di Enzo Garofalo
La trama è semplice e surreale come certe metafore che alludono a verità incontrovertibili. In questo caso la “verità” rappresentata è quella per cui spesso ciò che cerchiamo disperatamente altrove è invece a un passo da noi, facile da raggiungere se solo coltivassimo la nostra capacità di discernimento. Ma questa chiave di lettura più immediata de Il Cappello di Paglia di Firenze – opera in quattro atti su musica di Nino Rota e libretto dello stesso compositore e di sua madre Ernesta Rinaldi, in scena con grande successo al Teatro Petruzzelli di Bari – ne racchiude per analogia una seconda, direttamente collegata con gli interessi di Rota nel campo della Filosofia Ermetica: la materia bruta su cui agivano gli antichi alchimisti per operare le loro trasmutazioni (dell’uomo comune in essere spiritualmente superiore, e non del piombo in oro come invece comunemente si crede) è alla portata di tutti, ma solo pochissimi eletti sanno riconoscerla. Un tema impegnativo che il genio di Rota riesce a far filtrare tra le pagine di una farsa la cui trama è retta con maestria da una musica e da un libretto davvero folgoranti, pur nella loro apparente semplicità.
Eccoci quindi a seguire con divertimento le peripezie di Fadinard e della sua amata Elena, il cui matrimonio è messo in pericolo dalla necessità di trovare a tutti i costi, e subito, un nuovo cappello di paglia di Firenze che sia identico a quello mangiucchiato dal cavallo del futuro sposo. Un’urgenza dettata dall’appartenenza dell’oggetto ad Anaide, donna sorpresa dall’evento mentre era in dolce convegno con il suo amante Emilio. Tornare a casa senza quel cappello sarebbe infatti per suo marito Beaupertuis motivo di sospetto e quindi di incontrollabile gelosia. Ma il cappello non si trova e la circostanza genera un vortice di equivoci che sfociano nell’inaspettata conclusione: la scoperta cioè che un cappello uguale a quello divorato dal cavallo era in casa dello sposo, nello scatolone portato in dono dallo zio – vecchio, rimbambito e sordo – della sposa. La musica di Rota asseconda il ritmo travolgente degli eventi che si snodano nell’arco di una giornata e – come sempre accade in ogni sua produzione – ne emerge la straordinaria capacità dell’autore, derivante da un controllo assoluto di tutto ciò che la storia della musica ha prodotto, di coniugare la tradizione con le forme più ardue della sperimentazione, nell’ottica di un linguaggio musicale che si rigenera senza rinnegare le proprie radici e, soprattutto, in costante confronto con la sua diretta e chiara fruibilità da parte del pubblico.
Com’è noto l’opera di Rota – composta nel 1945 a Torre a Mare, borgo marinaro alle porte di Bari, e messa in scena dieci anni dopo al Massimo di Palermo con enorme successo, diventando negli anni una delle opere italiane più rappresentate all’estero – si rifà all’omonimo vaudeville di Eugéne Labiche e Marc Michel poi ripreso al cinema nel film muto Un chapeau de paille d’Italie del celebre regista francese René Clair. E proprio il Cinema, quello d’inizio Novecento, con un occhio proteso verso le avanguardie artistiche del tempo, ha costituito il fecondo parametro di riferimento dell’allestimento barese, che si avvale di una coppia di artisti capaci di sorprenderci ad ogni loro collaborazione: la regista Elena Barbalich e lo scenografo/costumista Tommaso Lagattolla.
Ricchezza di invenzione e raffinatezza estetica sono al servizio di uno spettacolo che funziona come un ingranaggio perfetto, generando la sensazione che in questo allestimento l’opera di Rota abbia trovato la sua veste scenica ideale. I cantanti-attori si muovono in una sorta di spazio astratto delimitato da un perimetro di luci che richiama il teatro e il cinema d’inizio secolo; la gestualità – decisamente sopra le righe, come si conviene ad una storia surreale e dal ritmo frenetico – evoca quella degli attori da film muto mentre, disseminate nell’arco dell’intera opera, compare una serie di abilissime trovate come i camerieri che letteralmente ”volano” sui pattini a rotelle, la coreografica sessione di cucito delle modiste o gli stacchi in controluce con un elegante effetto-silhouette che evoca alla mente il teatro d’ombre. Soluzioni nate dal talento registico di Elena Barbalich che per le parti coreografiche si è avvalsa del prezioso apporto di Danilo Rubeca.
Il tutto risulta arricchito dalla straordinaria capacità di Tommaso Lagattolla di ”reinventare” il passato in scene e costumi preziosissimi che alludono – senza riprodurli pedissequamente – a stilemi ed espressioni artistiche d’epoca, creando l’impressione – deliziosamente ingannevole – di una ambientazione fedele; ma trattasi di una percezione fugace, immediatamente smentita dall’originalità creativa dell’autore che prende il sopravvento imponendosi in tutta la sua autorevolezza.
Eccellente il lavoro musicale svolto dalla giovane Orchestra del Teatro Petruzzelli, alle prese con una partitura solo apparentemente “facile” ma, al contrario, ricca di passaggi strutturalmente ed espressivamente complessi. Determinante per la qualità del risultato è stata la direzione del M° Giuseppe La Malfa che è riuscito a penetrare in modo sapientemente equilibrato nello spirito e nei turbinosi ritmi della musica di Rota. Di grande esito anche la performance del Coro (come sempre preparato dal M° Franco Sebastiani) che gode in quest’opera di un ruolo di primissimo piano. Frizzante e ricco di presenze giovanili il cast vocale che ha dato vita all’opera: accanto ad un veterano e pluripremiato interprete come il basso-baritono Domenico Colaianni, istrionico e spassoso nel ruolo di Nonancourt (padre della sposa), il pubblico ha apprezzato il tenore Giulio Pelligra, un Fadinard (lo sposo) di buon piglio vocale e con discrete doti attoriali.
Il soprano Damiana Mizzi si è imposta all’attenzione nel ruolo della sposina Elena, vocalmente svolto in modo impeccabile e reso scenicamente con una leggerezza ed una “svampitezza” talmente felici da farla sembrare uscita da un film di Chaplin. Un’importante conferma per una giovane interprete che nel 2012 si è aggiudicata uno dei Premi di canto più prestigiosi a livello internazionale vincendo la 63° edizione del Concorso As.Li.Co. Passabile il Beaupertuis (marito geloso di Anaide) del baritono Pietro Di Bianco. Ha colto invece superlativamente nel segno il tenore Francesco Castoro, nel doppio esilarante ruolo di Vezinet (lo zio dello sposo) e del bizzarro visconte Achille di Rosalba. Ottime caratterizzazioni vocali e sceniche per la Baronessa di Chapigny del mezzosoprano Francesca Ascioti, la Modista del soprano Annamaria Bellocchio e la Anaide (la donna col cappello) del soprano Francesca Bicchierri. Apprezzabile anche il Felice (domestico di Fadinard) del tenore Marco Miglietta. Insomma un cast che ha convinto e per lo più entusiasmato il pubblico come testimoniato dai calorosi applausi tributati a tutti gli interpreti. Ultima replica questa sera alle 20.30.
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