Frassinitum; et exinde revertitur terminus ad alveum fluminis Nethi; ed ascendit idem alveus usque ad vadum, quod est subter castelluim de Sclavi set concludit cum priori fine”.
23) Carta Rossanense del 1104 e 1122, in Ernesto Monaci. Crestomazia italiana dei primi secoli. Fascicolo primo. Città di Castello: S. Lapi Editore, M.DCCC.LXXXIX, pp. 6-8.
24) Privilegio concessionis. ASMUN (Archivio Storico Municipale di Napoli) Sezione ex II.PP.AA.BB. – Fondo Real Casa Santa dell’Annunziata. sez.I – Cat. I – Pergamene n.2, 1206, settembre, Palermo.
25) Tutte le donazioni sono raccolte nel diploma di dotazione conservato nell’Archivio di Stato di Napoli (O, Sez. Iv, n. 723, f. 192v. V. questo link. Vedi anche: Giambattista D’Addosio. Origine Vicende Storiche e Progressi della Real S. Casa dell’Annunziata di Napoli. Napoli, pei tipi di Antonio Cons, 1883, documento nr. XLII. pp. 531-532.
26) Segue il diploma di conferma del 1253. In Ferdinando Ughelli. Italia Sacra. Tomus Nono, Venetiis, Apud Sebastianum Coleti, MDCCXXI, coll. 475-477.
27) In Alessandro Pratesi. Carte latine di abbazie calabresi provenienti dall’archivio Aldobrandini. Biblioteca apostolica vaticana, Città del Vaticano, 1958 , pp. 335.
28) pag. 124, ibidem
29) In F. Pometti. Carte delle Abbazie di S. Maria di Corazzo e di S. Giuliano di Rocca Falluca, in Calabria, Studi e Documenti di Storia e Diritto. Roma, Tipografia Poliglotta, 1901, p. 302
30) Mario Gaglione. Lignamina necessaria de Calabria ferenda. Interventi angioini per la ricostruzione di San Giovanni in Laterano (1308). Archivio della Società Romana di Storia Patria. Vol. 128: 19-20
31) Mario Gaglione op. cit. p. 29.
32) Ibidem
33) Privilegii et capitoli della citta de Cosenza et soi casali, Napoli, 1557. Sala Bolognese: A. Forni, 1982. Ripr. facs. dell’ed.: Neapoli: excudebatur apud Mactiam Cancrum, 1557.
34) Op. cit., f. 29r.
35) Op. cit., f. 59r.
36) Op. cit., f. 81r.
37) Op. cit., f. 90v .
38) Op. cit., f. 95r.
39) Op cit. f. 109v.
40) De incisione arborum, titulus CXI. Pragmatica prima. Ex §. 20 pragm. C.V. anni 1536. In Nuova Collezione delle Prammatiche del Regno di Napoli. Tomo VI, Napoli MDCCCIV, nella Stamperia Simoniana, p. 188.
41) AS, Estado, Leg. 1882, cc. 259-260.
42) La Regia Camera della Sommaria fu fondata nel 1444 da Alfonso V d’Aragona, che – nell’ambito della sua riforma dell’ordinamento giudiziario – unificò due organi: la Magna Curia Magistrorum Rationarum e la Summaria audentia rationum.Era il tribunale Supremo competente a giudicare in materia fiscale.
43) AS, Estado, Leg. 1882, cc. 259-260.
44) PRAMMATICA II in Pragmaticae Edicta decreta Interdica Regiaeque Sanctiones Regni Neapolitani. Volumen Secundum. Neapoli CIᴐIᴐCCLXXII, Sumptibus Antonii Cervonii. Pagg. 358-359.
45-46) Lodovico Bianchini. Della Storia delle Firnanze del Regno di Napoli. Volume Secondo, Napoli, dalla Tipografia Flautina, 1834: pp. 281-282; per l’identificazione dei luoghi v. Nicola Venusio. Le Camere chiuse e i boschi abauzati riportato in: Sila. Storia – Natura – Cultura. Edizione Prometeo. Castrovillari, 1997, 232
47) I termini individuati erano XI, come riportato da Giuseppe Zurlo in Stato della Regia Sila, Vol. I, Napoli, 1860, pp. 195-196.
48) V. sito web di Ass. Culturale Le Madie art. del 16 dicembre 2013
49) V. sito web de Ilpetilino.it art. del 5 aprile 2014
50) Recentemente sono stati ritrovati i suoi manoscritti, ritenuti perduti, conservati nella Biblioteca Provinciale di Matera. Si veda: P. De Leo. I Manoscritti di Nicola Venusio e la ricostruzione del cartulario florense. “Florensia”, 10 (1996). Anche: K. Höflinger-J. Spiegel. Ungedruckte Satuferurkunden für San Giovanni in Fiore. Deutches Archiv für Erforschung des Mittelalters. 49 81993, pp. 75-111.
51) La Gran Corte della Vicaria, istituita da Carlo II d’Angiò, nacque dalla fusione del Tribunale del Vicario con la Gran Corte e costituiva la prima magistratura di appello di tutte le corti del Regno di Napoli per le cause criminali e civili.
52) Antonio Serravalle. Scritti di occasione del Cav. Antonio Serravalle. Cosenza, Tipografia Migliaccio, 1873, p. 200.
53) In Dritti, e Ragioni de’ Comuni di Cosenza, e de’ così detti sui Casali sul Demanio della Sila. Due Sicilie: Direzione generale del demanio pubblico, Napoli, 4 Luglio 1824, per il Barone Parrilli Felice, D. Winspeare, G. Giannatasio, p. 10 (fol. 55 della memoria di Zurlo).
54) Eugenio Arnoni. La Calabria illustrata. Tipogr. Municipale. Cosenza, 1875.
55) Norman Douglas. Old Calabria. Martin Secker, London, 1915
56) Scrive Carmelo Migliocco in La faggeta nelle montagne calabresi: “Nel volgere di tal lasso di tempo, più precisamente dal 1911 al 1933, furono tagliate all’incirca 100.000 piante di faggio, risparmiando soltanto un centinaio di matricine per ettaro”.
57) Uno dei figli, a cui diedero il nome di Bruzio, nacque il 21 gennaio 1917 proprio a Francavilla Marittima. Notizie in parte tratte da: T.C.I., Basilicata: Potenza, Matera, il Pollino, la Magna Grecia, il Volture, le Coste Tirrenica e Jonica. Guide d’Italia. 2004, p. 164
58) Il primo atto – successivamente confermato da Teodoro Mesimerio, vescovo di Squillace, e dal Papa Urbano II – è il Privilegium I, “Notum esse volumus”, del 1091, concesso dal Gran Conte (v. Tromby 1773-1779, II: LXV). Il testo del privilegio è quello “ex proprio Originali, quod extat in Archivo Calabritatae Cartusiae. Recitatur a Georgio Suriano Belga in Chronotaxi ad vitam S. Brunonis p. 199″. V. anche Chronicon Cartusiae Calabriae SS. Stephani et Brunonis. Ext. C. Martirologio Cartusiano. V. anche Storia critico-cronologica diplomatica del Patriarca S. Brunone e del suo ordine cartusiano. Tomo II, Napoli MDCCLXXV presso VIncenzo Orsino p. LX
59) Regii Neapolitani Archivi Monumenta edita ac illustrata. Neapoli ex Regia Typographia MDCCCLVII, p. 271-272. Vedi anche Domenico Tassone. Observationes Iurisdictionale Politicae ac Practicae. Neapoli, Typis Secondini Rancalioli, MDCXXXII, p. 333.
60) Benedetto Tromby. Storia Critico-Cronologica Diplomatica Del Patriarca S. Brunone e del suo Ordine Cartusiano. Orsino Ed., 1779, pp. 410.
61) Art. 3. — Lo Stato conserverà le camere chiuse di Galoppano e di Macchialunga Boscosa, e loro attinenze, con altre parti boscose, da scegliersi dal Governo sulle terre demaniali al più tardi entro due anni dal giorno della pubblicazione della presente legge, purché non oltrepassino in tutto, comprese le due predette camere chiuse, l’estensione di 3,500 ettari.
62) Biagio Longo. Contribuzione alla Flora calabrese. Escursione alla Sila. Annali di Botanica, vol. terzo, Roma, tipografia Enrico Vochera, p. 3. Il bosco di Gallopane, oggi Riserva Naturale, è uno dei boschi storici della Sila Grande, si distende ad est del lago Cecita lungo la destra orografica del torrente Fossiata.
63) Arch. di Stato Napoli, Fs.196 fslo 6, ff. 27, 31, 55, 61 e 98. Da: Pino Rende. La produzione di Pece e Deda nei boschi di Policastro, in La Provincia di KR dal nr. 44 al nr. 48/2009
64) ASCS, atto del Notaio Angelo Desideri, 29 maggio 1548.
65) Luigi Petagna, G. Terrone, Michele Tenore. Viaggio in alcuni luoghi della Basilicata e della Calabria citeriore effettuato nel 1826. Napoli, nella Tipografia Francese, 1827, p. 89
66) Giuseppe Zurlo. Dello Stato della Regia Sila. Volume Primo, Napoli, Dalla Stamperia Nazionale, 1862, pp. 183-184
67) ASCS, atto del Notaio Angelo Desideri, anno 1546, ff. 499r-500
68) Fiore Giovanni. Della Calabria Illustrata. Rist. anast. Sala Bolognese: Forni, stampa 1980. Ripr. facs. dell’ed.: Napoli: per li socij Dom. Ant. Parrino, e Michele Luigi Mutij, 1691. Ripr. facs dell’ed.: Napoli: Stamperia di Domenico Roselli, 1743, Tomo I, pp. 510-511.
69) Caravita Prospero. Prammaticæ edicta regiæque sanctiones neapolitani regni. Napoli, apud Horatium Saluianum, 1587, p. 202
70) Fabio Capece Galeota. Responsa fiscalia selectiora. Neapoli, MDCXXXXIII, Typis Iacobi Gaffari, p. 120.
71) Giuseppe Zurlo. Dello Stato della Regia Sila liquidato nel 1790. Volume Primo, Napoli, dalla Stamperia Nazionale, 1862, pp. 176-178
72) Il relevio era un tipico tributo feudale dovuto al Re dal feudatario in due occasioni: all’atto della sua prima investitura o al momento della successione feudale.
73) Giuseppe Brasacchio. Storia economica della Calabria: Dalla dominazione aragonese (1442) al viceregno (1734). Chiaravalle Centrale, Effe Emme, 1977, p. 299
74) Interrogazione di Luigi Luzzatti, Torrigiani, Pellerano, Chiesa, Matteucci al ministro di agricoltura, industria e commercio “sulla necessità ed urgenza di provvedimenti intesi a salvare le selve di castagni, specialmente nell’Italia centrale, dalla devastazione alla quale soggiacciono per effetto delle fabbriche di tannino”. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati. Legislatura XXII. 1a sessione. Discussioni. Tornata del 28 arzo 1908.
75) C’è da ricordare anche la Riserva Marina di Isola Capo Rizzuto e la recente istituzione della Riserva Naturale Regionale delle Valli Cupe (Sersale).