«Queste schiere di schiavi, armate di poco, erano diventate lo spavento delle legioni. La serie di sconfitte ricordava i primi anni della guerra di Annibale»
Theodor Mommsen
di Redazione FdS
Se l’anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), l’antica Capua – considerato emblema di quel mondo gladiatorio in cui prese avvio l’antica epopea di Spartaco – è ormai noto in tutto il mondo grazie soprattutto alla serie TV statunitense Spartacus, meno conosciuto se non ignoto ai più è il legame tra il leggendario gladiatore e condottiero trace e la Calabria, o per meglio dire la Terra Bruttiorum (terra dei Bruzi) come il suo territorio era chiamato nel I° secolo a.C. Eppure nei suoi confini, e precisamente sull’Aspromonte, a breve distanza da Reggio Calabria, si è consumato uno dei momenti più drammatici dello scontro tra i rivoltosi capeggiati da Spartaco e le legioni romane. Qui la Storia ha fatto irruzione nel presente grazie alla passione e alla curiosità di Lino Licari, guida del Parco Nazionale d’Aspromonte, che nei suoi quotidiani percorsi lungo l’alta montagna stretta tra due mari, in uno degli angoli più affascinanti d’Italia, ha riscoperto i luoghi e le tracce di una delle ultime sanguinose battaglie tra i ribelli di Spartaco e le truppe romane di Marco Licinio Crasso. Parliamo di “riscoperta” perché in realtà si tratta di resti in parte già segnalati qualche decennio fa, ma senza esito, da alcuni studiosi locali. L’attuale interesse della Soprintendenza archeologica di Reggio Calabria oltre che della direzione del Parco, costituisce quindi la grande novità di cui tener conto. Ma prima di parlarne più a fondo riavvolgiamo il nastro degli eventi per ripercorrere le tappe di una vicenda passata alla storia col nome di Terza Guerra Servile, la quale ha coinvolto quasi esclusivamente i territori del Sud Italia.
LA CRISI DELLA REPUBBLICA ROMANA
Le gesta di Spartaco maturarono sullo sfondo dell’instabilità politica di una Repubblica Romana già provata dalla guerra civile tra Mario e Silla, dalla dittatura di quest’ultimo e dalla “guerra sociale” mossa dai popoli italici contro l’ex alleato romano per rivendicare il diritto di cittadinanza. Roma era inoltre alle prese con un triplice fronte militare che vedeva Quinto Metello e Gneo Pompeo impegnati in Spagna contro la rivolta di Quinto Sertorio, Marco Lucullo in Tracia contro la tribù dei Bessi e Lucio Lucullo in Asia Minore contro Mitridate VI re del Ponto. Uno scenario che determinò a Roma la carenza di soldati addestrati e di generali di solida esperienza a fronte di una disponibilità di milizie inesperte e di ufficiali mediocri. Negli anni della lunga crisi della Repubblica che portò all’avvento del Principato, si assisté inoltre a un vasto impiego di schiavi in agricoltura e nelle miniere, una forza lavoro a basso costo procurata per lo più attraverso l’acquisto da mercanti o l’assoggettamento militare di popolazioni straniere. Considerati proprietà privata più che esseri umani, essi erano in larga parte soggetti ad abusi, violenze o uccisioni senza conseguenze legali, per quanto la morte fosse un evento raro, per lo più evitato dai padroni per convenienza economica. Un trattamento oppressivo che non mancò di far scoppiare presto delle ribellioni, come quelle del 135 e del 104 a.C. (prima e seconda Guerra Servile) che in Sicilia tennero impegnate per anni le truppe romane senza peraltro costituire una reale minaccia per Roma e per la Repubblica, dato il loro carattere locale e poco organizzato. Diversamente andarono le cose con la rivolta che coinvolse Spartaco e le migliaia di ribelli che a lui si aggregarono in gran parte della Penisola ingaggiando una lotta all’ultimo sangue contro un potere costituito e un’economia fondati sull’oppressione di un terzo della popolazione tenuto in stato di schiavitù.
SPARTACO: ESPLODE LA RIVOLTA IN CAMPANIA
I primi fermenti si ebbero a Capua, in Campania, sede dalla scuola per gladiatori appartenuta a Lentulo Batiato, dove si addestravano ai combattimenti nell’arena prigionieri di guerra, criminali condannati e schiavi. Era l’autunno del 73 a.C. e duecento di loro, esasperati dalle condizioni disumane in cui erano costretti a vivere, organizzarono una fuga il cui piano fu presto scoperto. Tuttavia in circa cinquanta, armati di soli attrezzi agricoli, coltelli e altri strumenti sottratti alle cucine, riuscirono a fuggire e a rifugiarsi sul Vesuvio, a quel tempo montagna ricoperta di fitti boschi e vigneti.
I fuggiaschi scelsero come capi gli schiavi galli Crisso ed Enomao e il trace Spartaco, membro di una tribù nomade, dotato di forza, acume e cultura, a cui la tradizione attribuisce un passato da ex legionario ausiliario, poi disertato perché renitente alla ferrea disciplina militare e quindi arrestato e costretto a fare il gladiatore; la realtà di questo passato sembrerebbe comprovata dalla profonda conoscenza delle tattiche militari romane mostrata nel corso della rivolta, guidata evitando sempre di affrontare i Romani in campo aperto e mettendo in atto un’astuta strategia di guerriglia fatta di tattiche veloci e non ortodosse.
Il primo scontro con un drappello di soldati romani, inviato per catturarli, avvenne nei dintorni di Capua dove i rivoltosi ebbero la meglio, trafugarono le armi dei soldati uccisi, fecero i primi proseliti e infine s’arrampicarono sul monte. Sottovalutando la pericolosità della rivolta, le autorità inviarono migliaia di soldati mediocri al comando di Gaio Claudio Glabro per creare un presidio sull’unico sentiero praticabile per la sommità del Vesuvio, con l’intento di prendere il nemico per fame e stenti; obiettivo aggirato dall’astuzia di Spartaco e dei suoi che, utilizzando tralci di vite selvatica intrecciati, riuscirono a calarsi da una parete rocciosa non sorvegliata e ad accerchiare a sorpresa l’accampamento romano. Ne seguì una nuova carneficina ai danni dei Romani, la cui eco fece guadagnare ai rivoltosi altre adesioni tra schiavi fuggitivi, pastori e contadini poveri della zona. Oltre a sottrarre ancora una vota le armi ai soldati caduti, Spartaco e compagni – racconta lo storico Floro – forgiarono nuove spade e dardi fondendo il ferro delle loro catene spezzate. Seguirono razzie con equa distribuzione del bottino, liberazioni di altri schiavi con assalti alle ville rustiche e la messa in pratica di una capacità organizzativa tale da includere anche l’addestramento militare per i nuovi affiliati che fossero fisicamente abili.
Il Senato intanto mise alle loro calcagna le truppe di Publio Varinio, uomini dalla scarsa disciplina militare, come mediocri erano lo stesso pretore e i suoi legati. Ad essi Spartaco riuscì ad infliggere una dura sconfitta impadronendosi di cavalli, insegne e fasci littori, ma la partita giocata sullo scacchiere campano, tra località come Nocera, Avella e i Monti Picentini, era destinata a proseguire ancora più a sud. Infatti dopo aver convinto Crisso ed Enomao a desistere dal riprendere l’offensiva contro le legioni romane, Spartaco si risolse ad estendere la rivolta in Lucania e nel Bruzio (l’odierna Calabria).
Determinante per gli spostamenti – che, per evitare i presidi romani, avvenivano lungo strade strade secondarie, creste montuose, sentieri boschivi e tratturi della transumanza – fu la guida, volontaria o forzata, di gente del posto, la cui azione fu fondamentale anche per i rifornimenti di cibo. Non mancarono saccheggi, devastazioni e stupri, che Spartaco tentò invano di contenere: del resto l’esercito di ribelli – grazie all’eco dei successi riportati sui romani e a un vivo malcontento tra quelle popolazioni italiche rimaste ancora prive di cittadinanza – era cresciuto fino a raggiungere le oltre 40 mila unità, e una compagine del genere non era certo facile da gestire.
UN INVERNO DI SCORRIBANDE IN LUCANIA
Accompagnati dai freddi autunnali, i ribelli avanzavano nell’allora territorio lucano con manovre agili, ardite ed efficaci, grazie a qualche guida locale che faceva loro da battistrada. Li ritroviamo così a seminare terrore e speranze nell’area delle odierne Sicignano degli Alburni, Auletta e Polla (Salerno), in zona Vallo di Diano, a quel tempo disseminata di fattorie e ville sparse su bassipiani e colline ricche di pascoli, con numerosi coloni romani e i loro innumerevoli schiavi.
Il contesto favorì un notevole incremento di uomini nelle fila dei ribelli, ma l’assenza di disciplina rischiava di renderli estremamente vulnerabili agli attacchi dei Romani; prospettiva scongiurata dagli eventi che alla fine videro Varinio messo in fuga e i suoi uomini sconfitti, con conseguente confisca di cavalli, insegne e fasci, consegnati in trionfo a Spartaco ormai divenuto, come narra Plutarco, “potente e terribile”. I ribelli continuarono per gran parte dell’inverno ad imperversare in Lucania, terra di pascoli, grano, greggi e selvaggina, ma sugli spostamenti è possibile fare solo supposizioni, inserendo i Monti della Maddalena, Monte del Papa, la colonia romana di Grumentum e l’alta valle del fiume Agri, tra i luoghi di un possibile passaggio di Spartaco prima di virare verso la costa ionica per raggiungere Metaponto ed Eraclea e poi Thurii nel Bruzio. In realtà le tradizioni popolari più leggendarie coinvolgono molti altri luoghi in questo viaggio verso sud – da Colliano a Oliveto Citra, Castelcivita, Roccadaspide, Caggiano (oggi tutti nel salernitano), Genzano di Lucania (Potenza) – alcuni dei quali vantano anche dei toponimi evocativi.
L’ARRIVO IN CALABRIA
A fine 73 a.C., in pieno inverno, i ribelli raggiunsero le coste del Mar Jonio, avanzando in una delle terre più fertili d’Italia, già teatro della grande civiltà magno-greca di cui, dopo la conquista romana, rimaneva ormai solo il ricordo. Restava l’opulenza, ma concentrata nelle mani di pochi latifondisti romani, proprietari di enormi tenute agricole, di allevamenti e di intere schiere di schiavi sfruttati come bestie da soma. Un luogo ideale in cui fare nuovi proseliti e approvvigionarsi di cibo, oltre che utile riparo in caso di arrivo dei Romani, grazie ai vicini monti e alle fitte foreste. Dopo aver assaltato l’antica città greca di Metaponto, e forse anche la vicina Eraclea, rieccoli tra il mare e le vicine pendici del Pollino, catena montuosa che ancora oggi segna il confine meridionale della Lucania e quello settentrionale della Calabria.
Quest’ultima li accolse con la vasta e fertile pianura dominata un tempo dalla città di Sibari distrutta quattro secoli prima dai Crotoniati e rimpiazzata dalla città greca di Thurii, a sua volta rifondata col nome di Copia dai nuovi padroni romani. Qui trovarono masse di schiavi turbolenti a servizio nelle ville di senatori e cavalieri dediti all’agricoltura e all’allevamento. Fu grazie a qualcuno di loro che riuscirono a impadronirsi della città di Thurii-Copia e vi si fermarono a lungo per addestrare militarmente i nuovi affiliati.
Gli studiosi ritengono che Spartaco abbia tentato di organizzare i propri uomini sul modello delle legioni romane, cercando anche di dare una disciplina, ben sapendo che è questa a far vincere le guerre. Trattandosi però di un esercito di irregolari, con in più al seguito innumerevoli donne e bambini, l’aspirazione di Spartaco risultò velleitaria tanto quanto lo era stato il suo divieto – coerente con l’onestà che gli attribuiscono le fonti – di compiere violenze gratuite o di possedere e far circolare oro e argento a meno di non destinarlo all’acquisto di ferro e bronzo per forgiare nuove armi.
ROMA: UNA GUERRA SENZA GLORIA
I Romani dal canto loro erano più che mai decisi a colpire duramente Spartaco e i ribelli che li avevano costretti a inseguirli per centinaia di chilometri, con esiti disastrosi. Conscio che non si trattava più di un’operazione di polizia, ma di una vera guerra, a fine 73 a. C. il Senato decise infatti di porre due consoli, Lucio Gellio Publicola e Gneo Cornelio Lentulo Clodiano, alla guida di 4 legioni (circa 20 mila uomini) con l’ordine di schiacciare i ribelli. Ma ecco che nella primavera del 72 a.C. accadde qualcosa di inaspettato: gli insorti – forse per esigenze tattico-strategiche più che per discordie interne – si divisero in due gruppi, quello di Spartaco (con circa 30 mila unità) che si diresse a Nord lungo le dorsali montuose, puntando a varcare le Alpi e a tornare nelle patrie celtiche e tracie, e quello di Crisso (con 10 mila unità) rimasto invece nel Sud Italia e diretto nella ricca regione agricola di Apulia (l’odierna Puglia). Il carisma e l’autorevolezza morale oltre che militare di Spartaco gli avevano dunque assicurato la fedeltà dei tre quarti dell’esercito, ma i giochi erano ancora aperti, e sia lui che Crisso non potevano non sperare nei rispettivi successi, se non altro per tenere impegnati i Romani; non è quindi da escludere che, pur divisi, i due si tenessero in contatto tramite messaggeri.
LA DISFATTA DI CRISSO SUL GARGANO
Ma la sorte per i ribelli cominciò a mutare: mentre Lentulo teneva d’occhio il gruppo di Spartaco, Gellio piombò a sorpresa su quello di Crisso e lo annientò nella celebre battaglia del Gargano – il promontorio aspro e boscoso oggi nel foggiano – impedendo ai ribelli di utilizzare le pur disponibili vie di fuga come i numerosi porti della zona e il potenziale aiuto dei pirati che all’epoca li frequentavano. Fu uno scontro di cui nulla conosciamo, a parte l’esito infausto per i ribelli e l’uccisione di Crisso. Fu la prima sconfitta dopo una serie di vittorie: secondo gli storici è probabile abbia giocato a sfavore la scarsa propensione di Crisso per la disciplina, per l’austerità, in altre parole per il buon senso; lacuna che forse si tradusse in un mancato uso di esploratori e sentinelle in grado di anticipare l’azione dei Romani.
FUGA VERSO LE ALPI. NUOVE VITTORIE PER SPARTACO
Dopo la vittoria su Crisso, la legione di Gellio raggiunse quella di Lentulo che sull’Appennino tosco-emiliano tentava di sbarrare la strada all’esercito di Spartaco. Questo, oltre alla superiorità numerica e all’agilità, aveva dalla sua parte il carisma di un capo coraggioso e capace di esaltarne il morale. Invece di assumere una posizione difensiva, i ribelli optarono per un improvviso assalto alla legione di Lentulo, probabilmente usando una carica di cavalleria che infranse la formazione romana con tutta la furia per la quale Celti, Germani e Traci erano famosi. Con grande disonore per la loro reputazione militare, panico e fuga furono la risposta dei Romani. Stesso destino toccò alla legione di Gellio. Armi, bagagli e cibo finirono nelle mani dei ribelli che di lì a poco avrebbero inflitto ai Romani la peggiore delle umiliazioni: Spartaco indisse infatti dei giochi funebri in memoria di Crisso, obbligando i prigionieri romani a combattere fino alla morte come gladiatori, mentre ex gladiatori e schiavi fecero da spettatori. L’offesa per i Romani fu duplice: per l’umiliante ruolo ad essi assegnato e perché a Roma i giochi funebri erano riservati solo a generali vittoriosi, pretori e consoli, non certo a un ribelle ucciso in battaglia. Per Spartaco e i suoi tutto questo ebbe invece un valore di riscatto dalle angherie subite per anni. Ma mentre la corsa dei ribelli verso nord proseguiva attraverso la Pianura Padana, un nuovo pericolo si profilava a Modena, ossia la presenza del governatore Caio Cassio Longino che poteva contare sulla disponibilità di due legioni. Per Roma fu l’ultima carta da giocare per impedire a Spartaco di varcare le Alpi. Anche questa volta si ignora la dinamica dei fatti ma è certo che i Romani furono sbaragliati con molte vittime e con la disfatta politica di Cassio, che sopravvisse ma non ebbe più incarichi pubblici di rilievo.
L’INATTESA VIRATA VERSO SUD
La via verso le Alpi era dunque ormai aperta ma per qualche motivo su cui è possibile solo fare congetture, Spartaco e i suoi decisero improvvisamente di virare verso Sud. Le ragioni di tale decisione potrebbero essere diverse: dall’esaltazione causata dai continui successi che li portò a maturare l’azzardato sogno di attaccare Roma, alla notizia delle grandi vittorie romane sui Traci che rendevano pericoloso un ritorno in patria, alla paura provocata dalla vista – per molti di loro inedita – delle Alpi, percepite come una barriera insormontabile. Gli storici antichi propendono per il folle progetto dei ribelli di assaltare Roma, forti tra l’altro di un incremento ulteriore delle loro fila che si ritiene avessero superato le 70 mila unità (fonti antiche parlano di 120 mila). Certo è che Spartaco per velocizzare la manovra fece alleggerire tutto il convoglio bruciando i rifornimenti non necessari, sgozzando le bestie da soma e uccidendo tutti i prigionieri di guerra.
Intanto, mentre tra le popolazioni e i politici romani cresceva la preoccupazione, i consoli Lentulo e Gellio riunirono tutti gli elementi superstiti delle loro legioni, pronti per una resa dei conti che ebbe luogo nel Piceno, tra gli odierni territori di Marche e Abruzzo; fu una battaglia campale che per i Romani si concluse con una nuova sonora sconfitta. Nonostante l’eclatante successo – riportano fonti antiche – Spartaco escluse fosse giunto il momento di un attacco contro Roma: infatti nessuna città cooperava con i ribelli ma soltanto schiavi, disertori e gente raccogliticcia; inoltre erano privi di macchine d’assedio come di soldati capaci di manovrarle. Quell’armata di irregolari tornò dunque nell’Italia meridionale, probabilmente nella già occupata Thurii, dopo un viaggio di quasi 2 mila chilometri, durato non meno di 4-5 mesi. L’estate del 72 a.C. volgeva al termine e ad accoglierli trovarono ancora un esercito romano, ma ebbero nuovamente la meglio raccogliendo un enorme bottino. (Fine Parte I – Segue)
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I PERCORSI
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