di Enzo Garofalo
Sarà che Marco Bellocchio ha preso alla lettera la battuta finale di Tonio “La commedia è finita” (nel libretto originale di “Pagliacci” è pronunciata da Canio, ma nella partitura d’orchestra c’è spesso un cambio di personaggio, con contraddizione mai chiarita), certo è che quell’improvviso sollevarsi da terra dei due amanti appena accoltellati (Nedda e Silvio), ha l’effetto di un petardo inesploso, di una bottiglia di spumante sfiatato, di una ciambella senza buco. Insomma tutto finto, nessuno muore nell’opera considerata uno dei manifesti del verismo più crudo. “Molto rumore per nulla” avrebbe detto Shakespeare.
Eppure durante la conferenza stampa il noto regista cinematografico aveva giustificato la sua scelta di ambientare l’opera in un manicomio criminale proprio alla luce della violenza e della disperazione di un personaggio come Canio (il marito tradito), per giunta chiamando in causa certa attuale cronaca nera. C’è inoltre da supporre che il maestro sappia che fonte ispiratrice di “Pagliacci” fu un reale fatto di cronaca col morto accaduto in Calabria quando il compositore Ruggero Leoncavallo era bambino e che la soluzione del “teatro nel teatro” è già insita nella drammaturgia dell’opera; non c’era cioè bisogno di aggiungere un ulteriore grado di finzione, il cui unico effetto è stato quello di togliere senso al dramma, annullando la terribile sovrapposizione di arte e vita reale, chiamata a spiazzare il pubblico in scena (il coro) e quello in sala. Nella versione bellocchiana, il crescendo di tensione, pur presente ed abbastanza efficacemente risolto dal punto di vista scenico, viene letteralmente mozzato da quel finale del tutto incoerente con il precedente scontro fra Canio e Nedda la sua compagna fedifraga appena sgamata, momento che dovrebbe preludere all’omicidio (vero) sul palchetto in cui è allestito lo spettacolino da Commedia dell’Arte riservato agli ospiti del manicomio (ai paesani del borgo, nel libretto originale), istituto in cui sono ricoverati anche gli stessi protagonisti.
Ma non è questa l’unica discrasia presente nell’allestimento barese. Nel corso dell’unico atto dell’opera si assiste a tutta una sequela di contraddizioni fra ciò che viene detto dai cantanti e ciò che il pubblico vede in scena: alludo ai riferimenti a luoghi, situazioni, oggetti, presenze fisiche del tutto incompatibili con il contesto manicomiale scelto. Capisco l’esigenza, legittima, di attualizzare le ambientazioni di opere del passato, ma certe operazioni andrebbero fatte ‘cum grano salis’, trovando soluzioni che evitino incoerenze così marchiane. Al pubblico può anche andar bene che l’approccio a un’opera sia “nobilmente dilettantesco” – come ha dichiarato nei giorni scorsi lo stesso Bellocchio quasi a voler mettere le mani avanti – ma qui il dilettantismo si è visto tutto, e questo, in tempi di spending review, è un lusso che un teatro non dovrebbe permettersi, se ad andarci di mezzo sono i soldi pubblici.
Detto questo passiamo alla musica, bellissima, struggente, a tratti fosca, che neppure l’anodina direzione del M° Paolo Carignani è riuscita ad uccidere. Merito di un’orchestra, quella del Teatro, giovanissima eppure in crescita musicale esponenziale. Ottima anche la performance del Coro del Teatro Petruzzelli, come sempre abilmente preparato dal M° Franco Sebastiani (il coro di bambini è stato curato dal M° Emanuela Aymone).
Un po’ diseguale il livello del cast vocale (il riferimento è alla messa in scena del 1° cast da me seguita), che peraltro ha offerto alcune punte di valore: mi riferisco in particolare al tenore americano Stuart Neill (Canio), la cui imponente stazza fisica si coniuga con una vocalità generosa, musicale, solida, squillante e disinvolta nei passaggi di maggiore difficoltà. Un po’ tenue rispetto agli standard tradizionali del personaggio, la voce del soprano messicano Maria Katzarava, caratteristica peraltro compensata da un bel timbro e da un grande temperamento che le ha permesso di padroneggiare la scena dando vita ad una credibilissima Nedda. Per entrambi gli artisti è stato meritatissimo l’entusiastico riscontro da parte del pubblico che ha tributato loro applausi anche a scena aperta. Non perfettamente a fuoco, e a tratti gutturale, la performance vocale del baritono Alberto Gazale (Tonio), peraltro bravissimo nel controllo della scena. Vocalmente convincenti e scenicamente efficaci il Beppe-Arlecchino del tenore Francesco Marsiglia e il Silvio del baritono Dario Solari.
Ben realizzate le scene volte a riprodurre il cortile interno di un manicomio criminale, firmate – insieme al disegno luci – da Gianni Carluccio; adeguatamente tetri, vista l’ambientazione, i costumi di Daria Calvelli, con qualche misurata pennellata di colore ed eccentricità nella resa dei pagliacci. Il video editor Tommaso Todisco ha invece dato corpo ai pochi ma efficaci elementi di ispirazione cinematografica voluti da Bellocchio, nelle inquadrature da monitor a circuito chiuso che restituiscono sul fondale gli interni delle celle dei protagonisti, colti in alcuni passaggi cruciali della narrazione.
Si replica il 24, 25, 27, 28 e 29 maggio.