di Carlo Picca
Sono passati vent’anni dalla morte di Fabrizio De André, ineguagliato poeta-cantautore, ma il bisogno di guardare la realtà attraverso gli “occhi” della sua poesia è ancora molto forte; una necessità attestata dalle molteplici iniziative che in questi giorni gli vengono dedicate in giro per l’Italia, come la suggestiva “Cantata anarchica” di piazza Duomo a Milano che è riuscita a radunare fino a notte fonda migliaia di voci e di strumenti musicali per suonare e cantare le sue poesie. Noi vogliamo ricordarlo attraverso una delle sue canzoni più celebri, La canzone di Marinella che, come egli stesso rivelò in un’intervista rilasciata al giornalista Vincenzo Mollica nel 1997, fu ispirata da un reale fatto di cronaca da cui era rimasto profondamente scosso: “Una specie di romanzo familiare” – disse – che riguardava “una ragazza…ritrovatasi a fare la prostituta e scaraventata nel Tanaro o nel Bormida da un delinquente. Un fatto di cronaca nera che avevo letto a quindici anni su un giornale di provincia. La storia di quella ragazza mi aveva talmente emozionato che ho cercato di reinventarle una vita e di addolcirle la morte.”
De Andrè scrisse la canzone nel 1962 e la pubblicò due anni dopo: partita in sordina, fu portata nel 1968 al grande successo nazionale da Mina, la cui interpretazione ne rivelò al vasto pubblico l’essenza di vero e proprio capolavoro. Fu proprio questa canzone – poi riproposta nel 1997 dai due artisti insieme in un noto e splendido duetto – a dare la svolta alla carriera del cantautore genovese, il quale stava per tornare agli studi di giurisprudenza di fronte a un destino musicale ancora incerto. Ebbene, a distanza di decenni, nel 2012, lo psicologo astigiano Roberto Argenta – avendo udito anni prima De Andrè accennare vagamente alla sua reale fonte di ispirazione – ha deciso di cercare la verità su quella straziante vicenda e l’ha ricostruita nel libro “Storia di Marinella…quella vera” (Neos Edizioni).
Dalle pagine del libro riemerge la triste storia di una ragazza calabrese che emigrò negli anni ’20 a Milano con la sua famiglia e con la quale il destino fu tutt’altro che benevolo. Dopo una delusione d’amore e dopo aver tentato invano una carriera da ballerina e attrice finì col prostituirsi per poi morire in circostanze molto drammatiche. Come si evince dalla lettura della notizia di cronaca nera apparsa sulla Gazzetta del Popolo del 29 gennaio 1953, si chiamava Maria Boccuzzi e fu ritrovata crivellata di colpi d’arma da fuoco, sparati prima di essere gettata ancora agonizzante nel fiume Olona presso Legnano, cittadina dell’Alto Milanese a circa 20 chilometri a nord-ovest dal capoluogo lombardo. Il caso, tuttora irrisolto, tenne banco per mesi su molti giornali dell’epoca, e per tentare di venirne a capo la Questura di Milano impiegò i suoi uomini migliori, compreso il commissario speciale Mario Nardone, il poliziotto che pochi anni prima aveva messo su la Squadra Mobile.
Maria era nata da un’umile famiglia di braccianti agricoli l’8 ottobre 1920 nel piccolo centro calabrese di Radicena (confluito pochi anni dopo nell’attuale comune di Taurianova). A nemmeno 10 anni emigrò con la sua famiglia a Milano in cerca di fortuna, seguendo la strada percorsa in quel tempo da molti altri meridionali. A quasi 15 anni trovò un impiego e sul posto di lavoro conobbe un ragazzo, Mario, di cui s’innamorò perdutamente e sfortunatamente. La relazione le creò non pochi problemi in famiglia perché il ragazzo non era ben visto dai suoi, al punto che Maria arrivò a licenziarsi e a scappare con lui. Una volta soli, i due ragazzi furono sopraffatti dalle difficoltà economiche e dagli stenti e nell’impossibilità di riallacciare i rapporti con la famiglia di lei, giunsero fra mille difficoltà alla fine del loro rapporto amoroso, lasciandosi per sempre dopo appena un anno di relazione. Senza più una casa né un lavoro, Maria decise allora di tentare la carriera di ballerina del varietà col nome d’arte di Mary Pirimpò e in quell’ambiente, non privo di insidie, conobbe Luigi Citi, per tutti Jimmi, frequentatore di locali notturni, di cui divenne l’amante. Questi non tardò a cederla a un certo Carlo Soresi, noto come Carlone, di mestiere pappone, che l’avviò alla prostituzione.
Impossibilitata a sottrarsi alle umiliazioni e agli oltraggi che quell’esistenza le imponeva bruscamente ogni giorno, Maria Boccuzzi visse la sua discesa agli inferi fra Torino e Firenze per poi riapprodare a Milano, dove fu costretta a battere lungo i viali che costeggiano l’Olona, luogo in cui venne anche schedata dalla Polizia e che da lì a poco sarebbe diventato lo scenario del suo tragico epilogo. Aveva tentato di sottrarsi a quella vita stuprata, che non sentiva affatto sua, ma quando aveva provato a farlo una raffica di pallottole le tarpò per sempre le ali della speranza. Colpita la notte del 28 gennaio 1953, e subita dopo spinta nell’Olona ancora agonizzante, la donna fu trovata morta di lì a poco da un operaio che stava andando al lavoro. Da quel momento le redazioni dei giornali raccontarono a lungo la tragica fine di Maria, fornendo continui aggiornamenti sulla vicenda, mentre la polizia fu mobilitata per mesi con un raro dispiego di forze, ma dopo un anno d’infruttuose indagini il caso venne archiviato senza un colpevole. Eppure grazie all’opera di Faber, poeta degli ultimi, l’eco sinistra di quei colpi continua ancora a risuonare, sia pure trasfigurata nella storia di Marinella, che il vento, rapito dalla sua bellezza, “dal fiume portò sopra a una stella”.
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