Ritrovate in Sicilia le tracce del vino più antico d’Italia, nonché uno fra i più antichi dell’intera area euro-mediterranea. Studi più approfonditi diranno se si trattava di un rosso o di un bianco
di Kasia Burney Gargiulo
Come afferma Attilio Scienza, professore di Viticoltura ed Enologia all’Università di Milano, quella del vino è una storia antichissima, con tracce che risalgono a 6000 anni prima di Cristo nell’Iraq orientale, dove i cocci di un’anfora rotta hanno rivelato residui di acido tartarico, “chiaro e inequivocabili indizio che quell’anfora, in origine, contenesse del vino”. Va detto però che se gli albori del vino sembrano condurre a est, un ruolo non secondario nella più antica produzione dell’inebriante nettare lo ha avuto anche l’area Mediterranea. A confermarlo è la recente eccezionale scoperta compiuta in Sicilia, grazie alle analisi effettuate su una grande giara dell’Età del Rame rinvenuta in una grotta del Monte Kronio, a Sciacca (Agrigento). A rivelare la presenza di vino, ancora una volta, sono state i residui di acido tartarico la cui datazione ci porta a quasi 6 mila anni fa, quindi a qualche millennio prima della produzione vinicola identificata in Sardegna nel 2016 grazie alle tracce conservate su un torchio in pietra dell’Età del Ferro (900-750 a.C.) rinvenuto nel 1993 a Monastir in provincia di Cagliari, e prima dei vinaccioli datati 1.200 a.C. ritrovati nel 2015, sempre in Sardegna, negli scavi di Sa Osa nel comune di Cabras (Oristano). Inevitabile il raffronto anche con il vino dell’antica cantina israeliana scoperta nel 2013 a Tel Kabri, città cananea nel nord di Israele, risalente ad ‘appena’ 3700 anni fa. Si tratta di riferimenti cronologici che, almeno allo stato attuale delle conoscenze, fanno di questo vino siciliano il più antico del Mediterraneo occidentale e uno fra i più antichi dell’intera area euro-mediterranea. A compiere la nuova scoperta è stato un gruppo internazionale di ricerca coordinato dall’archeologo Davide Tanasi dell’Università della Florida Meridionale, a cui hanno preso parte anche il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l’Università di Catania e gli esperti della Soprintendenza ai Beni Culturali di Agrigento.
Il Monte Kronio (noto anche come Monte S. Calogero, dal nome del santo eremita qui vissuto nel IV secolo e titolare del locale Santuario retto dai Francescani), affacciato con vista superba sulla costa di Sciacca, è un luogo di grande interesse naturalistico e archeologico in cui le prime frequentazioni umane si perdono fra le suggestioni del Mito. Intitolata all’antichissimo dio greco del tempo Kronos, figlio della terra (Gea) e del cielo (Urano) e padre di Zeus, l’altura è sede di diverse grotte naturali da cui scaturiscono vapori caldi impiegati a scopo termale fin dall’epoca antica. Adibite ad abitazioni o per il culto fino all’Età del Rame, le grotte risultano poi abbandonate, forse in concomitanza della comparsa delle esalazioni di presunta origine vulcanica. L’impiego termale dei vapori è attribuito al mitico architetto Dedalo autore, secondo la leggenda, della rete di gallerie che li convogliano. Le più note sono le Stufe di S. Calogero, oggi inglobate in una moderna struttura e ancora utilizzate a scopo terapeutico, al cui complesso è annesso un piccolo Antiquarium in cui si custodiscono diversi reperti di scavi effettuati sul posto.
Proprio i residui chimici rimasti su una giara rinvenuta in una grotta del monte e risalente agli inizi del IV millennio avanti Cristo, hanno permesso l’importante scoperta pubblicata sulla rivista scientifica Microchemical Journal. La terracotta non smaltata ha permesso la conservazione di tracce di acido tartarico e del suo sale di sodio, sostanze che si trovano naturalmente negli acini d’uva e nel processo di vinificazione. La scoperta è stata particolarmente fortunata perché è molto raro che si riesca a determinare la composizione esatta di tali residui, in quanto a tal fine è necessario che il vasellame sia in stato di ottima conservazione.
Oltre alle giare per il vino, la ricerca ha previsto l’analisi di altri reperti provenienti da vari siti siciliani delle province di Agrigento, Catania e Siracusa, alcuni dei quali contenenti residui di grassi animali e vegetali probabilmente derivanti da stufati e zuppe, con l’obiettivo più generale – ha detto Tanasi – di ricostruire le ricette preistoriche che formavano la dieta delle popolazioni locali. Per quanto concerne in particolare questo primo antichissimo vino italiano, il prossimo obiettivo dello studio sarà quello di riuscire a stabilirne la tipologia, se cioè si trattava di vino rosso o bianco, oltre che di ricostruire il profilo dei suoi antichi produttori: “Sappiamo – ha dichiarato l’archeologo – che questi territori erano abitati da comunità di agricoltori e allevatori, con una incipiente produzione tessile mentre al momento non abbiamo grandi evidenze di metallurgia. Un contesto in cui la viticoltura rappresenta un’importante novità di cui andremo a valutare l’impatto economico, perché il vino era un bene prezioso che poteva anche essere oggetto di commercio, così come la giara in cui era contenuto”.
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