L’edificio, incastonato nel selvaggio paesaggio gallurese di Costa Paradiso, fu realizzato nel ’71 con tecnica innovativa e forma avveniristica dal geniale architetto Dante Bini. Già buen retiro del regista ferrarese e della sua musa, oggi è di proprietà privata e giace in stato di abbandono. Le iniziative per un recupero
di Redazione FdS
C’è un luogo in Sardegna, nella parte occidentale della Gallura, dove tra il verde lussureggiante della macchia mediterranea, lungo un pendio che guarda a un mare smeraldino costellato di rocce di granito rosa, si staglia una costruzione che sembra un incrocio tra un bunker militare dell’ultima guerra e un’astronave aliena. In realtà quando fu concepita, tra il 1968 e il 1971 – prima quindi che il calcestruzzo in cui è modellata manifestasse gli attuali segni di degrado – la villa voluta a Costa Paradiso dal grande regista ferrarese Michelangelo Antonioni si presentava come un elemento del paesaggio naturale grazie all’impasto di intonaco e rosei cristalli di roccia locale che ne rivestiva l’esterno, tocco finale di un progetto ancora oggi considerato tra gli esempi più originali e innovativi dell’architettura contemporanea.
Fu realizzato dal geniale architetto emiliano Dante Bini, uno dei più autorevoli del ‘900, con una soluzione tecnica che, avendo un impatto ambientale ridotto di un terzo rispetto a quelle tradizionali, ha dato vita a uno dei primi esempi di moderna architettura sostenibile. L’edificio, a forma di cupola, nasce infatti da un’unica colata di cemento sollevata dall’interno grazie alla pressione dell’aria, operazione seguita dal taglio delle aperture desiderate una volta che il materiale si è solidificato: si tratta della Binishell, tecnica ancor oggi studiata nelle facoltà di architettura e già impiegata nella costruzione di oltre 1.500 edifici in tutto il mondo.
Antonioni – già noto e apprezzato innovatore della cinematografia nazionale che aveva introdotto ai moderni temi dell’incomunicabilità, dell’alienazione e del disagio esistenziale – aveva conosciuto Bini nel 1968 grazie a Monica Vitti, straordinaria interprete del cinema italiano, sua musa nonché a quel tempo anche compagna nella vita. L’attrice aveva incontrato l’architetto poco tempo prima durante una vacanza a Cortina d’Ampezzo e Bini l’aveva a tal punto entusiasmata descrivendole il suo geniale brevetto, nato da un’intuizione avuta nel 1963, da decidersi a parlarne subito con Antonioni intenzionato a costruire un loro privatissimo nido d’amore in Sardegna. I due artisti erano infatti rimasti entrambi profondamente affascinati dalla sua arcaica bellezza durante la lavorazione del film Deserto Rosso (Leone d’Oro a Venezia nel 1964), alcune sequenze del quale erano state girate sulla magica isola di Budelli, celebre per la sua spiaggia rosa [nel video seguente, in inglese, l’arch. Nicolò Bini parla della tecnica ideata da suo padre Dante].
La pellicola arrivava dopo opere come Cronaca di un amore (1950), lungometraggio che secondo i critici cinematografici segnò la fine del neorealismo e la nascita di una nuova stagione del cinema italiano, L’avventura, La notte e L’eclisse, titoli della sua celebre “trilogia dell’incomunicabilità” (1960-62), conquistando quell’attenzione internazionale poi consolidatasi grazie a lavori successivi come Blow-up (1966), Zabriskie Point (1970) e Professione:reporter (1975), che valsero ad Antonioni premi nei Festival più prestigiosi. Nel 1964 (anno di Deserto Rosso) l’isoletta di Budelli apparteneva a Pierino Tizzoni, imprenditore edile di talento che sognava di creare in qualche zona selvaggia della Sardegna un’oasi semplice e riservata per ospiti d’élite da contrapporre alla mondana Costa Smeralda sorta pochi anni prima su iniziativa del principe Aga Kahn. Scelse così in Gallura quella che i pastori locali chiamavano “terra niedda”, ovvero ‘terra inutile’, perché considerata troppo impervia e appartata, e la ribattezzò Costa Paradiso. Acquistati i terreni, ne regalò uno al suo amico Michelangelo Antonioni che, insieme alla Vitti, sognava un rifugio immerso nella natura sarda, lontano dai riflettori. La Vitti parlò di Bini e della sua tecnica rivoluzionaria al regista che incaricò subito l’architetto della progettazione.
L’idea messa in campo fu dunque quella non di un’abitazione tradizionale ma di una “scultura spaziale e sensoriale”; la prospettiva inoltre di un suo possibile utilizzo cinematografico indusse ancor più Antonioni a partecipare attivamente alla progettazione, per la quale furono privilegiati i modellini tridimensionali. Ne nacque così nel 1971 una casa-conchiglia in stretto rapporto con l’ambiente circostante, dotata di 5 stanze e 4 bagni su due livelli comunicanti tramite una scala curvilinea di conci irregolari di granito affacciata sul soggiorno in cui si conservano ancora gli arredi originari.
Tra le stanze più suggestive la camera da letto padronale, col letto posizionato di fronte a una finestra con vista sul mare e sul tramonto. Due sentieri ricavati nella roccia e immersi in una natura selvaggia scendono dalla villa fino al mare passando per un piccolo stagno, dei torrenti e un piccolo fiordo.
Accanto all’abitazione della celebre coppia, Bini realizzò una cupola più piccola (oggi trasformata in un B&B) di proprietà del pittore Sergio Vacchi che insieme ad altre importanti personalità, come Tonino Guerra, Andrej Tarkovskij, Macha Méril, frequentò casa Antonioni-Vitti. La Cupola, ubicata nel territorio di Trinità d’Agultu (Sassari), fu abitata dai due artisti fino alla fine della loro relazione e dalla sola Monica Vitti per un altro breve periodo, per poi essere venduta. Passata negli anni per le mani di vari proprietari, non è stata mai ristrutturata per cui la casa versa oggi in stato di abbandono, esposta com’è agli agenti atmosferici e al vandalismo.
Da più parti stanno nascendo iniziative per salvare quella che nel 2014 l’olandese Rem Koolhass, architetto tra i più noti sulla scena internazionale e curatore della XIV Biennale di Architettura di Venezia, ha definito “una delle migliori architetture degli ultimi cento anni”, attestandone il grande interesse dal punto di vista architettonico, ingegneristico e paesaggistico. Nel 2015, attraverso la Soprintendenza della provincia di Sassari e Nuoro, il Ministero dei Beni Culturali, l’ha sottoposta a vincolo di salvaguardia riconoscendone il notevole interesse culturale. Nel 2016 il regista tedesco Volker Sattel ha realizzato il documentario “La Cupola” [v. trailer nel video seguente] proiettato in rassegne cinematografiche in tutto il mondo, attirando l’attenzione della stampa internazionale che più volte ha stigmatizzato lo stato precario in cui versa.
Eppure sono migliaia gli italiani e gli stranieri che ogni anno si recano sul posto nel tentativo di vederla, ma attualmente è chiusa e inagibile. Nel 2020 sulla piattaforma Change.org l’associazione De Rebus Sardois ha lanciato una petizione rivolta alla Soprintendenza, alla Regione e al Fai per invocare il recupero della villa; a questa iniziativa ha fatto seguito la candidatura della villa nel censimento dei Luoghi del Cuore del FAI, al fine di mantenere accesi i riflettori su un bene culturale di rilevanza internazionale. La soluzione chiave – come dichiarato da Monica Scanu, presidente regionale del Fondo per l’Ambiente Italiano, e dal soprintendente Bruno Billeci – è quella di sollecitare la sensibilità degli attuali proprietari affinché si rendano disponibili a definire insieme una strategia di recupero diventato ormai sempre più urgente. Lo status di proprietà privata della villa impedisce infatti alla Soprintendenza di intervenire materialmente col restauro, consentendole solo di difendere il vincolo imposto e di approvare o respingere eventuali progetti di restauro presentati dalla proprietà. Quindi un restauro curato da altri, come ad es. il FAI, va comunque concertato con i proprietari. L’altra possibilità sarebbe che le amministrazioni locali chiedessero ai proprietari di acquisire la struttura ai fini di valorizzarla in chiave turistico-culturale. Qualunque sarà la strategia, tutti gli attuali promotori del recupero sono concordi nel ritenere che la Cupola debba diventare un luogo di visita e uno spazio espositivo.
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