di Redazione FdS
È arrivato sugli scaffali natalizi delle librerie, on line e off line, il nuovo libro della giornalista Adele Filice, strenua promotrice dei territori e delle tradizioni calabresi, nonché membro della Accademia delle tradizioni enogastronomiche di Calabria. Si tratta del volume Di Terre e Tavole. Il gusto della Memoria (Rossini Editore, 14.24 euro), un lavoro che ha l’inconsueto dono di un’atipicità in grado di stuzzicare molteplici interessi del lettore, offrendosi quale punto di partenza per una serie di approfondimenti che egli può condurre in piena autonomia esplorando nuove fonti sui temi trattati; mentre, se si guarda al testo dal punto di vista dell’Autrice, lo si vede assumere i connotati, non meno stimolanti, di una serie di fecondi appunti – dotati peraltro di una loro compiutezza narrativa – utili a far da spunto di ipotetici scritti futuri volti a sviluppare alcuni dei temi via via emersi.
Di terre e tavole racconta infatti momenti dell’infanzia dell’Autrice, ma non è un’autobiografia; menziona gustosi piatti della tradizione gastronomica calabrese e i loro ingredienti, ma non è un libro di ricette; evoca suoni arcaici del dialetto calabrese, ma non è un trattatello di linguistica; riflette sul rapporto fra l’uomo contemporaneo e la terra, ma non è un saggio di carattere sociologico. Come lo si potrebbe dunque definire? Ebbene, può dirsi che questo lavoro abbia il carattere di un flusso di coscienza dal quale il vissuto dell’Autrice, fiera della propria ascendenza contadina, riaffiora con il suo bagaglio di emozioni, sentimenti, passioni, sensazioni, resi vividi da un’abilità descrittiva di prim’ordine che, a tratti, conferisce spiccata e coinvolgente fisicità sensoriale ai vari elementi della narrazione. Il tutto peraltro senza quella casualità disarticolata che spesso caratterizza i flash mnemonici, ma organizzato secondo il cadenzato ritmo delle stagioni che, oltre a caratterizzare la sequenza annuale del lavoro agricolo, si fa metafora della vita stessa col suo cumulo – non sempre appagante – di semine, coltivazioni, maturazioni, raccolti.
In questo testo però la valenza metaforica delle stagioni è solo un elemento secondario del racconto, viceversa incentrato su un’evocazione fortemente materica – oseremmo dire tattile, olfattiva e gustativa – del lavoro agricolo e dei suoi frutti, imprescindibili elementi della nostra stessa esistenza materiale ma anche prezioso banco di prova in cui trova espressione il talento creativo dell’uomo nel modellare il paesaggio e nel trasformare le materie prime in gastronomia. Si può dunque dire, in estrema sintesi, che l’Autrice – sostenuta da un profondo moto affettivo verso persone, luoghi e situazioni che hanno segnato la sua infanzia e adolescenza – abbia ‘interrogato’ la propria memoria per rendere omaggio al lavoro contadino e ai valori di un mondo che – prima del processo di industrializzazione che, ormai da decenni, lo ha in larga parte investito e snaturato – ha rappresentato, ed oggi torna timidamente a rappresentare, il baluardo di un modus vivendi et laborandi in maggiore equilibrio con quella Natura di cui l’uomo è parte integrante.
A rendere particolarmente godibile la narrazione – spesso quasi cinematografica, tra visioni di ambiente e di cucina – è il fatto che tali argomenti vengano trattati dall’Autrice fondendo insieme, con delicato lirismo e raffinato gusto impressionistico, la concretezza e, a tratti, la durezza della vita contadina – intessuta delle rigide regole di un lavoro che non di rado prende il sopravvento su tutto il resto – con una visione della stessa sublimata dal filtro delle memorie giovanili. Questo fa sì che la consueta linearità del racconto e i binari di un tempo oggettivo lascino spesso spazio ai ritmi di un tempo interiore – del quale il lettore diventa emotivamente compartecipe -, un tempo slegato da quello effettivo e misurabile, senza peraltro che l’Autrice si abbandoni ad una visione meramente mitica e romantica del rapporto dell’uomo con la terra. Infatti negli spazi di riflessione che inframezzano il flusso dei ricordi personali, Adele Filice si mostra pienamente consapevole di quanto il lavoro agricolo sia impegnativo e di quanto esso – esponendo l’agricoltore alla precarietà dei risultati – rappresenti una sfida contro le intemperanze del clima (rese ancor più imprevedibili dai mutamenti in atto); cionondimeno appare profondamente convinta del fatto che nella riscoperta del primigenio rapporto con la terra – purché condotto al di fuori delle logiche devianti della produzione intensiva – risieda la chiave per il recupero di un irrinunciabile equilibrio da troppo tempo smarrito, in poche parole per un ritorno dell’uomo alla sua più autentica essenza.
Il flusso proustiano delle memorie personali e familiari si fa quindi occasione per una più generale riflessione sui destini dell’umanità in una terra da troppo tempo concepita più come un bacino di risorse, erroneamente ritenute inesauribili, che come un delicatissimo ingranaggio, fatto di pesi e contrappesi, di cui l’uomo è parte determinante ma troppo spesso inaffidabile custode. L’auspicio dell’Autrice è quindi quello, di un progressivo ritorno alla terra in cui però l’uomo, dismessi i panni del depredatore, riesca a recuperare una visione del lavoro agricolo e dei suoi frutti, indispensabili per la propria sopravvivenza, come altrettanti atti ‘creativi’ e non strumenti ed oggetti di una mercificazione che ne mortifica il reale valore.
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