“La guerra di Spartaco era ufficialmente finita. La leggenda era già cominciata”
Barry Strauss, La guerra di Spartaco
di Redazione FdS
[Leggi 1a , 2a e 3a puntata] La fuga verso il Sannio dei ribelli sottrattisi alla trappola di Crasso sull’Aspromonte subì una battuta d’arresto in Lucania, dove un gruppo di Germani e di Celti, capeggiati da Casto e Gannico – le fonti parlano di più di 3mila uomini – decise di staccarsi dall’esercito di Spartaco e di proseguire per la propria strada. Un dissidio etnico o una divergenza di obiettivi rese la spaccatura insanabile. La notizia di questa scissione non poteva che far piacere a Crasso: un esercito diviso sarebbe stato più facilmente attaccabile, così come sembrava scemare il pericolo che i ribelli, ridotti di numero, potessero pensare di aggredire Roma. Il gruppo degli scissionisti si era accampato in un luogo non meglio precisato dei dintorni di Paestum, forse nell’area paludosa tra la città e la foce del fiume Sele oppure sul Monte Soprano (secondo alcuni l’antico Camalatro) che, dalle spalle di Capaccio (Salerno), sovrasta la fertile pianura non lontana dalla via Annia-Popilia e dalla costa tirrenica.Certo è che alcune donne celte, da un’altura scorsero i Romani in avvicinamento, riuscendo a dare l’allarme. In realtà si trattava solo di un gruppo di soldati mandati in avanscoperta, mentre Crasso si preparava a sferrare l’attacco principale da un’altra direzione. E senza dubbio i romani avrebbero massacrato l’esercito ribelle se non fosse improvvisamente accaduto l’imprevedibile: l’arrivo di Spartaco. Non è un caso che il gladiatore si trovasse in zona, essendo nei pressi il punto in cui la deviazione per il Sannio abbandonava la via Appia, così come non è escluso che Spartaco, mantenendosi a distanza ravvicinata dagli ex compagni, sperasse di riguadagnarli alla sua causa.
LICINIO CRASSO SCONFIGGE I RIBELLI SCISSIONISTI
L’arrivo di Spartaco sparigliò le carte di Crasso, salvando temporaneamente l’esercito scissionista, ma presto i Romani tornarono ad attaccare con uno stratagemma tattico, ovvero dividendo la cavalleria in due gruppi in modo che uno tenesse impegnato Spartaco in schermaglie e l’altro spingesse i Celti e i Germani in campo aperto dove lo aspettava la fanteria di Crasso. La battaglia ebbe luogo in un posto chiamato Cantenna, omonimo del monte che sorge nei pressi dell’odierna Giungano, borgo a pochi km da Capaccio. Strenua ed eroica fu la resistenza in battaglia dei ribelli di Casto e Gannico, sconfitti con perdite che, racconta Plutarco, ammontavano a 12.300 morti; è verosimile che numerosi siano stati i prigionieri e i fuggitivi forse riunitisi con Spartaco.
Mentre i Romani gioivano per quella schiacciante vittoria, recuperando molte delle insegne perdute nelle disastrose battaglie precedenti, Spartaco – narrano le fonti – convinse i suoi uomini a ripiegare verso i monti di Petelia. Sebbene non manchi chi ritiene che questa località sia da identificarsi con Atena Petillia (odierna Atena Lucana), cittadina ubicata a una sessantina di chilometri, altri come Appiano e Plutarco, sostengono invece che la destinazione di Spartaco fosse Petelia, piccola città della Magna Grecia soggetta a Crotone, sita sul versante orientale dei calabresi monti della Sila presso l’odierna Strongoli, circa 300 km più a sud; una destinazione troppo lontana se considerata in rapporto alla rapida successione degli eventi narrati dalle fonti. Lo storico Barry Strauss si dice infatti concorde con l’autore tardo-romano Paolo Orosio che colloca il luogo nei pressi delle sorgenti del fiume Sele, site nel territorio dell’odierna Caposele (Avellino), oggi in Campania ma allora in territorio lucano. Non è forse un caso che proprio in quest’area, a metà del secolo scorso, furono ritrovate armature e armi di epoca romana, che potrebbero risalire proprio alla battaglia del 71 a.C.
LA RIVINCITA DI SPARTACO E LA META NEGATA DI BRINDISI
Inseguito da truppe romane comandate dai luogotenenti Quinzio e Scrofa, Spartaco proseguiva la sua corsa verso nord-est. Gli storici ritengono che Crasso avesse chiesto ai suoi uomini di limitarsi ad accertare le intenzioni del nemico, per poi intervenire col grosso del suo esercito. Ma le cose andarono diversamente: l’eccessiva esposizione delle truppe romane, provocò la repentina e violentissima reazione di Spartaco che costò al nemico diversi feriti, tra cui lo stesso Scrofa, e una scomposta fuga in preda al panico. Il gladiatore rimaneva un avversario temibile. Una tradizione vuole che forte di quella vittoria, egli avesse deciso a quel punto di virare a sud-est per raggiungere la città portuale di Brindisi, porta marittima per l’Oriente, in un nuovo tentativo di lasciare finalmente l’Italia. Avrebbe quindi dovuto guadagnare con i suoi la via Appia, nei pressi di Aquilonia, passando appunto per Caposele, ma lungo la strada ricevette notizia che a Brindisi era appena sbarcato Marco Lucullo, reduce dal successo in Tracia. Raggiungere quel porto avrebbe significato infilarsi nella fossa dei leoni.
A quel punto, secondo le fonti, prese definitivamente corpo nei ribelli, esaltati dalla recente vittoria, l’intenzione di affrontare Crasso, visto come un ostacolo da rimuovere prima dell’ormai prossimo arrivo di Pompeo. E a tal proposito alcune fonti parlano di un vero e proprio ammutinamento dei soldati contro l’atteggiamento più cauto di Spartaco e dei suoi luogotenenti, altre invece attribuiscono proprio al gladiatore la decisione di cercare lo scontro con Crasso, in una lotta per la libertà fatalisticamente spinta fino alla morte. Fu in ogni caso una scelta che Plutarco, nel suo racconto degli eventi, giudicò deleteria per il destino dei ribelli.
INCONTRO ALLA MORTE
Risoluto allo scontro, Spartaco condusse l’esercito giù per la valle dell’alto Sele verso l’accampamento romano. Per Crasso fu una provocazione da non lasciarsi sfuggire; in fondo, mosso da ragioni militari e politiche, anch’egli voleva concludere le ostilità prima dell’arrivo di Pompeo; il merito dell’annientamento dei ribelli doveva essere solo suo. Contava sull’indebolimento del nemico, già sottoposto a rilevanti perdite, sebbene – riportano le fonti – Spartaco potesse contare ancora su 30-40 mila uomini, un numero non dissimile da quello delle forze romane, peraltro abituate – grazie all’addestramento, alla qualità delle armi e all’abilità nel comando – ad affrontare eserciti anche numericamente superiori e a batterli. E poi, male che fosse andata, Crasso poteva contare ancora sull’arrivo di rinforzi. Intanto, da parte dei ribelli andava preparandosi uno scontro carico di rancore e di sete di vendetta dopo l’eccidio degli uomini di Casto e Gannico. Soprattutto Traci, Celti e Germani erano pronti a tutto, avvezzi com’erano a cercare la morte eroica in battaglia quale alternativa preferibile alle umiliazioni di una sconfitta e di una rappresaglia delle più terribili. Era l’aprile del 71 a.C. e mentre intorno esplodeva la primavera, la parola d’ordine era uccidere quanti più Romani possibile.
Lo scenario dello scontro imminente fu la stretta area pianeggiante dove, tra quinte di alti monti, scorre il fiume Sele diretto a sud-ovest verso il Tirreno. Una zona che a quel tempo, tra uliveti e campi coltivati, era sicuramente popolata da numerosi schiavi al servizio di latifondisti. Una tradizione vuole che la battaglia finale abbia avuto luogo tra i territori degli attuali borghi di Oliveto Citra, Quaglietta e Senerchia, sul confine tra la provincia di Salerno e quella di Avellino. L’avanzata di Spartaco fu accolta da Crasso con una mossa altrettanto provocatoria: quella di marciargli contro piazzando a breve distanza un accampamento munito di fossati che avrebbero dovuto contenere l’attacco della cavalleria dei ribelli. Questa infatti non tardò ad aggredire i Romani forse sperando di guadagnarsi la vittoria neutralizzando subito le loro formazioni. Seguì l’assalto della fanteria a cui forse Spartacò ordinò di decapitare il nemico uccidendone i comandanti. La resistenza dei Romani questa volta fu durissima, mettendo in campo tutto l’armamentario disponibile. Prima però che la battaglia iniziasse, Spartaco fece un gesto teatrale tramandato dalle fonti, che invece tacciono su Crasso: fattosi portare il suo cavallo, lo abbatté con la spada dopo aver detto ai suoi soldati: “Se vincerò, ne avrò molti e belli; se perderò, non avrò più bisogno di cavalli”. Fu il gesto solenne, quasi rituale, di un uomo che sapeva di rischiare la morte, e forse quel gesto servì a rinfocolare gli animi dei suoi soldati. Lanciato il segnale dai comandanti la battaglia ebbe inizio.
Anche molti dei suoi caddero, non prima però di averlo vendicato con strage di nemici, come ci racconta lo storico antico Sallustio. Le perdite tra i ribelli furono altissime, sebbene molti di loro fossero riusciti a fuggire sulle montagne circostanti. Molti perirono o furono imprigionati anche nei rastrellamenti successivi disposti da Crasso. Altri circa 5 mila, in fuga dalla battaglia, furono uccisi dalle truppe di Pompeo che scendevano da nord: Plutarco racconta che il generale romano inviò un messaggio al Senato, in cui diceva che sebbene fosse stato senza dubbio Crasso a sconfiggere gli schiavi in battaglia, lui aveva “estirpato la guerra fino alle radici”, rivendicando in tal modo gran parte del merito; una mossa che non piacque a Crasso e che compromise i loro rapporti almeno fino a quando non costituirono insieme a Giulio Cesare il primo triumvirato.
Intanto, in quella bolgia di corpi caduti in battaglia e forse sepolti in fosse comuni, il corpo di Spartaco andò disperso. Falsa è dunque la leggenda che lo volle sospeso a una croce tra i seimila ribelli fatti crocifiggere per rappresaglia lungo la via Appia, nei 190 km che separavano Capua – dove tutto era iniziato – da Roma. Quell’orrido spettacolo, predisposto a monito di futuri insorti, non lo vide tra i protagonisti. Scomparve nel nulla, come un eroe leggendario. Rimaneva la cruda realtà di un esercito multietnico che aveva fallito per le sua divisioni interne. Ma Spartaco non aveva avuto altra scelta che combattere con gli uomini che aveva. Come ha scritto Barry Strauss, se Spartacò fallì contro Roma, ebbe tuttavia successo come creatore di un mito. In pochi oggi sanno chi fossero Crasso e Pompeo, ma tutti hanno sentito parlare di Spartaco il Gladiatore (Fine).
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Bibliografia
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