Nella Calabria di duemila anni fa, il drammatico momento di una intrepida caccia all’uomo. Lino Licari, guida del Parco Nazionale d’Aspromonte, accende i riflettori su alcune sorprendenti tracce archeologiche
di Redazione FdS
“Spartaco è l’uomo più folgorante della storia antica. Un grande generale, un personaggio nobile, veramente rappresentativo del proletariato dell’antichità.”
Karl Marx
LA RITIRATA SULL’ASPROMONTE E LA TRAPPOLA DI CRASSO
[Leggi 1a e 2a puntata] Il nostro racconto della drammatica epopea di Spartaco prosegue intrecciandosi con il riscontro della presenza in Calabria di luoghi e tracce materiali che, noti da tempo a studiosi locali e a uno storico di fama internazionale come Barry Strauss, non sono mai stati approfonditi dall’archeologia ufficiale. Negli ultimi due anni però qualcosa è cambiato grazie all’iniziativa di Lino Licari, guida del Parco Nazionale d’Aspromonte, il quale – nelle sue frequentazioni degli angoli più remoti dell’area – ha passato in rassegna tali resti, individuandone altri e riuscendo a richiamare l’attenzione di studiosi e autorità competenti, come egli stesso racconta in una guida naturalistico-archeologica di imminente pubblicazione.Il coinvolgimento del territorio calabrese nel conflitto tra Romani e ribelli si fece cruciale quando tramontò il sogno di Spartaco di approdare in Sicilia. In quel momento per i ribelli la situazione si fece particolarmente complicata. Occorreva trovare un’altra via d’uscita che non fosse lo Stretto di Messina. Ma ancor più impellente era la necessità di nutrirsi. A tale scopo avrebbero potuto raggiungere Reggio oppure imboccare a ritroso la via Annia-Popilia, ma non c’era dubbio che entrambi i luoghi fossero già ben presidiati dai Romani. Presero allora la via di fuga meno allettante, ma in quel momento più sicura: arrampicarsi su per l’Aspromonte.
Una volta al riparo, grazie a scorrerie nei dintorni e all’aiuto di nuovi sostenitori si sarebbero riforniti di cibo. Del resto nella zona non mancavano pascoli e selvaggina. Di tali scorrerie, e del terrore che esse generavano in molta parte della popolazione locale, secondo Strauss e altri studiosi, potrebbe ravvisarsi traccia in un tesoretto d’argenteria trovato negli anni ’20 del secolo scorso poco a nord di Palmi e oggi custodito al Museo nazionale di Reggio Calabria: si tratta di alcune caraffe e coppe, un mestolo, un cucchiaio e un medaglione con un busto di medusa, rinvenuti interrati in una teca di lastre di pietra presumibilmente per sottrarli al saccheggio e forse appartenuti a ricchi possidenti romani residenti in una villa situata nell’area dell’antica Tauriana.
Da essa si dipartivano altre vie dirette a ovest verso il Tirreno e a est verso lo Jonio. Scendendo verso il primo versante si arrivava nella piana dell’antica Metauros (odierna Gioia Tauro), mentre sul lato orientale c’era Locri, celebre città magno-greca ormai finita nell’orbita romana.
A proposito di queste vie di collegamento che ponevano in relazione l’area jonica con quella tirrenica, incrociando il Dossone della Melìa, è qui il caso di ricordare come lo stesso Licari abbia identificato in anni recenti lungo una antica strada commerciale e militare tra Locri e Medma, probabilmente tracciata su itinerari ancora più remoti, i resti di una serie di fortificazioni d’epoca magno-greca che fungevano da presidio lungo tale percorso trasversale da costa a costa.
Al centro di questo reticolo di sentieri, in una delle aree più impervie della Calabria, stava per consumarsi uno degli scontri più sanguinosi tra le legioni di Crasso e i ribelli di Spartaco. L’esercito romano non mancò, tramite esploratori, di tenere d’occhio i ribelli sin dalla loro presenza sulla costa reggina, e così andò preparando pazientemente la battaglia che avvenne un mattino d’inverno del 71 a.C. in un punto di quel crinale, a circa mille metri d’altezza. Fu lì che Crasso organizzò principalmente la sua azione di contrasto, visto che Spartaco e i suoi, com’era prevedibile, presero la via della montagna. I Romani si posizionarono così dietro un sistema difensivo che comprendeva profondi fossati costeggiati da pali acuminati, palizzate di legno e un terrapieno sormontato da un’alta muratura a secco.
Altri sbarramenti bloccavano anche qualsiasi percorso laterale che potesse consentire ai ribelli di aggirare l’ostacolo. All’avvicinarsi del nemico i legionari fecero partire una pioggia di frecce e proiettili di piombo a forma di ghianda forgiati in fornaci allestite sul posto. Quel giorno i ribelli tentarono due volte di sfondare le fortificazioni ma invano. La loro alternativa era ritirarsi o morire e, secondo le cronache ufficiali, scelsero lo scontro frontale lasciando sul campo circa 12 mila morti a fronte di soli 3 morti e 7 feriti tra i Romani. Dopo quel successo, Crasso poteva cominciare a sperare in riconoscimenti politici di rilievo, ma la partita con i ribelli era ancora tutt’altro che conclusa.
Circa il luogo preciso in cui questo scontro avvenne, ci sono elementi significativi per ritenere si tratti dello Zomaro (da Zeus Homarios, divinità venerata in Magna Grecia), altopiano del Dossone ricco di sorgenti, boschi e di vegetazione mediterranea, compresa un’antica e rarissima felce gigante, la Woodwardia radicans, relitto vegetale del Cenozoico; il luogo è poco distante dall’attuale Statale 111 che da est a ovest taglia la penisola, larga in questo punto solo 55 km, la stessa distanza lungo la quale Plutarco colloca le opere difensive allestite dai Romani per bloccare l’avanzata di Spartaco.
Certo qui non è mai esistito il muro unico che l’antico scrittore parrebbe collocare sull’intera distanza, anche perché parte di quello spazio è già per sua natura impenetrabile per la presenza di valli rocciose e gole impraticabili. Di fatto gli unici punti facilmente attraversabili erano le due fasce costiere, peraltro evitate dai ribelli perché già presidiate dai Romani, e il Dossone ampio solo 800 metri. Gli sbarramenti furono estesi peraltro anche ai sentieri delle ripide colline pre-costiere, ottenendo così una linea di fortificazioni che non superava nel totale il chilometro e mezzo. Crasso contava sul fatto che i ribelli, una volta bloccati su tutti i versanti in una sorta di vicolo cieco, sarebbero rimasti privi di rifornimenti e quindi destinati a soccombere. La tradizione vuole che Spartaco fosse stato avvisato del pericolo in agguato, ma che sprezzante abbia continuato a pianificare la sua risalita non credendo che i Romani fossero in grado di fermarlo tra le montagne, suo ambiente naturale.
Prima però di ripercorrere gli ulteriori sviluppi della vicenda storica, è il caso di soffermarsi sugli accennati ritrovamenti: il primo a collegare la vicenda di Spartaco con il Dossone della Melia fu lo storico reggino Carmelo Turano nel volume Calabria antica (1977), le cui conclusioni furono riconsiderate un decennio dopo da Domenico Raso, altro studioso calabrese il quale – attraverso una serie di sopralluoghi e raffronti – evidenziò una sorprendente combinazione di resti, toponimi e fonti storiche che sembrano convalidare il legame tra il Dossone e la vicenda di Spartaco, come sostenuto anche dallo storico Barry Strauss, il quale ha peraltro invocato degli approfondimenti.
Muovendo dalle indicazioni offerte da Raso, Licari ha verificato come sul Dossone siano effettivamente presenti muri antichi e larghi fossati, così come i resti di alcune fornaci per la fusione del piombo (sulle pareti interne sono ancora visibili gli schizzi di ossido di piombo), vestigia che collimano col sistema di fossi descritto nelle fonti antiche su Spartaco.
Come nota Raso nella accurata ricognizione dei luoghi fatta negli anni ’80, si tratta spesso di strutture fortificate che sembrano “atte a contenere e ad impegnare un gran numero di uomini”. L’impressione – aggiungeva lo studioso – è di trovarsi di fronte a “uno sbarramento creato ad arte…e inteso probabilmente a vietare un accesso indiscriminato al passo di masse notevoli di uomini e di cavalcature. L’elemento che invita a una considerazione di indole militare è dato dal modo in cui le cortine murarie sono costruite e dal posto in cui sorgono: cortine come queste sul ciglio di valli profonde non indicano la difesa del territorio da nemici che provengano dall’esterno – non essendo possibile che i nemici provenissero per risalita da profondi e inaccessibili valloni – ma piuttosto il contenimento e l’ostacolo creato a nemici che provenissero dall’interno del territorio circoscritto dalle mura stesse”.
Tali resti – concludeva Raso – si addensano solo in prossimità di passi e di biforcazioni di strade con essi connesse e non altrove. E proprio sulle citate biforcazioni si è concentrata di recente l’attenzione di Licari che ha a sua volta individuato un ulteriore sbarramento su un percorso che scende a ovest verso la costa tirrenica. Interessanti, se letti in combinazione con gli elementi materiali, anche alcuni toponimi presenti nell’area, come – tra gli altri – Piani di Marco e Serro di Marco, che potrebbero evocare il nome di Marco Licinio Crasso e la presenza di uno sbarramento (serro, inteso come posto di blocco o comunque luogo chiuso); così come fortemente evocativo in tal senso è anche il toponimo di Tonnara, un’area coperta di folte felci e di gruppi di faggi: in questo caso il richiamo figurato sarebbe alla pesca del tonno, intrappolato con un sistema di reti fisse, così come intrappolati furono i ribelli nella loro fuga verso nord.
L’idea di sbarramento la ritroviamo anche nel nome Chiusa o Chiusa Grande che identifica le pendici orientali della Tonnara. Altri toponimi evocativi li troviamo nei dintorni con nomi come Contrada Romano, località Torre Lo Schiavo o, a nord-ovest del nostro supposto scenario di battaglia, il toponimo Grasso, che potrebbe essere l’eco della presenza, sul versante tirrenico, dell’enorme latifondo di Marco Licinio Crasso nel Bruzio citato dalle fonti antiche. Da non trascurare anche il luogo nel quale, secondo lo studioso Giuseppe Pensabene, si sarebbe inizialmente accampato l’esercito di Spartaco: situato diversi chilometri a sud dello Zomaro, si tratta del Piano di Zervò, località montana a oltre mille metri il cui nome deriverebbe dalla parola latina ”servorum” (quindi piano dei servi, nel senso di schiavi).
Se si guarda infine alle fonti, e in particolare a Plutarco, che ispirò l’iniziale ricerca di Turano, poi ripercorsa da Raso e quindi da Licari, a convergere verso questa identificazione dei luoghi sono almeno tre elementi: Plutarco parla di “penisola reggina” con ciò contestualizzando le vicende nell’area sotto l’influenza o il controllo di Reggio, il cui confine nord era per tradizione identificato nel Petrace, fiume che scorre poco a nord-ovest di Zomaro; fa inoltre riferimento alla presenza della neve, escludendo zone poste in pianura; e infine indica in 300 stadi (cioè 55 km) la distanza tra i due mari, che è quella esattamente intercorrente tra Locri e Gioia Tauro; un dato che mette fuori gioco qualsiasi altra zona istmica.
Elemento apparentemente stridente nel racconto di Plutarco rimane però il riferimento a una fortificazione unica che avrebbe ricoperto l’intero istmo; ma a ben vedere, si tratta di un particolare probabilmente dettato da intenti propagandistici a favore della grandezza di Roma, e tuttavia veritiero se lo si legge nella sostanza, e cioè nel senso che Crasso era effettivamente riuscito a tagliar fuori la penisola nella sua intera larghezza, bloccando tutti i varchi possibili. Del resto lo stesso Plutarco, contraddicendosi, riferisce come a Crasso fosse bastata una “rapida” ispezione del terreno per decidere sul da farsi, celerità verosimile se riferita al solo Dossone della Melìa e non certo all’intero istmo di 55 km. Tale velocità nelle operazioni fu inoltre favorita dalla presenza di preesistenti fortificazioni greche che presidiavano i percorsi tra Locri e Medma, sua subcolonia tirrenica, come pure ha ben documentato lo stesso Licari in altra occasione. Anzi Raso riteneva che con molta probabilità gli stessi Locresi avessero offerto rapidamente a Crasso tutte le informazioni necessarie alla logistica.
SPARTACO TENTA IL TRATTATO DI PACE
Dopo il duro prezzo pagato dall’esercito di Spartaco, lo scontro con i Romani proseguì come una logorante guerra di resistenza, condotta con assalti improvvisi dei ribelli e incendi di sterpi nei fossati. Le condizioni di quel conflitto erano terribili, con il clima gelido di un inverno in alta quota e il cibo che scarseggiava. Era un miracolo che nessuno avesse ancora disertato. Secondo una fonte antica Spartaco, per spronare i suoi uomini “crocifisse un prigioniero romano” quale monito “per indicare ciò che avrebbero subito se non avessero vinto”. Quel truce gesto produsse i suoi effetti, ma non sui Romani che non arretrarono di un passo dal proposito di porre fine a quella rivolta, sostenuti in questo dalla scelta del Senato che, pur di far cessare quella situazione di stallo, decise di richiamare Gneo Pompeo Magno dalla Spagna dove era riuscito a sedare la rivolta di Sertorio; una scelta che non dovette entusiasmare Crasso, deciso com’era a prendersi tutti i meriti di una vittoriosa conclusione di quella problematica campagna militare. La notizia dovette presto arrivare in quell’angolo remoto di Calabria ma, più che suscitare paura nei ribelli, spinse Spartaco a tentare una soluzione ”politica” volta a tener fuori dalla guerra il potente rivale di Crasso; a quest’ultimo propose un trattato di pace che ponesse i ribelli sotto la fides di Roma; una sorta di patronato che prevedeva obblighi reciproci da rispettare. Inutile dire che Crasso rifiutò la proposta, perché accettarla sarebbe equivalso a una resa, a un riconoscimento di dignità a un nemico di cui voleva la testa. A quel punto, a Spartaco non rimaneva altro che tentare un estremo colpo di mano.
I RIBELLI SFONDANO IL BLOCCO SULL’ASPROMONTE
Era una notte di neve e di forte vento sul crinale della Melìa quando Spartaco – raggiunto finalmente dalla cavalleria e contando su un abbassamento della guardia da parte del nemico – decise di lanciare la carica contro il presidio romano. Una fonte antica narra che per favorire il transito dei suoi oltre la cortina romana, avesse fatto riempire un breve tratto dei fossati con terra, legna, cadaveri di prigionieri giustiziati e carcasse di bestiame. Il tentativo riuscì e, nonostante le numerose perdite, Spartaco portò fuori da quella trappola gran parte dei suoi uomini. Così, ancora una volta Crasso fu costretto a inseguire quel bersaglio mobile, una nuova sfida a cui si aggiungeva il timore che i ribelli potessero decidere di aggredire Roma. In realtà – con Crasso alle spalle e Pompeo in arrivo – l’unico piano plausibile per il gladiatore era quello di tentare nuovamente una fuga fuori dall’Italia, non prima però di aver concesso ai suoi seguaci un meritato riposo. Scelse così come meta il Sannio, un’area aspra e fortemente antiromana, posta tra Molise, Abruzzo e Campania e raggiungibile dopo aver ripercorso a ritroso tutta la Calabria e la Lucania. Ma nuove traversie lo attendevano lungo la strada. (Fine Parte III – Segue)
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Bibliografia
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