di Alessandro Novoli
Antonio Iavarone, campano di Montesarchio (Benevento) e Anna Lasorella, pugliese di Noicattaro (Bari) sono due delle punte di diamante della ricerca scientifica internazionale di matrice italiana che da anni operano sul difficile fronte della lotta ai tumori, in particolare alcuni fra i più temibili come quelli al cervello. Lui professore di Neurologia e Patologia all’Institute for Cancer Genetics della Columbia University Medical School di New York; lei, pediatra e docente di Biologia e Patologia Cellulare presso lo stesso istituto universitario. Una coppia sul lavoro e nella vita privata. Dal 2000 sono diventati l’emblema di tutti quei giovani ricercatori vittime di ignobili forme di vessazione nell’ambiente universitario italiano che, come confermato da recenti cronache, è spesso dominato dal demone del nepotismo più spietato: loro hanno scelto di ribellarsi, di denunciare, pagando il prezzo di un esilio all’estero dove però la loro professionalità e competenza vengono valorizzate al più alto grado. Non è la prima volta che ce ne occupiamo: iniziammo col raccontarvi la loro scoperta di una molecola anomala presente in una significativa percentuale di glioblastomi (la forma più aggressiva e letale di tumori cerebrali che colpisce individui di ogni età, ma più frequente tra i 45 e i 70 anni) prodotta dalla fusione patologica di 2 proteine che agisce sul tumore come una droga, rendendolo dipendente dalla sua presenza continua e costante: un ingranaggio patologico ma al tempo stesso un potenziale bersaglio per colpire al cuore il tumore, bloccandone la crescita. Nel 2015 è stata poi la volta di un’altra importante scoperta, ossia l’individuazione del meccanismo che favorisce lo sviluppo delle cellule staminali tumorali del glioblastoma, ossia di quelle cellule che, in anomale condizioni, danno inizio al tumore cerebrale, ne favoriscono la crescita generando nuove cellule e resistono a terapie di forte impatto come radioterapia e chemioterapia permettendo la riformazione del tumore.
LA NUOVA SCOPERTA
Il 2018, per i due scienziati e per il team, quasi tutto italiano, da essi capeggiato, si è aperto all’insegna di una nuova straordinaria scoperta che, muovendo sempre dallo studio dei glioblastomi, promette di avere ricadute positive su tutta una serie di altri tumori. Si tratta di uno sviluppo della prima scoperta sopra menzionata, risalente al 2012, quando Iavarone e Lasorella rilevarono la presenza nel 3% dei glioblastomi di una proteina nata dalla fusione patologica di due proteine chiamate FGFR3-TACC3. Essi notarono che la molecola di fusione agiva come una sorta di ‘droga’ capace di scatenare il tumore e di alimentarlo rendendolo del tutto dipendente. Oltre che nel glioblastoma, se ne sospettò la presenza anche in altre forme di tumore. E infatti a distanza di 5 anni si è finalmente accertato come “questa fusione genica sia una delle più frequenti nelle varie forme di tumore” – oltre che nel glioblastoma, l’anomalia è stata riscontrata anche in una serie di ulteriori tumori umani come il carcinoma del polmone, dell’esofago, della vescica, della mammella, della cervice uterina, della testa e del collo, tumori che colpiscono ogni anno migliaia di persone – e se ne è compreso il meccanismo di azione.
A rivelarlo è lo studio “A metabolic function of FGFR3-TACC3 gene fusions in cancer” pubblicato nei giorni scorsi sulla prestigiosa rivista scientifica Nature dal team della Columbia University di New York guidato da Antonio Iavarone e Anna Lasorella, di cui hanno fatto parte, accanto a diversi colleghi stranieri, il bionformatico Michele Ceccarelli dell’Istituto Biogem di Ariano Irpino e i ricercatori Stefano Pagnotta, Luciano Garofano e Luigi Cerulo, attivi fra l’università statunitense e quella del Sannio, con sede a Benevento. In particolare, lo studio ha permesso di stabilire come la proteina di fusione sia legata al funzionamento delle centraline energetiche delle cellule, i mitocondri, servendosi dei quali essa agisce come un ‘generatore di energia’ dei tumori, una sorta di alimentatore da cui dipendono per ‘ricaricarsi’. La super-proteina in altri termini interviene ad aumentare numero e attività dei mitocondri, finendo così col fornire al cancro un surplus di energia che consente il moltiplicarsi e il diffondersi incontrollato delle cellule malate.
UN MECCANISMO ‘DEVIATO’
La super-proteina FGFR3-TACC3 comincia con attivare una proteina chiamata PIN4 che raggiunge piccoli organelli cellulari detti perossisomi, il cui coinvolgimento nel processo tumorale è una delle nuove acquisizioni di questa ricerca. Normalmente i perossisomi metabolizzano grassi e producono carburante per l’attività mitocondriale, ma dopo l’attivazione di PIN4, il loro numero aumenta di 4-5 volte. Al tempo stesso aumenta la loro attività metabolica che produce accumulo di sostanze ossidanti nella cellula. Queste sostanze vanno a stimolare la produzione di PGC1-alfa, fattore fondamentale per il metabolismo mitocondriale, che a sua volta stimola in maniera incontrollata l’attività dei mitocondri e la produzione di energia. Questa iperattività mitocondriale è dunque il punto centrale della scoperta perché suggerisce come riuscire ad incidere sulle fonti energetiche cellulari sia lo strumento-chiave per colpire il tumore: “in esperimenti su cellule tumorali in coltura ed in modelli animali di glioblastoma generati da FGFR3-TACC3 – ha spiegato la professoressa Anna Lasorella – il trattamento con gli inibitori del metabolismo mitocondriale ha interrotto la produzione di energia e fermato la crescita tumorale”.
PROSPETTIVE TERAPEUTICHE
Presso la Columbia University di New York sono state infatti compiute prove di laboratorio utilizzando farmaci già esistenti rivelatisi in grado di ridurre l’attività dei mitocondri senza compromettere le cellule sane, fino a bloccare la crescita dei tumori umani coltivati in laboratorio oppure attivati strumentalmente nelle cavie.“Questa ricerca – ha aggiunto Iavarone – ci ha permesso di comprendere come FGFR3-TACC3 induca e perpetui i tumori maligni; di conseguenza possiamo sfruttare i nuovi obiettivi terapeutici in una cura sempre più personalizzata del cancro”. Un risultato al quale hanno mirato le prime sperimentazioni sull’uomo di farmaci (detti farmaci-bersaglio) in grado di bloccare la fusione genica già partite in Francia presso lo storico ospedale Pitié Salpêtrière di Parigi dopo gli esiti positivi ottenuti nei laboratori newyorkesi (si notò che farmaci bloccanti direttamente l’attività enzimatica della fusione genica FGFR3-TACC3 producono un aumento della sopravvivenza dei topi affetti da glioblastoma). Ora però la prospettiva di lotta si è ampliata, ritenendosi che la combinazione di farmaci che inibiscono sia l’attività mitocondriale sia quella enzimatica di FGFR3-TACC3, possa risultare ancora più efficace nel trattamento dei tumori che contengono l’anomala super-proteina, producendo risultati terapeutici più stabili: una ipotesi che ora è in corso di verifica nei laboratori della Columbia University.
UN CENTRO DI ECCELLENZA AL SUD: LA PROPOSTA (INASCOLTATA) DI IAVARONE
La notizia di questo ulteriore successo scientifico di Iavarone e Lasorella offre l’occasione per ricordare come lo scienziato campano, in tanti anni di andirivieni fra Stati Uniti e Italia, forte degli importanti risultati conseguiti sul campo, abbia tentato più volte di sollecitare la formazione di un centro di eccellenza nel Sud Italia per la ricerca sui tumori o quanto meno il coinvolgimento di istituzioni meridionali in studi clinici di carattere internazionale. Un modo per riparare a una evidente lacuna nella mappa nazionale dei più importanti presidi attivi in questo difficile settore della ricerca medica. Obiettivo per il quale lo scienziato ha ingaggiato veri e propri tour de force fatti di molteplici incontri con rappresentanti delle istituzioni, rivelatisi però del tutto sordi alla sua pur autorevole sollecitazione. Più in generale, nei vari incontri pubblici ai quali ha partecipato, Iavarone non ha mai perso occasione per sottolineare lo stato in cui versa la ricerca scientifica nel nostro Paese con studiosi costretti spesso a trasferirsi all’estero per la mancanza di centri di ricerca capaci di competere a livello internazionale, ambito nel quale al contrario si susseguono scoperte e successi che aprono nuove speranze nella cura dei tumori. Se dunque da una parte scienziati formatisi, come Iavarone, nelle università italiane riescono a farsi apprezzare all’estero per la loro competenza e genialità, persiste in essi sempre l’amarezza per un’Italia la cui ricerca non riesce a stare al passo coi risultati conseguiti da altri paesi, e ciò sia sia per l’esiguità degli investimenti sia per le modalità, spesso discutibili, della loro gestione.