di Redazione FdS
Martin Scorsese lo ha definito “uno dei grandi maestri del cinema contemporaneo” e in effetti la sua cinematografia ha fatto scuola grazie alla capacità di guardare alla realtà con sguardo lucido, con una forza e una concretezza espressiva alimentate dal rigore della ricerca e dalla scrupolosità con cui concepiva le sue sceneggiature. Parliamo del regista napoletano Francesco Rosi, scomparso a gennaio scorso a 92 anni, un artista che il Bif&st – Bari International Film Festival ha voluto omaggiare con una apposita sezione di appuntamenti intitolata Tributo a Francesco Rosi ed un’ampia retrospettiva di pellicole che in questi giorni ampio successo sta riscuotendo fra il pubblico del Festival.
Fra le occasioni offerte dal Bif&st per ricordare la sua figura, una delle più interessanti è stata quella della presentazione del libro di Michel Ciment, uno dei massimi critici cinematografici europei, che al regista italiano ha dedicato il volume “Dossier Rosi” uscito già anni fa e ristampato con aggiornamenti dalla casa editrice Il Castoro. A parlare del libro e di Francesco Rosi, in un incontro moderato da Angela Bianca Saponari, c’erano lo stesso Autore e Massimo Ghini, attore romano che ha lavorato con Rosi in anni recenti oltre ad aver instaurato con lui un rapporto di profonda amicizia. In sala anche la figlia del regista, Carolina Rosi.
“Mi sono occupato molto di Rosi – dice Michel Ciment – per individuare con chiarezza il suo posto nella storia del cinema. Quando a 23 anni ebbi l’occasione di vedere il suo film Salvatore Giuliano fu un vero choc culturale che mi fece innamorare di questo regista. Considero Rosi l’erede di due grandi cineasti italiani: il suo maestro Luchino Visconti, per il senso estetico, e Roberto Rossellini per il realismo. Una delle sue più grandi qualità personali come regista fu quella di sollevare, nelle storie che narrava, tutta una serie di interrogativi ai quali non pretendeva di dare alcuna risposta. Il suo cinema era rivolto a fornire degli spunti di riflessione e in tal senso credo di poter dire che è stato un grande analista politico-cinematografico, ma anche un poeta ed un metafisico (non a caso il tema della morte compare in tutti i suoi film). Da questi presupposti, ben evidenziati dall’Autore, è dunque nato il ”Dossier Rosi” che si offre al lettore come una straordinaria raccolta di saggi critici, conversazioni personali, interviste, documenti d’epoca, diversi dei quali inediti, ed un ricchissimo apparato iconografico: un insieme di elementi che vanno a comporre il mosaico del genio di Francesco Rosi, dagli esordi fino ai film più recenti.
Per Ciment l’icontro barese è stata un’occasione per apprendere da Felice Laudadio, direttore artistico del Bif&st, che un film-documentario dedicato a Rosi dal titolo ”Francesco Rosi: cronaca di un film annunciato”, diretto da Christine Lipinska, da lui citato pochi minuti prima nel corso dell’incontro e considerato perduto dalla casa produttrice francese Gaumont, si trova in realtà negli archivi della Rai che non ha avuto modo di trasmetterlo per problemi di diritti.
Oltre alle testimonianze di Ciment, preziosa anche quella dell’attore Massimo Ghini fra i protagonisti de “La tregua” (1997), ultimo film diretto da Francesco Rosi: “trovo che il titolo del libro di Ciment, Dossier Rosi, sia fortemente azzeccato perchè rispecchia una delle principali caratteristiche dell’arte di Rosi, ossia la documentazione rigorosa su cui basava le sue sceneggiature. Io ho avuto il privilegio di lavorare con lui nel film ‘La tregua’ tratto dal romanzo omonimo di Primo Levi, un film realizzato fra tante difficoltà, ma portato a termine senza rinunciare al rispetto delle ‘regole’, alla precisione per non dire al rigore che hanno sempre guidato Rosi nel suo lavoro. Del resto lui veniva da una scuola di cinema rigorosa, che non ammetteva compromessi. Questo ovviamente portava Rosi a poter risultare un regista “faticoso” per i suoi collaboratori, ma da una esperienza con lui non si poteva che uscire arricchiti. Su di me ha avuto influenza ancor prima di conoscerlo perchè fu dopo la visione del film Il Caso Mattei (1972) ch’io decisi di voler fare l’attore. Il caso ha poi voluto che io stesso interpretassi la storia di Mattei 30 anni dopo per la televisione e fu per me una grande gratificazione ricevere i complimenti del maestro Rosi. Trovo importante sottolineare come il suo cinema sia stato un modello ispiratore per registi d’oltreoceano come Scorsese o Coppola e in generale per tutta la ”nouvelle vague” americana.”
“Effettivamente – sottolinea Ciment – Rosi ha avuto molta influenza sul cinema americano…ma anche su quello italiano. Ad esempio penso che in Italia Matteo Garrone possa considerarsi un regista sulla sua scia. Su questo punto del legame fra vecchie e nuove generazioni di registi italiani, sento però di dire che nel cinema di questo Paese c’è stata una fase ”parricida” alquanto deleteria: penso al libro di Goffredo Fofi dal quale si evince una volontà di ”cassare” tutti i grandi padri del cinema italiano. Trovo che questo sia un grave errore perchè l’arte si nutre anche del proprio albero genealogico. Fra gli americani che invece hanno guardato al cinema di Rosi mi viene in mente soprattutto l’Oliver Stone del film su Nixon, mentre il Michael Cimino de ”Il Siciliano” dimostrò al contrario di non aver capito nulla di Rosi. D’altro canto trovo che il cinema americano abbia il più delle volte un metodo diverso da quello di Rosi: in una storia come il caso Mattei, agli americano sarebbe interessato soprattutto rispondere alla domanda “chi è l’assassino di Mattei”, mentre per Rosi è molto più importante far capire le implicazioni politiche, sociali ed economiche della morte di Mattei. Approccio riscontrabile anche in “Salvatore Giuliano”, film che Leonardo Sciascia considerava il più grande film mai girato sulla Sicilia”.
Cosa resta oggi della lezione di Francesco Rosi? “E’ una lezione ancora validissima per chi fa cinema e a tal proposito – dice Ciment – credo non ci sia testo migliore sulla sua cinematografia che continuare a mostrare e a vedere i suoi film. Mani sulla città, ad esempio, è estremamente contemporaneo e in generale si può dire che tutta la sua opera sia estremamente moderna. Quello di Rosi è un cinema che non invecchia, diversamente da ciò che accade per i film che si limitano a lasciarsi ispirare dai titoli di giornale. Pensando ai film di Rosi mi viene da dire che se è vero che i film non cambiano il mondo, è anche vero che senza alcuni film, il mondo sarebbe peggiore di quello che è. Io salverei tutta la filmografia di Rosi, ma se proprio fossi costretto a scegliere, sceglierei La Sfida, Cristo si è fermato ad Eboli, Cadaveri Eccellenti, Il caso Mattei e I Magliari. Purtroppo c’è da dire che, al di là di quella che rimane la lezione di Rosi, il cinema italiano è oggi troppo dipendente dal monopolio televisivo, con frequenti fenomeni di autocensura. Spesso in Italia si racconta senza coraggio…e in genere manca l’epicità del racconto, che fa la differenza. Forse gli unici che si muovono un po’ sulla scia di Rosi sono Garrone, come dicevo prima, e Marco Tullio Giordana.”
Il micrfofono torna infine a Massimo Ghini che conclude il suo ricordo di Rosi con un gustoso aneddoto legato alla golosità del Maestro: “Forse in pochi sanno che Rosi era molto goloso. Ne ebbi conferma durante la lavorazione de “La tregua” quando mi arrivarono sul set da mia suocera, spedite da Salerno, due sublimi pastiere. Io andai nel camerino di Rosi, bussai, annunciai l’arrivo le pastiere, lui aprì la porta, ne afferrò una e si rinchiuse dentro. In quel divertente momento ho visto nei suoi occhi tutto il suo profondo legame con Napoli, la sua città, e le sue tradizioni”.
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