Da tempio pagano dedicato a Giove, Giunone e Minerva, a chiesa cristiana intitolata al martire Procolo. Un accurato restauro ha messo in luce l’edificio più antico. Tre tele di Artemisia Gentileschi ne fanno la prima chiesa ampiamente decorata da una donna artista
di Redazione FdS
Dalla greca Dicearchia fondata nel VI sec. a.C. da coloni di Samo, alla Fistelia sannita del V sec. a.C., fino alla colonia romana di Puteoli instaurata nel 194 a.C., la storia di Pozzuoli – nell’antichità strategico porto di Roma aperto al Mediterraneo e oggi comune conurbato con la città di Napoli – è l’espressione di una complessa stratificazione di popoli e culture che in buona parte troviamo rappresentata nel principale edificio religioso della città, la Basilica Cattedrale di S. Procolo martire. Ubicata sull’altura del Rione Terra – già acropoli della città greca, capitolium di quella romana e oggi cuore archeologico di Pozzuoli – la chiesa ha un’incredibile storia oscillante tra splendori e degrado ambientata in una delle zone geologicamente più instabili del Golfo di Napoli ossia l’area vulcanica dei Campi Flegrei, notoriamente esposta al bradisismo ossia al fenomeno di sollevamento e abbassamento del suolo legato a sotterranee attività magmatiche e alle correlate variazioni di pressione.
DA TEMPIO PAGANO A CHIESA CRISTIANA
Si ritiene che l’altura sulla quale sorge l’edificio – ben visibile da diversi punti dei Campi Flegrei per la particolare posizione a ridosso del mare -, fosse destinata al culto fin dalla più remota antichità greca e sannitica, con la presenza di un edificio recuperato dai Romani in età repubblicana e ricostruito in età augustea dal ricco mercante Lucio Calpurnio in onore dell’imperatore. Come si può vedere nella seguente ricostruzione artistica settecentesca (foto 2), il tempio – intitolato alla Triade Capitolina – era uno pseudoperiptero esastilo, con nove colonne scanalate sui lati lunghi, di ordine corinzio, con due rampe laterali ascendenti al basamento del pronao e una cella quadrata costruita con blocchi di marmo bianco, assemblati senza l’impiego di malta.
Tra la fine del V e gli inizi del VI secolo il tempio augusteo di Pozzuoli fu adattato a chiesa cristiana dagli abitanti che vollero intitolarla al santo patrono Procolo. Conservatasi per oltre un millennio, purtroppo subì gravi danni nel 1538 a seguito della nascita del Monte Nuovo, un vulcano comparso all’improvviso nei dintorni dopo lo sprofondamento del villaggio medievale di Tripergole, ma nell’arco di pochi anni fu fatta restaurare dal vescovo Gian Matteo Castaldo (nella foto 3 la chiesa segnalata in un’incisione del 1620).
L’EDIFICIO BAROCCO
Con l’avvento del secolo successivo, quell’antico edificio divenne un tutt’uno con l’odierna chiesa voluta nel 1632, secondo i canoni della Controriforma, dal vescovo spagnolo Martín de León y Cárdenas, sulla base di una scelta costruttiva che ritroviamo visibilmente anche nella Basilica di S. Paolo Maggiore a Napoli, sorta sui resti del tempio dei Dioscuri, e nel Duomo di Siracusa, edificato sul tempio di Atena. Con la creazione della chiesa barocca di Pozzuoli, l’antico tempio romano finì però inglobato sotto decori e stucchi. Il progetto fu affidato all’architetto Bartolomeo Picchiatti col quale collaborò il collega e scultore Cosimo Fanzago. L’apertura della parete nord del tempio romano consentì la realizzazione di un coro collegato con una sala capitolare sulle cui pareti campeggiano gli affreschi raffiguranti tutti i vescovi di Pozzuoli fino al 1732. All’incirca agli stessi anni risale anche la costruzione di un campanile poi demolito nel 1968 per problemi statici. Fu inoltre realizzata una cappella dedicata al SS. Sacramento sovrastata all’esterno da una cupola maiolicata impreziosita all’interno da marmi e affreschi con i quattro Evangelisti.
Completavano il quadro un altare in marmi policromi e un ciborio riccamente decorato con pietre dure, purtroppo entrambi andati perduti, e il ricco corredo di dipinti commissionato ad alcuni noti artisti dell’epoca come Giovanni Lanfranco, Massimo Stanzione, Paolo Finoglio, Cesare Fracanzano, Francesco Fracanzano, Agostino Beltrano, Onofrio Giannone e quella che è considerata una delle più grandi artiste italiane di tutti i tempi, la romana Artemisia Gentileschi (foto 4).
LE TELE DI ARTEMISIA
Esempio di donna che lottò per la propria indipendenza cercando di affermarsi all’interno del mondo dell’arte, al tempo dominato da figure maschili, alla fine del 1629 Artemisia (foto 6) si trasferì a Napoli, capitale del vicereame spagnolo, seconda metropoli europea per popolazione dopo Parigi, nonché città animata da un ambiente culturale di prim’ordine: condizioni ideali per un crescente successo. L’artista vi era arrivata dopo 18 anni dal celebre e drammatico episodio dello stupro inflittole da Agostino Tassi, pittore di prospettiva che collaborava strettamente con il padre Orazio, dopo l’umiliante processo penale al suo aguzzino e dopo aver fatto brillare il suo precoce talento a Firenze, Roma, Genova e Venezia. A Napoli Artemisia avrebbe realizzato molti dipinti, tra cui la splendida Annunciazione (1630) oggi al Museo di Capodimonte e il ciclo di tele per la Cattedrale di Pozzuoli; e qui – dopo la parentesi inglese condivisa col padre dal 1637 al 1641 – si sarebbe fermata fino alla fine dei suoi giorni (1652 ca.) lavorando senza sosta a nuove importanti commissioni e finendo con influenzare la pittura locale. Fu tumulata presso la Chiesa di S. Giovanni Battista dei Fiorentini, nel rione Carità, sotto una lapide con inciso Heic Artemisia (Qui giace Artemisia), ma la sepoltura è andata perduta con la scriteriata demolizione della chiesa nel 1953.
Per il duomo di Pozzuoli Artemisia realizzò tre dipinti, conferendo al luogo lo status di primo edificio di culto cristiano ampiamente decorato da una donna artista (le sue opere occupano 18 metri quadri di parete). Tali lavori si collocano negli ultimi anni del primo periodo di soggiorno a Napoli (1636-1637), e – sebbene vi riecheggino anche gli influssi della pittura fiorentina, veneta e bolognese, assorbiti nel corso della sua carriera – essi riflettono in particolare la sua personale lettura del realismo di Caravaggio, con molta attenzione allo studio dell’anatomia, una quasi totale assenza di idealizzazione, il ricorso a sfondi scuri sui quali risplendono le figure, la cura virtuosistica di drappi e panneggi e un particolare studio del colore.
Adorazione dei Magi
Realizzato in grandi dimensioni (311 x 206 c.) per il coro del duomo, su commissione del vescovo Martín de León Cárdenas, quest’olio su tela riprende il classico tema dei tre saggi giunti da Oriente per rendere omaggio al Bambino, l’appena nato Re dei Giudei. Le tre eminenti figure maschili si prostrano davanti a una Vergine di soave dolcezza che offre il Bambino alla loro commossa adorazione, sotto lo sguardo austero di Giuseppe (foto 7). Il dipinto, dopo quasi un cinquantennio di custodia a Napoli, presso il Museo della Certosa di S. Martino, ha finalmente ritrovato la sua collocazione originaria in occasione alla riapertura al culto della Cattedrale di Pozzuoli nel 2014, al termine del lungo restauro che, come vedremo, ha in gran parte rivoluzionato l’assetto del luogo.
Martirio di S. Gennaro nell’Anfiteatro di Pozzuoli
Il dipinto, di dimensioni analoghe al precedente (300 x 200 cm), riprende il tema del martirio di S. Gennaro avvenuto, secondo le fonti agiografiche, per decapitazione nell’anfiteatro romano di Pozzuoli, durante le persecuzioni contro i cristiani volute da Diocleziano. Le fonti narrano che il vescovo di Benevento era stato portato nell’arena affinché, insieme ad alcuni suoi seguaci, fosse dato in pasto ad un famelico branco di belve, ma queste anziché assalirlo si placarono prostrandosi ai suoi piedi. L’attimo colto da Artemisia è proprio quello dell’incontro con le belve, nel quale il Santo compare munito di mitria e pastorale vescovili, intento ad ammansire gli animali col gesto della benedizione, mentre gli astanti in totale venerazione mostrano tutto lo stupore per quel prodigio avvenuto sullo sfondo dell’Anfiteatro, raffigurato dall’esterno perché fosse riconoscibile (foto 8). Già in custodia presso il Museo Nazionale di Capodimonte, anche questa tela ha trascorso, come la precedente, un cinquantennio fuori dalla sua sede naturale, riguadagnata nel 2014.
I Santi Procolo e Nicea
Le figure ritratte nel terzo grande dipinto di Artemisia (300 x 180 cm) sono strettamente legate al luogo, trattandosi del martire Procolo, titolare della Cattedrale, e di sua madre Nicea, secondo la tradizione esponenti del patriziato puteolano uccisi nel III secolo durante la persecuzione dell’imperatore Decio. I due santi – Procolo nella veste di diacono cristiano e sua madre in abiti civili di foggia seicentesca – sono raffigurati sullo sfondo di un edificio antico mentre entrambi reggono in mano la palma del martirio (foto 9). Rimasta in custodia per circa cinquant’anni al Museo di Capodimonte, anche quest’opera è rientrata nella Cattedrale di Pozzuoli dopo la sua riapertura.
IL GRANDE INCENDIO E IL DEGRADO
Dichiarata monumento nazionale nel 1940 e basilica minore pontificia nel 1959, la Cattedrale di Pozzuoli andò incontro a un amaro destino da cui sarebbe riemersa solo grazie al lungo restauro che ne ha riportato alla luce la più antica matrice architettonica romana, che convivere armoniosamente con le successive strutture barocche, dando vita ad un suggestivo ibrido definito “Tempio-Duomo”. Era la notte tra il 16 e il 17 maggio del 1964 quando un vasto incendio colpì il tetto ligneo dell’edificio, devastandone l’intera navata e sviluppando un calore che avrebbe calcinato i muri in pietra e i marmi antichi. I dipinti che si riuscì a porre in salvo, tra cui quelli di Artemisia, furono trasferiti nei musei napoletani, mentre la chiesa venne chiusa e le sue funzioni trasferite ad altri edifici di culto di Pozzuoli.
Questo triste evento fu seguito dallo spopolamento del Rione Terra favorito nel 1970 da un’annunciata crisi bradisismica, dalle precarie condizioni igienico-sanitarie e dal cattivo stato di conservazione degli edifici; il resto lo fecero il terremoto dell’Irpinia del 1980 e una nuova ondata di bradisismo, che – complici le pastoie burocratiche e la carenza di finanziamenti – causarono l’interruzione dei lavori di restauro che pure erano stati avviati dal vescovo nel 1968. L’abbandono espose la chiesa ad atti vandalici e saccheggi, cessati solo con la ripresa nel 1994 dei lavori nel quartiere, sottoposto – insieme al sottostante complesso di ambienti archeologici -, a una lunga attività di restauro e riqualificazione. A ciò seguì nel 2003 il lancio da parte della Regione Campania di un Concorso internazionale di progettazione per il restauro della Cattedrale, vinto dal gruppo di lavoro capeggiato dall’architetto toscano Marco Dezzi Bardeschi.
IL RESTAURO DEL ‘DUOMO-TEMPIO’
Ai progettisti venne chiesto che la cattedrale, in parte demolita dal fuoco, potesse tornare a svolgere le proprie funzioni di culto e che, al tempo stesso, venisse valorizzato il tempio antico tornato alla luce in conseguenza dell’incendio del ’64 che fece crollare alcune murature e buona parte dei rivestimenti della chiesa barocca; l’obiettivo fu così quello di rendere l’antico tempio nuovamente leggibile e fruibile nell’ambito dei percorsi archeologici del Rione Terra. Con la vittoria del gruppo interdisciplinare di Dezzi Bardeschi, ha prevalso una linea rigorosamente conservativa, di assoluto rispetto per la parte più antica dell’opera e per la sua complessa stratificazione storica. Il tempio romano, oggi visibile nelle sue parti supertiti, risulta costruito su un alto podio identificato con un primitivo capitolium di età repubblicana ed è stato oggetto di interventi di consolidamento già all’indomani del devastante incendio, ma i lavori furono sospesi nel 1972. Si è arrivati così al bando internazionale del 2003 e al progetto vincitore che, come può leggersi nella presentazione introduttiva, trova la sua chiave di lettura nella attenta considerazione di una serie di ‘‘fenomeni dualistici” manifestati dal complesso architettonico: “classicismo/barocco; tempio pagano/chiesa; isolamento/stratificazione; archeologia/liturgia; distinzione/separatezza; navata/presbiterio, ecc.”
Senza scendere nei dettagli tecnici del progetto, si può dire in estrema sintesi che il risultato è l’insolita ma affascinante unione di due elementi apparentemente opposti, ossia il tempio classico e la chiesa barocca. L’ingresso nell’edificio si apre sulle superstiti strutture della facciata e delle prime due cappelle della chiesa seicentesca, strutture che oggi precedono di poco la nuova facciata in cristallo sulla quale sono state raffigurate in serigrafia le colonne frontali del pronao romano andate perdute (foto 10). La navata unica della chiesa si sviluppa in corrispondenza di quelli che furono la cella del tempio e il suo pronao, di cui rispettivamente persistono lacerti di muro e delle semi-colonne ad esso addossate, tipiche di un tempio pseudoperiptero (foto 11), e le colonne laterali con gli spazi di intercolumnio chiusi con alte pareti di cristallo (foto 12). In un’area archeologica sottostante si conservano i resti del podio di età repubblicana identificato con il Capitolium della colonia romana instaurata nel 194 a.C. Nel presbiterio sono invece visibili un nuovo altare, che sostituisce l’altare maggiore originario andato perduto, e un ambone in marmo, mentre nel coro si trovano i recuperati affreschi di inizio XX° secolo e le 13 tele barocche (tra cui quelle di Artemisia) che erano state rimosse dopo l’incendio. Recuperate anche la Sala Capitolare, con i ritratti affrescati dei vescovi di Pozzuoli, e la cappella del Santissimo Sacramento, nella quale sono state ricollocate alcune delle tele presenti prima della chiusura della cattedrale. Il complesso si rivela dunque straordinariamente simile a un palinsesto, cioè a una di quelle antiche pergamene scritte, cancellate e riscritte, nelle quali spesso i labili resti dello scritto precedente, creduto rimosso per sempre, in realtà riaffiorano raccontandoci sorprendenti storie*.
*Nel video seguente, di Giuseppe Ciaramella, una visione d’insieme dell’edificio sacro.
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