di Redazione FdS
E’ una fiaba conosciuta in molti paesi (ne esiste anche una versione indiana dal titolo Kalila and Dimna) e spesso presenta qualche variazione, ma la matrice è inequivocabilmente greca in quanto deriva da un originale di Esopo, il misterioso scrittore di cui quasi nulla si conosce a parte il fatto che è vissuto nel VI sec. a.C. e che è stato citato da autori come Aristofane, Platone, Senofonte, Erodoto, Aristotele e Plutarco. Il resto di ciò che si sa di lui sono solo leggendari racconti popolari. Parliamo della fiaba del Corvo e della Volpe ripresa in epoca romana da Fedro e nel Seicento dal francese Jean de la Fontaine, autore la cui versione ha fatto il giro del mondo nelle più disparate traduzioni. Noi però ve la proponiamo in una versione insolita, se non altro come fonte, perchè la ricaviamo direttamente dalla voce del popolo grecofono di Roccaforte del Greco, un paesino oggi di 522 abitanti in provincia di Reggio Calabria. Difatti dopo il testo in italiano troverete anche quello in greco (traslitterato), entrambi ricavati da una fonte calabrese di fine Ottocento.
Roccaforte sorge a oltre 900 m. sul versante meridionale dell’Aspromonte ed ha come unica frazione Ghorio di Roccaforte. Si trova nella cosiddetta Bovesìa ossia un’area grecofona intorno ai monti di Bova, una zona dal clima dolce che a tratti favorisce la coltura del bergamotto e comprende 11 comuni (Bagaladi, Bova, Bova Marina, Brancaleone, Condofuri, Melito di Porto Salvo, Palizzi, Roccaforte del greco, Roghudi, San Lorenzo, Staiti) con le relative frazioni. Fra tutti sono però i centri di Condofuri, Gallicianò, Roccaforte del Greco e Roghudi a mantenere più evidenti le tracce della cultura di matrice greca.
Il greco parlato qui è dal secolo scorso oggetto di studi e ricerche nonché motivo oggi di scambio culturale con la Grecia e di iniziative a tutela delle minoranze linguistiche storiche. Il greco era parlato in tutta la Calabria meridionale fino al XV-XVI secolo, quando fu progressivamente sostituito dal dialetto romanzo (influenzato comunque dal greco-calabro nella grammatica e in molti vocaboli), per cui gradatamente andò scomparendo in diverse aree. Questa lingua ha molti punti in comune col greco moderno e la sua origine è motivo di discussione: alcuni sostengono che sia un dialetto derivato dal greco bizantino, mentre altri affermano (ed è ormai l’ipotesi che ha preso più piede) che derivi dal greco parlato nella Magna Grecia dal quale si sarebbe evoluto indipendentemente dal greco ellenistico. Ne sarebbe prova il fatto che è una lingua arcaica, che presenta parole che oggi in Grecia sono sconosciute o scomparse, e possiede nel suo vocabolario molte parole derivate dal greco dorico. Resta comunque l’idea che il greco calabro, diffuso nella provincia di Reggio sia una parte peculiare dei dialetti ellenofoni parlati in Italia, probabilmente con una sua propria evoluzione, distintasi da quella greca molti secoli fa.
Ci è sembrato curioso ed interessante il fatto che una fiaba di Esopo fosse riscontrabile a livello popolare, in una zona che – se non altro per lo scarso livello di alfabetizzazione alla fine dell’800 (epoca della nostra fonte) – era difficile fosse venuta in contatto con la versione di La Fontaine, per cui ci piace pensare che – così come si ritiene sia avvenuto per la lingua – possa esserci un sottile filo rosso che lega questa testimonianza con l’antica Magna Grecia, presso le cui colonie le fiabe di Esopo dovettero certo essere molto note. Lo sviluppo della fiaba è un tantino più ampio rispetto all’originale antico, riprendendo anche elementi di epoche successive (il riferimento a Cristo, l’uso del fucile), ma mantiene pur sempre il carattere archetipico delle favole di Esopo, con personaggi che sono animali personificati, allo scopo esplicito di comunicare una morale.
IL CORVO E LA VOLPE
“C’era una volta un corvo che andava volando di fretta; lo vide una volpe e gli disse: – Compare corvo, perchè volate così in fretta e il corvo rispose: – Comare volpe, vado di corsa, perchè nel cielo fanno una bella festa e son partito per andare a vederla. La volpe allora gli disse: – Compare corvo, perchè non portate anche me in cielo a vedere la festa? E quello: – ma io come faccio a portarvi? E la volpe replicò: – Potete farlo se volete; io vi salgo addosso e me ne starò a cavalcioni, voi volerete e così porterete anche me in cielo a vedere la festa.
– Si, comare volpe, rispose il corvo. E partirono. Ma il corvo che fece? A un certo punto [evidentemente spaventato dalle possibili cattive intenzioni della volpe], cominciò a guardarsi intorno per vedere se ci fosse un cumulo di pietre su cui gettare l’infido animale. Quando gli parve di averlo intravisto, si volse sottosopra e fece precipitare la povera volpe, la quale mentre stava per cascare a terra disse: – Signore, salvatemi da questa morte e rinuncerò volentieri a vedere la festa in cielo. Giunta a terra, si acciaccò appena un poco, ma non mori. Il corvo cominciò a gridarle contro accusandola di essersi rivoltata per far precipitare lui, ma Cristo aveva fatto sì che fosse precipitata lei, e andò via cantando, crau crau.
Un giorno il corvo entrò in una capanna, rubò un formaggio e se lo portò sopra un albero. La volpe lo vide e disse a se stessa: – Come devo fare per prendergli il formaggio? Pensò allora di invitarlo a cantare un po’ dicendogli che le piaceva sentire la sua voce. E cosi fece, dicendo: – Compare corvo, io vorrei che cantaste un po’ perchè mi piace sentire la vostra voce. Il corvo allora cominciò a fare crau crau. Fu così che gli cadde il formaggio dal becco. La volpe corse, se lo prese e se lo portò nella tana.
Il corvo allora, avendo rubato invano quel formaggio ed essendo rimasto senza assaggiarlo, disse alla volpe: Avete ragione, me l’avete fatta, comare volpe. La volpe, dopo aver portato nella tana il formaggio, uscì dinanzi alla buca e disse al corvo: – Ma che buon formaggio! E il corvo le rispose: – Comare volpe, se posso, vi renderò il ben servito. Una volta me l’avete fatta; non credo che tornerete a farmela più.
La volpe dal canto suo non faceva altro che tentare di escogitare un modo per far morire il povero corvo. Una sera andò a rubare una gallina, se la portò nella tana e la nascose. Come la vide il corvo le disse: – Comare, me ne date un pochino? E quella: – No compare, se volete andate e rubate anche voi, come ho fatto io. Al che il corvo: – E mi mostrate dove devo andare anch’io? La volpe sapeva che di giorno le galline avevano un guardiano che le controllava col fucile per cui avrebbe senz’altro sparato, quindi disse subito al corvo: – Compare corvo, venite con me. Lo condusse su un’altura e gli disse: – Dovete andare in quella casa. E gliela mostrò. Il povero corvo, giunto in prossimità delle galline, si lanciò per pigliarne una. II guardiano, tosto che l’ebbe veduto, gli tirò una schioppettata ed ammazzò il povero corvo. La volpe che se ne stava affacciata, non appena sentì il botto cominciò a ballare e a cantare, dicendo: – Oggi fanno una bella festa in cielo! Il compare corvo credeva di farmi fuori, ed io invece ho fatto fuori lui!
La volpe rimase là, e noi siamo qui.”
Nel notare come la morale sia rimasta la stessa voluta da Esopo – e cioè l’invito a guardarsi dalle troppo facili lusinghe altrui – vi proponiamo la versione originale in greco-calabro (traslitterato).
VERSIONE IN GRECO CALABRO
Ena viaggio ihe ena córaco ce ipighe apetonda tréhonda , ce posso to dhori i alapùda ce tu ipe: — Cumpare córaco , jati pàite tosso gligora? O córacose tis ipe: — Cummare alapùda, pao tréhonda, ja ti‘s to cielo cànnusi mia magni festa ce imme horisménose ja ti festa: I alapùda tu ipe: — Cumpare córacose, ce jati de pérrite ciola emména ‘s to cielo ja ti festa? – Ce ego pose eho na sa piro?
— A dhélite , me sónnite piri: ego pettónno apànu ‘s to fllettossase ce steco ancavaddhu ce esise apetóite ce ótuse me pérrite ciola emména ‘s to cielo ja ti festa — Mane, cummare alapùda. Ce ehoristissa. Ma o córacose ti canni? Sa tu efini ecinu, ipighe canunónda pu dhori varvacani asce lidhària na tin angremmì tin alapùda. Sa tu efàni ecinu , pu ivre mia cali varvacani asce lidhària ejirie tapànu apicàtu ce angremmie ti povero alapùda.
I alapùda , pose ecatévenne ja hàmme éleghe: — Christému, sarvespeteme asce tundi morti ce de dhelo na ivro pleo festa ‘s tó cielo.
Ma san arrivespe hamme, anciunchefti liga, ma den espàghi. O córacose émbese cuddhiszonda cuntra tis alapùda, ti alapùda ejiregue na angremmi ecino , ma o Cristóse ecame na angremmisti ecini, ce etragude cànnonda crau crau.
Mian iméra o córacose ejavi ascèna jazzo ce éclespe ena tiri ce to épire apànu ascena dendro. I alapùda ton ivre ce ipe: — Poso eho na camo na tu piào to tiri? Ma epensespe na tu ipi ti dheli na tragudi ligo, ti ti piacegui na cui ti fonindu. Ce otuse écame; tu ecùddhie: — Cumpare córacose, ega idhela na tragudite ligo, ti mu piacegui na cuo ti fonissase.
O córacose émbese cànnouda crau crau. Posso tu éppese to tiri. I alapùda erifti ce to epiae ce to épire ‘s ti tana, ce o coracose éclespe to tiri senza na to provespi ce éleghe tis alapùda: — Ehite ragiuni ; mu tin ecamete, cummare alapùda. I alapùda, doppu pu to evale sti tona to tiri, eicévi osciu ambróse ti tripase ce tu éleghe tu coràcu: — Ma ce ti è magno to tiri !
O córacose tis ipe: — Cummare alapùda, assóso, sas ti strefo.
— Ena viaggio mu tin ecàmete ; de pisteguo ti mu ti condoférrite pleo.
Ma i alapùda panda to penserondise ito na ivri pose sonni cami na teglioi to povero córaca. Mia vradia ejàvi ce éclespe mia puddha ce tin épire conda ti tanase ce tin écrispe. Tin imera ejavi ce tin epiae ce tin éperre. Posso ti dhori o córacose ce tis ipe: — Cummare, mu dónnite ena morciuci? — De, cumpare; emeste ce cléspete ciola esise, pose ejàvinane egò.
— Ce mu dighite pu eho na pao ciola egò. I alapùda iscere ti asce ‘mèra te puddhese ehi to guardiano , pu tes avlepi me ti scupetta ce toni sparegui ce tu ipe sirma: — Cumpare córacose, elàste medhému.
Posso to porri ascena rumbuli ce tu ipe: — Àscindo spiti éhite na pàite. Ce tu to édisce. O poverose córacose, pose arì’ivespe ’s te puddhese, erifti na piai mia. O guardianose sirma ton ivre ce tu etavri mia scupettata ce espasce to povero córaco. I alapùda, pu ésteche ‘s to affaccio, pose scue ti botta, accumensespe horeguonda horeguonda ce tragudonda ce legonda: — Cànnusi magni festa ‘s to cielo ! cannusi magni festa ‘s to cielo! ca ti o cumparese córacose edharre ti teglionni emména, ma ego etéglioa ecino.
I alapùda emine eci ce emise ode.
Immagini: 1) Wenceslaus Hollar: Fox and Crow, XVII sec.; 2) J.J. Grandville: Le Corbeau et le Renard, Illustrations des Fables de La Fontaine, 1668; 3) Kalila and Dimna, dalle Favole del Bidpai, XIII-XIX sec.
Potrebbe interessarti anche:
Salviamo il Greco di Calabria: un gruppo di giovani di Bova lancia un inedito crowdfunding