di Margherita Corrado*
È trascorso poco meno di un anno dalla seconda, decisiva sospensione del cantiere di Capo Colonna (figg. 1-2) con la quale il Ministero, preso atto che la protesta popolare scoppiata a gennaio 2015 per la cementificazione dell’area del foro aveva assunto carattere nazionale, tratte le ormai inevitabili conseguenze, decise il ripensamento parziale di quella parte del progetto APQ SPA 2.4 e rinunziò pure alla prevista copertura di due stanze dell’attiguo edificio termale con una inconcepibile tettoia d’acciaio. I lavori sono tuttora in corso ma l’aspetto dei luoghi è già da tempo mutato in meglio.
Liberato il portico circostante l’antica piazza dalla coltre di cemento e messo in conto di restaurarlo, questo è stato raccordato con l’area archeologica retrostante, in luce già da decenni ma colpevolmente ‘dimenticata’. Il raccordo è stato possibile mediante la rimozione della vecchia recinzione, l’indagine della retrostante strada E-O, la demolizione delle fondamenta della chiesa la cui costruzione era stata sospesa proprio a causa della presenza dei resti della domus di fine II sec. a.C. affacciata sul versante nord della strada suddetta, l’estensione verso Occidente dell’indagine archeologica della residenza privata e dell’asse viario.
I risultati di dette operazioni sono oggi sotto gli occhi di tutti e la riacquistata dignità di questo settore del parco archeologico – il resto, ormai da mesi assegnato al Polo Museale della Calabria, langue in uno stato di deplorevole abbandono che la presenza del cantiere non basta a giustificare (figg. 3-4) -, benché l’intervento non sia ancora esaurito, riempiono di soddisfazione quanti, a Crotone e non solo, a suo tempo si sono spesi perché il Ministero venisse a più miti consigli invece di assecondare le scelleratezze comunali. Tutto risolto, allora? Non proprio.
Da qualche tempo chi, come la scrivente e gli altri soci delle associazioni culturali locali che sollecitamente ‘vigilano’ sullo svolgimento del cantiere, compie i consueti sopralluoghi sul grande piazzale ormai pavimentato e si affaccia lungo la recinzione provvisoria che corre a ridosso dei resti del colonnato sud del portico, non può fare a meno di notare le decine di buche che, nottetempo, ignoti praticano all’interno del cantiere (fig. 5).
Crotone e il Crotonese soffrono da secoli delle ‘attenzioni’ dei cosiddetti tombaroli: gli attuali esponenti della categoria sono gli ideali discendenti di quanti, sollecitati dagli instancabili emissari di rigattieri e antiquari napoletani, fin dal tardo Settecento e specialmente nell’Ottocento praticavano scavi illegali o acquistavano da privati fortuitamente venuti in possesso di reperti archeologici i manufatti metallici (soprattutto monete) vendibili con profitto sul mercato dei collezionisti di antichità. Nella stagione in cui, in città, lo sviluppo edilizio incontrollato ha moltiplicato le occasioni di scavi profondi – mi riferisco agli anni ’60 e ’70 del XX secolo -, Crotone ha avuto la sua nutrita e agguerritissima pattuglia di scavatori clandestini, oggi in pensione o comunque in relativo declino.
Nel circondario, dove la ricchezza del patrimonio archeologico è pari o assimilabile a quella della polis achea, questa ‘tradizione’ non ha, invece, conosciuto cedimenti negli anni e, anzi, nell’ultimo ventennio le opportunità offerte da inediti scavi condotti capillarmente nel territorio – prima quelli per le antenne della telefonia mobile poi, devastanti, quelli per l’impianto dei parchi eolici –, spesso estesi ad aree mai intaccate precedentemente, hanno permesso ai ‘vecchi tombaroli’ di restare in attività e di formare generazioni di nuovi adepti. Complice il disagio economico diffuso, le nuove leve si sono moltiplicate a Strongoli, a Cirò, a Cutro, a Isola di Capo Rizzuto, per restare negli immediati dintorni di Crotone. A Capo Colonna, perciò, i tombaroli di Isola hanno progressivamente sostituito quelli locali nella sistematica opera di svuotamento delle favisse prossime alla scogliera sottostante il tempio: gli ultimi arresti sono del 2014, quando il ripristino della telecamera che serve questa parte del parco ha consentito persino di vederli in faccia, grazie allo zoom, intenti al lavoro di pala e piccone già prima del calare delle tenebre.
Non basta: Capo Colonna è diventata, e le buche praticate nel cantiere del foro in quest’ultimo periodo lo confermano, una sorta di campo scuola. I neofiti vi esercitano la loro abilità nell’uso del metal detector, imparando a tararlo in modo da distinguere agevolmente il segnale prodotto dai laterizi da quello del metallo, ad intuire senza neppure scavare la presenza dell’inutile stagnola o del tappo di bottiglia, a riconoscere il suono del piombo da quello del ferro, del bronzo, dell’argento ecc. L’evoluzione di detti ‘strumenti di lavoro’ impone, inoltre, un continuo aggiornamento anche a quanti siano già avvezzi al loro utilizzo, obbligandoli a prendere confidenza sul campo con i modelli più evoluti. Solo così si spiega l’accanimento che punteggia di buche persino le zone in cui, in presenza di avvallamenti naturali, sono state eseguite colmature con terreno sterile, come gli stessi tombaroli hanno potuto verificare frequentando i luoghi durante il giorno da spettatori. Lo stesso dicasi per le fosse praticate all’interno della domus (fig. 6), nelle stanze che, prive di pavimenti costruiti, sono state indagate prudenzialmente dagli archeologi fin sotto la quota dei piani d’uso antichi, e spesso fino alla roccia di base, pur sapendo che il settore N/E del promontorio, essendo parte del famoso bosco di Hera, manca di preesistenze ascrivibili ad epoca anteriore all’impianto della colonia maritima del 194 a.C.
La descrizione sommaria del fenomeno non lo giustifica né deve lasciarlo intendere come fisiologico. Merita invece che c’indigniamo, con noi stessi e con le autorità preposte alla tutela, e autorizza qualche riflessione sull’uso del denaro pubblico – sempre troppo poco – destinato ai beni culturali. Restiamo al caso Capo Colonna, comunque emblematico della cattiva gestione delle risorse e del danno prodotto dall’assenza o troppo debole riprovazione sociale che si esercita nei confronti di chi, nell’amministrazione statale, riveste ruoli dirigenziali. Hanno un nome e un cognome, infatti, i funzionari e i tecnici che progettarono gli interventi da compiere sul Lacinio nell’ambito dell’APQ SPA 33, realizzato nel biennio 2013-2014, come pure coloro che ne hanno certificato la corretta esecuzione, nonostante che la prevista sostituzione di tutte le telecamere precedentemente in uso con strumenti in grado di funzionare anche nelle ore notturne e la ugualmente prevista estensione della rete di videosorveglianza all’intero parco siano rimaste lettera morta. L’intera estremità N/E del promontorio, infatti, dove si concentrano le vestigia già parzialmente indagate e rimesse in luce dell’abitato romano ma insistono anche la Torre Nao e la chiesa rinascimentale sono rimaste scoperte e tali sono tuttora.
Ciò consente ai tombaroli di agire praticamente indisturbati all’interno del cantiere in corso, facendosi beffe pressoché giornalmente delle forze dell’ordine e, alla fin fine, di tutta la comunità cittadina. Per la stessa ragione, del resto, il cosiddetto tesoro di Hera è tuttora smembrato fra il Museo Nazionale di Crotone, dotato di sorveglianza notturna, dove sono esposti il famoso diadema d’oro e gli altri reperti specialmente significativi, e il Museo del Parco Archeologico di Capo Colonna, sua sede naturale ma privo di qualsiasi presidio notturno, dove perciò sono proposti al pubblico soprattutto ceramiche e manufatti metallici di valore intrinseco minore.
Hanno un nome e un cognome, spesso lo stesso dei precedenti, anche quanti hanno progettato i cinque interventi in cui si articolava il citato APQ SPA 2.4, partito a luglio 2014 e teoricamente votato allo “Ampliamento delle conoscenze della realtà archeologica di Capocolonna e messa in sicurezza delle strutture archeologiche portate in luce”, interventi tra i quali non compare, evidentemente per non ammettere la lacuna nella esecuzione dello SPA 33, alcun provvedimento atto ad estendere la videosorveglianza del parco e a renderla efficiente nelle ore notturne. Le conseguenze non sono di poco conto sia sul piano della sicurezza dei resti archeologici, problema che forse richiede, per essere colto, una speciale sensibilità, sia dell’incolumità dei visitatori, suppongo di più immediata evidenza. Non sono mancati, ad esempio, nella giornata di Pasqua, casi sfuggiti alle telecamere di genitori spavaldi che hanno spinto i figli oltre le recinzioni del cantiere per affacciarsi imprudentemente con loro sul limite della scogliera nord (fig. 7), correndo un oggettivo pericolo.
Sono addirittura più frequenti, quando è aperto al pubblico, i casi di visitatori altrettanto e ancor più avventati che accostano al ciglio della falesia nell’area a sud della Chiesa (fig. 8), ben oltre le recinzioni, dove la sicurezza del costone è ormai pari a zero per la scomparsa della porzione di roccia che fungeva da sostegno alla panchina superiore.
Non è accettabile che i responsabili di dette situazioni si crogiolino nella speranza che l’incidente irreparabile non accada, poiché la comunità intera si aspetta, rientrando nei compiti loro affidati, che intervengano tempestivamente per annullare ogni situazione di pericolo, così come si aspetta, e ne ha il diritto, che siano giornalmente custodi amorevoli di aree che, come Capo Colonna, sono parte della coscienza di ciascuno di noi, patrimonio insostituibile, carne e sangue della nostra anima.
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