L’Archivio Storico della ex Soprintendenza Archeologica della Calabria, gestito con passione dalla dott.sa Silvana Munari (e collaboratori) e collocato nelle stanze di Palazzo Piacentini fin dall’apertura del Museo della Magna Grecia, a Reggio, negli anni ’40 del Novecento, conserva molti documenti inediti relativi al Museo di Crotone, il Civico (1910-1967) prima ancora del Nazionale, aperto nel 1968. Questi riflettono gli avvenimenti principali ma anche le beghe quotidiane, i casi minori della vita dell’Istituto, quelli che tendono a sfuggire all’attenzione degli studiosi.
Tra gli altri manoscritti, si rinviene una lettera dell’insegnante crotonese Raffaele Lucente, membro della Commissione Direttiva del «Museo Civico in Crotone» dal 1912 e suo Direttore Conservatore dal febbraio del 1927, all’allora R. Soprintendente per le Antichità e l’Arte del Bruzio e della Lucania, Edoardo Galli, datata 29 agosto 1933 (figg. 1-2).
Vi si legge la storia recente di un’opera di non straordinario pregio artistico, una pittura ad olio su ardesia, ma di sicuro interesse culturale. Appartenne, infatti, alla chiesetta rurale dedicata alla Madonna di Capo Colonna, sita, al più tardi dal basso Medioevo, all’estremità N-E dell’omonimo promontorio e affidata tradizionalmente alle cure dell’Arcidiacono della Cattedrale.
Vi rimase fino all’ultima ricostruzione del fin lì piccolo e modesto edificio (fig. 3), attuata nel 1897 dal barone Anselmo Berlingieri essendo vescovo Mons. Giuseppe Cavaliere – quella che raddoppiò la lunghezza della navata, creò la facciata odierna, dotò l’edificio, per la prima volta, di un vero e proprio campanile e spostò in avanti i vani di servizio affiancati all’aula di culto (fig. 4), ragione per cui essa merita qualche attenzione.
A metà del XX secolo, però, dopo essere entrato nelle collezioni civiche, il manufatto artistico sembra scomparso senza lasciare traccia né notizia di sé, benché la sua mole non fosse proprio insignificante. L’ardesia (o pietra di Lavagna, con riferimento all’omonimo comune oggi dell’area metropolitana di Genova che, più degli stessi centri della Valfontanabuona dove si concentrano le cave migliori del cosiddetto oro nero di Liguria (fig. 5) ha legato il suo nome a questa roccia metamorfica), è infatti un ottimo supporto, una volta levigata, per opere pittoriche. Assorbe infatti pochissimo il colore, garantendone a lungo intensità e brillantezza.
Utilizzata soprattutto nel Cinque e Seicento, epoca d’oro della pittura su ardesia, per opere a carattere sacro e profano (figg. 6-7), ha tuttavia un peso considerevole, il che limita le dimensioni delle immagini realizzabili su di essa.
Scrive dunque il Lucente:
Il marito di lei, guardiano presso il Barone Luigi Berlingieri, domandò a questi il permesso di poterla tenere in casa: ed analogo permesso domandò al Vescovo pro-tempore Mons. Cavaliere. Diceva la predetta donna che il marito fece dipingere la figura. Da tale narrazione (allora non potetti vedere la pietra), trassi il sospetto che si fosse trattato di una figura a bassorilievo, identificata per un S. Giuseppe, ma che poteva essere una figura pagana. Tentai di vederla, ma trovai resistenza in quella donna, la quale attribuiva virtù protettrici alla immagine, e non la faceva vedere ad alcuno.
Circa un anno fa, penetrai nell’abitazione di lei, un antro, buio: ma non potetti distinguere altro che una superficie nera sotto vetro. Constatai che la lastra di pietra era pesante. Nel lasciarla, ella mi fece solenne promessa che mi avrebbe avvertito per prendere la immagine, appena le sue condizioni di salute fossero state compromesse. “Mi licenzierò dal mio grande protettore!” Così concluse. Difatti, nello scorso luglio, una figlia di lei, Corigliano Antonia, venne a casa mia per avvertirmi che la madre, colpita da un attacco di paralisi, voleva che io avessi ritirata la immagine. Provvidi subito; ed il podestà mandò un agente, e persona adatta, per rilevare e trasportare l’oggetto, che fu introdotto nel Museo.
Potetti osservarlo; finalmente. La pittura è distesa su uno strato di stucco. Vi è fatto qualche risarcimento, ma si notano benissimo i caratteri della pittura primitiva, la quale presenta – a mio giudizio – qualche interesse. La Ristagno morì, due o tre giorni dopo. I figli di lei hanno fatto sapere che intendono essere indennizzati. All’uopo hanno pregato il Barone Melazzo, qui ospite del Bar. Berlingieri, di osservare il dipinto. Egli opina che l’opera sia da attribuirsi ad epoca anteriore al ‘700. Il Marchese Lucifero, nostro Ispettore Onor., ha consigliato i reclamanti di attendere il giudizio di codesto ufficio.
Non sappiamo se gli eredi della Ristagno abbiano effettivamente ricevuto del denaro in cambio della lastra: all’epoca era consueto che il Museo, per conto del Comune e con risorse messe a disposizione da quello, effettuasse acquisti di reperti archeologici e di oggetti d’arte da privati, se ritenuti di qualche interesse per la storia della città.
Sta di fatto che nella relazione inviata al Podestà di Crotone, Giuseppe Cosentino, il 31 dicembre 1933, per dare conto dei lavori di catalogazione e allestimento in corso da ottobre nella ex caserma Sotto Campana del Castello di Carlo V, dove il museo si era trasferito una volta ristrutturata (fig. 8), lasciando la sede primitiva nei locali di Via Risorgimento n. 20, e sarebbe stato inaugurato il 28 ottobre 1934 (contestualmente al Liceo «Pitagora»), Lucente allude anche alla sistemazione della quarta sala, quella dei manufatti post-classici, aggiungendo: “dove già è collocato l’altare ligneo settecentesco, e la pittura secentesca su ardesia”.
L’altare in questione è scomparso anch’esso inspiegabilmente, dopo lo sgombero forzato dei locali del Museo nell’aprile 1940, e forse faceva parte della collezione di Filippo Eugenio Albani (1869-1936) (fig. 9), donata allo Stato nell’ottobre 1933 a condizione che non lasciasse Crotone, che fosse esposta integralmente, e che la sala dedicata portasse il nome del donante. Si trattava di ben 750 pezzi, in parte calabresi in parte acquistati sul mercato antiquario, in terracotta, pietra, metallo e vetro, più lo sconcertante «topo mummificato in pelle» che avrebbe dovuto essere associato al gatto e agli altri «micioli» trovati nelle stesse condizioni e donati in precedenza alla R. Scuola Complementare (poi d’Avviamento), «ricavati dallo sbancamento di Poggioreale», come Lucente ricorda in altra sede.
Lo stesso Lucente menziona il «dipinto secentesco su ardesia» anche nell’articolo scritto per il Giornale d’Italia il 28.02.1934, e la sezione della guida/itinerario del Museo redatta dall’Ispettore archeologo Gennaro Pesce proprio in quei mesi, riveduta e corretta fino al 1939 ma per varie ragioni, mai data alle stampe, non solo cita anch’essa, relativamente alla parete principale della sala D, un «dipinto settecentesco su tavola d’ardesia rappr. S. Giuseppe col Bambino», evidentemente effigiato a figura intera, ma ne riporta anche il numero d’inventario: 2281. Un numero successivo, benché di poche decine, a quel 2238 con cui si esaurisce l’inventario del Museo curato dal Pesce nel 1934 in vista dell’inaugurazione nella nuova sede. E sfugge, al momento, la ragione per cui un pezzo acquisito entro l’agosto 1933, destinato da subito all’esposizione nella sala D, la quarta, riservata agli oggetti post-classici, non sia stato inserito in elenco.
Il Museo fu sgomberato per fare posto alla milizia poco meno di sei anni più tardi, nell’aprile del 1940, come anticipato, trasferendo i materiali delle collezioni civiche nei sotterranei del Liceo, nei magazzini comunali all’interno dell’ex Convento di S. Chiara e presso l’abitazione dell’Ispettore Onorario Arduino Lucifero.
A fine conflitto, quando si trattò di ripristinarlo, dopo la laboriosa uscita degli sfollati dai suoi locali a fine 1949, accontentandosi però di sole due sale riattate alla meno peggio invece delle quattro originali, le operazioni di riscontro della consistenza delle collezioni evidenziarono numerosi ammanchi, mai ufficializzati per la prematura scomparsa, nel giugno del 1959, dell’Ispettore archeologo Salvatore Procopio, che aveva da poco condotto l’operazione insieme al Lucente, intanto sostituito alla Direzione da Angelo Vaccaro.
Si ignora, perciò, se a quella data la lastra d’ardesia e l’altare ligneo fossero ancora presenti. Ci volle il 25 marzo 1968 per rivedere un’esposizione curata e degna dell’importanza dei reperti donati/acquisiti a vario titolo dal 1910 in poi, esposizione che fu allestita nel nuovo edificio del museo, diventato intanto Nazionale e trasferito sul margine esterno del rivellino «Miranda» delle mura urbiche spagnole di Crotone, dopo anni di accesissime polemiche tra la Soprintendenza e i fautori della realizzazione del nuova sede espositiva a Capo Colonna invece che a Crotone.
Capo Colonna, appunto, da dove il dipinto con S. Giuseppe era uscito, con il beneplacito del proprietario di tutta l’estremità est del promontorio, acquistata da Luigi Berlingieri (fig. 10) nel 1868 ed espropriata al nipote Giulio nel 1950 grazie alla famosa «Legge Sila», per essere conservato prima in un basso del quartiere «Pescheria» presso la Ristagno, poi nel Museo Civico, e quindi scomparire in circostanze ignote.
Una perdita non irrilevante, che si aggiunge a quella degli ex voto lasciati per secoli da chi aveva ricevuto grazie dalla Madonna di Capo Colonna (marinai e non solo) – lo stesso accadde in città, sempre sullo scorcio dell’Ottocento, quando fu ristrutturata la cappella della in Cattedrale -, rendendo quanto mai evanescente quella devozione nei confronti di sant’Anna, madre della Vergine, e di san Giuseppe, suo sposo, testimoniata dagli altari dedicati all’una e all’altro che un tempo si aggiungevano al maggiore nel piccolo santuario sul Lacinio e da pochissimi altri elementi, compreso il gustosissimo resoconto de La festa di Sant’Anna a Capo delle Colonne nel 1891 pubblicato da F. Pulci [1].
Era stato Anselmo Berlingieri, testimonia Don Beniamino De Mayda, ad innalzare nel 1882 l’altare marmoreo centrale, donato da Gabrielina Berlingieri, vedova Albani (fig. 11), oggi murato a sinistra dell’ingresso, e i due minori sotto i quadri di sant’Anna e san Giuseppe, già disposti sui lati lunghi dell’aula e dotati, teste la pregressa relazione della visita vescovile del 1839, l’uno di una «statua in buono stato», evidentemente poi sostituita da un dipinto, e l’altro di una «avanticona di Drappo».
È molto probabile, benché non possa essere dimostrato, che l’immagine sacra nascosta alla vista da un’apposita tela, come imposto della tradizione cristiana nei secoli scorsi, fosse proprio quella che Lucente si premurò, con lo zelo consueto, di ‘braccare’ e poi assicurare al Museo Civico.
E tuttavia, benché scampato fortunosamente alla demolizione del 1897, la sorte del manufatto era comunque segnata.
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Note:
[1] La trascrizione del testo è nel volume M. Corrado, Capo Colonna. Luci e ombre dal Medioevo al XX secolo, Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria 2012. * Margherita Corrado, calabrese, è nata a Crotone nel 1969. Si è laureata in Lettere Classiche (indirizzo archeologico) presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e specializzata presso la Scuola di Specializzazione in Archeologia di Matera. Romanista di formazione, ha prestissimo orientato i propri interessi verso l’età post-classica, con particolare riferimento all’alto Medioevo di marca bizantina. Dopo un lungo tirocinio nel volontariato archeologico, dal 1996 lavora come collaboratrice esterna per la Soprintendenza Archeologica della Calabria.