Dal racconto dei migranti dell’Africa occidentale al film “Mediterranea” di Jonas Carpignano

Uno dei giovani immigrati africani assegnati al centro di accoglienza di Matera - Ph. © Angela Capurso

Basilicata – Uno dei giovani immigrati africani assegnati al centro di accoglienza di Matera – Ph. © Angela Capurso

di Angela Capurso

Non dico come mi chiamo, non ha importanza. Sono della Nigeria, del Mali, del Ghana, del Burkina Faso. La mia terra ha i colori della terra. Il mio cielo ha i colori del cielo. Ma il mare che ci separa, invece di unirci, è color del vino, nero come la notte, o come il sangue. Per me è vita. Non si può esprimere la violenza del desiderio di fuggire. Il richiamo di chi ci è riuscito è irresistibile. Un canto di sirene che ti strappa di dosso i legami con la tua casa, gli affetti, il tuo villaggio.

Un unico pensiero. Fuggire. Trovare il denaro per farlo. La disperazione è una risorsa: da lì viene il coraggio. Almeno di tentare. Giorni e giorni di viaggio attraverso il deserto, a piedi o su camion arrugginiti e sovraccarichi, a respirare sabbia. Ma quella sabbia che ti penetra dentro dalle narici ha il sapore della libertà. Poi i boss, in Algeria, in Libia. Stiamo stipati come bestie, semidigiuni e semivestiti, nascosti in tuguri, a veder passare le stagioni disumane del deserto. Cinque, dieci mesi. Su binari morti. La notte è il luogo dell’attesa. La chiamata può avvenire solo nel cuore della notte. Intorno alle due. A chi tocca stanotte?

E i giorni trascorrono sempre uguali col terrore di essere scoperti, rischiando tutto quello che abbiamo investito. Non è il mare a farci paura, è il deserto. Per molti il mare di sabbia è il capolinea. Sono sopravvissuto. Ci imbarcano a Tripoli. Non ci preoccupano i fasciami sconnessi delle chiglie, il sovraccarico dei barconi non è una sorpresa. Non abbiamo lo spazio per allungare le gambe, l’ondeggiamento non ci fa paura, ci gira la testa, lo stomaco è sottosopra. Ci aiuta la preghiera. È solo un braccio di mare di poche miglia. Non ti è dato di scegliere il tuo Caronte e, se il viaggio non va a finire bene, dell’obolo dei dannati non puoi chiedere il rimborso. Valichiamo un confine invisibile. Siamo nelle acque italiane. In vista della Sicilia. Da una nave i soccorritori ci urlano “Wait, wait” e restiamo in acqua più di un giorno e una notte infinita. Passiamo tutti da Lampedusa. I naufraghi non si contano. Di molti hanno recuperato solo i corpi. Ci smistano in luoghi di transito, a Sevilla e Porto Empedocle. Da lì il ponte del continente. Ora sono qui. E voglio imparare a parlare in italiano. Cerco una terra che diventi la mia terra.

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Ho provato a dare corpo e voce a uno dei racconti che ho udito delle odierne odissee del Mediterraneo, raccolto dalle scarne testimonianze di alcuni superstiti del naufragio di Lampedusa, nel novembre 2013, destinati ai Centri di accoglienza per sei-dodici mesi in diverse regioni italiane. Matera si è predisposta a ospitare gruppi di quaranta giovani tra i diciotto e i trentacinque anni. All’associazione di volontariato Kafila è affidato il compito di progettare un percorso formativo iniziale di inclusione, con una scuola di italiano e diverse iniziative di integrazione e solidarietà. Per molti mesi li abbiamo visti lontani dall’accattonaggio, una soddisfazione immensa per tutti noi volontari.

locandina_mediterraneaIl mare in mezzo alle terre, lungo in cui viviamo, come dice Socrate, come rane attorno a uno stagno, separa invece di unire, uccide invece di salvare, ma è pur sempre il “nostro” mare. La spinta a ritornare a parlare di questi temi mi viene offerta da Tu non conosci il Sud, un progetto culturale itinerante, prodotto dall’associazione Veluvre, a cura di Oscar Iarussi, che ha fatto tappa il 28 e 29 novembre in Casa Cava a Matera. Durante l’ultima serata è stata presentata l’opera prima del regista italo-americano trentunenne Jonas Carpignano, Mediterranea, una coproduzione internazionale del 2015, segnalato dalla critica al Festival di Cannes e al Sundance Film Festival, finalista Lux Prize del Parlamento europeo.

Il cineasta ha sottolineato la sua scelta di continuare a vivere e lavorare a Gioia Tauro (Reggio Calabria), dove risiede ormai da cinque anni “perché le cose stanno cambiando e, questa volta, a partire dal Sud”. I temi dell’immigrazione e del razzismo gli stanno particolarmente a cuore, ma sarebbe riduttivo considerarne solo la matrice biografica (padre italiano e madre afroamericana). Tutto parte dall’intento di indagare sulla schiavitù dell’era globale e sulle dinamiche dei rapporti con la popolazione locale che hanno provocato a Rosarno, nel 2012, gravissimi episodi di razzismo e l’altrettanto grave reazione controffensiva della comunità di immigrati dell’Africa occidentale. Il primo cortometraggio, A Chjana, premiato a Venezia (Sezione Controcampo 2011), non esaurisce in lui l’esigenza di approfondire i fatti. L’incontro con uno dei protagonisti reali, Koudous Seihon, e con la sua storia personale motiva l’impegno di ampliare il racconto. È in questo che si fa strada il nuovo epos del Mediterraneo, da millenni solcato da navi di esuli, per sopravvivere a fame e miseria, e di profughi di guerra, per scampare ai loro pogrom, in viaggio ciascuno verso la propria Esperia.

Ayiva ha lasciato sua figlia bambina in Burkina Faso; con l’amico Abas supera il deserto algerino e la traversata in mare; vive in condizioni precarie a Rosarno; raccoglie arance come nessuno e a basso costo. Ma questo è solo l’osso della storia. La scelta del punto di vista fa la differenza: il cinema si fa storia, non leggenda, ricostruzione di testimonianze, filtrate solo dalla dimensione autoptica, documento per non dimenticare la memoria di chi di sé non lascia tracce. Anche rapidi tratti e brevi sequenze bastano a farci penetrare nella loro umanità, specie nei momenti in cui la comunità afro si ritrova di notte a bere e ballare al ritmo azonto e gerration. Nel film tutti i personaggi sono persone. Sarà difficile dimenticare Pio Amato, il ragazzino ladro e ricettatore a cui hanno rubato l’infanzia. E a lui, cruda e serissima parodia di un adulto della comunità rom di Gioia Tauro, sarà dedicato il prossimo film di Jonas Carpignano.

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Dal racconto dei migranti dell'Africa occidentale al film "Mediterranea" di Jonas Carpignano

Immigrati africani a Matera, Palombaro - Ph. © Angela Capurso

Dal racconto dei migranti dell'Africa occidentale al film "Mediterranea" di Jonas Carpignano

Immigrati africani a Matera, Palombaro - Ph. © Angela Capurso

Dal racconto dei migranti dell'Africa occidentale al film "Mediterranea" di Jonas Carpignano

Immigrati africani a Matera, Palombaro - Ph. © Angela Capurso

Dal racconto dei migranti dell'Africa occidentale al film "Mediterranea" di Jonas Carpignano

Immigrati africani durante il percorso formativo di inclusione, Matera - Ph. © Angela Capurso

Dal racconto dei migranti dell'Africa occidentale al film "Mediterranea" di Jonas Carpignano

Immigrati africani durante il percorso formativo di inclusione, Matera - Ph. © Angela Capurso

Dal racconto dei migranti dell'Africa occidentale al film "Mediterranea" di Jonas Carpignano

Immigrati africani a Matera, Galleria Porta Pepice - Ph. © Angela Capurso

Dal racconto dei migranti dell'Africa occidentale al film "Mediterranea" di Jonas Carpignano

Immigrati africani a Matera, Galleria Porta Pepice - Ph. © Angela Capurso

Dal racconto dei migranti dell'Africa occidentale al film "Mediterranea" di Jonas Carpignano

Immigrati africani a Matera, Casa Grotta - Ph. © Angela Capurso

Dal racconto dei migranti dell'Africa occidentale al film "Mediterranea" di Jonas Carpignano

Immigrati africani a Matera, Casa Grotta - Ph. © Angela Capurso

Dal racconto dei migranti dell'Africa occidentale al film "Mediterranea" di Jonas Carpignano

Un immigrato africano a Matera - Ph. © Angela Capurso

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