di Kasia Burney Gargiulo
Lo scorso marzo vi ho raccontato come lo studioso tedesco Vinzenz Brinkmann, fra i massimi esperti al mondo di scultura e policromia delle opere antiche, avesse messo in mostra nel 2013, presso il Liebieghaus Museum di Francoforte, in Germania, la testa clonata del celebre Bronzo di Riace A (nella foto in alto), una delle due celebri sculture del V sec. a.C. custodite presso il Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria. E vi ho annunciato anche (era questa la notizia nuova) come Brinkmann fosse pronto a ritornare a Reggio Calabria per riprodurre l’intero guerriero, operazione da effettuarsi ovviamente con il consenso della Soprintendenza ai Beni Archeologici.
Una notizia che mi aveva lasciata perplessa dal punto di vista della possibile ricaduta negativa per gli originali, che se certamente sono insostituibili da un clone più o meno perfetto in quanto racchiudono il gesto demiurgico dell’artista ed un carico di storia che sono irriproducibili da una macchina, tuttavia rischiano di essere oscurati, nella fruibilità del pubblico, da succedanei più facilmente raggiungibili. In tal senso mi appellai all’idea espressa dall’insigne archeologo Salvatore Settis secondo il quale la copia di un’opera d’arte può avere un senso solo se serve a divulgare l’originale.
Un fine per il cui conseguimento – continuo a sostenerlo con convinzione – non serve costruire oggetti tridimensionali a grandezza naturale, essendo sufficiente la circolazione delle immagini. Per quanto concerne invece lo studio sulla cromìa delle antiche statue, che Brinkmann sta conducendo su numerose opere dell’antichità, poteva bastare la replica della testa del Bronzo A sopra menzionata. E invece no: alla fine lo studioso tedesco è riuscito ad avere le autorizzazioni per la realizzazione di un clone a grandezza naturale dell’intero Bronzo A – completo di elmo corinzio mancante nell’originale – che attualmente è visibile in una delle sale del Liebieghous Museum di Francoforte, e pare sia una delle opere esposte di maggiore successo.
Come già per la sola testa, Brinkmann è riuscito a riprodurre la statua servendosi di apparecchiature sofisticatissime che gli hanno consentito di scansionare millimetricamente il corpo del Bronzo “A” allo scopo di riprodurlo nello stesso materiale per mostrare – questa la giustificazione ufficiale dell’intera operazione – a studiosi e pubblico il colore originario della statua, esente dagli effetti del tempo e dell’ossidazione. Oggi è dunque possibile vedere a Francoforte il Bronzo A nella cromia del bronzo non ossidato e con l’aggiunta di dettagli inediti, come l’elmo dorato e il pelo pubico scuro, dei quali sarebbe interessante conoscere i parametri originali di riferimento (forse storico-letterari o archeologici, derivanti cioè da opere analoghe che abbiano conservato qualche pigmento).
Certo si tratta di una iniziativa che è andata ad accrescere l’inflazione di falsi Bronzi in circolazione, fra i quali vanno annoverate le due statue modellate 11 anni fa da uno scultore di Rieti per le Olimpiadi di Atene, in realtà mai utilizzate ed oggi esposte al Salone dei Congressi di Tebe (Grecia); quelle realizzate dall’Iscr (Istituto Superiore per la Conservazione ed il Restauro) per testare le nuove basi antisismiche dell’Enea su cui oggi poggiano gli originali e quella di Koichi Hada (della International Christian University di Tokyo) che, come Brinkmann, ha inteso approfondire le conoscenze sulla colorazione delle opere in bronzo oltre che verificare se la tecnica di cera persa utilizzata in antico sia stata quella diretta (modello in cera per farne uno stampo in argilla) o indiretta (modello in cera realizzato su di un altro in creta).
Va ricordato come alla produzione di questi cloni si sia arrivati dopo anni di furiose polemiche scatenatesi alla fine degli anni ’90 quando la Regione Calabria con un apposito decreto aveva deliberato la possibilità di “clonazione” dei Bronzi di Riace da effettuarsi su scala 1:1 con l’impiego di tecnologia di rilevazione di altissimo livello, e ciò allo scopo dichiarato di “valorizzare” le due opere d’arte. Diversi enti e studiosi di Reggio Calabria, supportati anche da una consultazione popolare, si rivolsero al T.A.R contestando la delibera con cui era stata ammessa la riproduzione dei Bronzi, sostenendo che questa avesse come unica finalità quella di rafforzare iniziative promozionali della Regione mediante l’invio dei “cloni” in giro per il mondo, mostrandosi lesiva degli interessi economici della città di Reggio Calabria e della sua Provincia in termini di riduzione delle presenze turistiche nel territorio.
Nei dibattiti che ne seguirono si fece giustamente notare che se è vero che la riproduzione di un’opera d’arte costituisce una forma di valorizzazione dei beni culturali, la clonazione su scala 1:1 non rientra affatto tra le riproduzioni che, come sculture in piccola scala, fotografie e disegni, valorizzano davvero un bene culturale incrementando la diffusione della conoscenza dell’opera e stimolando l’interesse a vedere l’originale; la clonazione – al contrario – intacca i caratteri di unicità e originalità dell’opera medesima. Argomentazioni che a mio avviso non facevano una piega e che a suo tempo incontrarono il favore del T.A.R il quale nel 2003 annullò la delibera regionale ritenendo la Regione responsabile di tutta una serie di violazioni normative.
Ma nel 2009 ecco arrivare il colpo di scena: su appello proposto dal Ministero per i beni e le attività culturali contro la sentenza del Tar di Reggio Calabria del 2003, il Consiglio di Stato ha dato il via libera alla possibilità di clonazione dei Bronzi di Riace. Un via libera inappellabile tracciato nero su bianco nella sentenza del supremo organo di giustizia amministrativa che, pur dando ragione al TAR sul reale significato di “valorizzazione” dei beni culturali, ha ritenuto che la clonazione non abbia tale natura, bensì quella di “tutela” del bene a fronte del pericolo di deterioramento degli originali; attività di tutela che lo Stato, in quanto proprietario del bene, avrebbe legittimamente posto in essere avvalendosi della collaborazione della Regione Calabria. La sentenza, ha peraltro specificato che che la clonazione non può avvenire se non per ricerca scientifica e per garanzia di conservazione. Una puntualizzazione (con margini interpretativi che non mancano di suscitare discussioni) che se non esclude la possibilità di riprodurre i due capolavori, almeno sembrerebbe porli al riparo da iniziative finalizzate al semplice ”nomadismo” di insulsi replicanti che non gioverebbe in alcun modo alla divulgazione degli originali né allo sviluppo del turismo in Calabria.
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