Martedì 21 gennaio 2013 alle ore 17.15, nell’Aula Magna Attilio Alto del Politecnico di Bari, si terrà l’incontro “Family Life: a statement” con il fotografo Carlo Garzia. L’incontro è organizzato dal Museo di Fotografia del Politecnico di Bari. Intervengono: Pio Meledandri, direttore del Museo della Fotografia e Fabio Losito, assessore alle politiche giovanili del Comune di Bari.
Family life è un film del 1971 del regista inglese Ken Loach e racconta il precipitare nella schizofrenia di una giovane ragazza inglese. Il tema della famiglia e la critica della sua forma patriarcale e autoritaria è centrale nella riflessione di varie scienze e linguaggi, dall’antropologia (Lévi-Strauss ed altri) alla linguistica, alla letteratura, ma anche nella pittura, nella iconologia e infine nella fotografia. L’incontro con Carlo Garzia, che inaugura la stagione 2014 del Museo di Fotografia del Politecnico di Bari, parte da due immagini esemplari: un soggetto dalla bellezza apollinea di Duane Michals e un autoritratto ambiguo e marcatamente androgino di Robert Mapplethorpe; entrambi alludono al mito platonico dell’amore formulato nel Simposio, in cui si sostiene che l’essere originario fosse unisessuale e che solo in seguito alla sua ribellione sia stato scisso in animus e anima, il maschile e il femminile che si inseguono continuamente per ricostituire l’unità originaria. L’amore non ha ancora come sbocco obbligato la costruzione di una famiglia che nasce perciò come esigenza e necessità storica, tesa essenzialmente alla conservazione della specie, come ammette lo stesso Freud in “Il disagio della civiltà”.
L’incontro si svilupperà su una sessantina di immagini, vere e proprie icone di autori noti e meno noti, cercando di incrociare l’asse storico-diacronico della rappresentazione del modello familiare e quello spaziale e sincronico della sua rappresentazione in tempo reale.
Sarà sottolineata l’importanza di alcuni testi e di alcune mostre-evento soprattutto a partire da “The family of man”, curata nel dopoguerra ancora devastato, da Edward Steichen con il robusto contributo fisico e ideologico del governo americano. Questa traduzione essenzialmente umanistica se non buonista e ottimistica della natura e dell’essenza della convivenza familiare sarà traumaticamente interrotta dalla grande ribellione generazionale del 68, nella quale anche la fotografia svolge un suo ruolo non solo di documentazione. A modo suo però anche il 68, attraverso il modello della comune, hippies o politicizzata che fosse, riproponeva un prototipo certamente diverso e utopistico, ma ancora legato a un’idea astratta di fratellanza e di armonia universale che dura di fatto sino all’avvento del regime dell’ ”edonismo reaganiano” e del più crudo tatcherismo in Inghilterra. La crisi del welfare, il liberismo senza limiti e le sue conseguenze ispireranno una nuova generazione di fotografi come Martin Parr e Paul Graham (British Photography from the Thatcher years, 1991) e Chris Killip, che si specializzano con altri in una critica feroce soprattutto della classe media e piccolo borghese dell’Inghilterra di quegli anni o nella documentazione della miseria dei lavoratori, soprattutto minatori delle aree industriali del nord. E’ necessario pensare anche a film come Trainspotting o a gruppi musicali come i Clash e in generale alla nascita del movimento movimento punk.
Siamo ormai in una fase, cominciata già prima dello sguardo devastante di Diane Arbus, in cui il valore e il senso affettivo-contrattuale della famiglia si disgregano, aumenta la visibilità e la pratica di forme di relazione molto complesse e non abituali. Questa dimensione cruda e anti-umanistica coincide anche con la diffusione dell’AIDS e diventa una poetica della trasgressione e della marginalità attraverso il lavoro di autori come Nan Goldin, Wolfgang Tillmans, Nicolas Nixon sino alla dimensione grottesca e alla derisione, almeno dal punto di vista dei valori familiari tradizionali, con autori quali Richard Billingham, Terry Richardson e Boris Mikhailov.
E’ evidente che il tema proposto è centrale per una piena comprensione della rappresentazione del nucleo familiare quale è maturata soprattutto in occidente a partire dal secolo fiammingo sino ai nostri giorni ben oltre i limiti relativamente ristretti della fotografia.
Carlo Garzia si impone, a partire dalla fine degli anni ’70, come uno degli autori più significativi nel panorama della nuova fotografia italiana, prendendo parte ai più importanti progetti di ricerca su paesaggio e territorio, da Viaggio in Italia, ad Archivio dello Spazio a Luoghi come paesaggi, fino al progetto atlante italiano 007 Rischio paesaggio per il MAXXI. Insegnante e operatore culturale, oltre che fotografo, con la galleria Spazio-Immagine e La Corte. Fotografia e ricerca, entrambe a Bari, ha contribuito alla promozione e al dibattito sulla fotografia con interessanti apporti critici. Già a partire da Viaggio in Italia nel lavoro di Garzia si evidenzia una volontà di porre la fotografia in connessione con l’architettura, la letteratura, il cinema e con l’arte in generale, riferimenti culturali imprescindibili nella nostra esperienza del mondo. Nelle eleganti inquadrature realizzate in Puglia per atlante007, il fotografo mostra dell’Italia meridionale una visione ironica e impregnata di cultura antropologica: la religiosità quasi primitiva si affianca alla raffinatezza di un interno barocco; il nuovissimo intonaco rosa dell’anonimo albergo per pellegrini con la gigantografia di Padre Pio, si contrappone – forse con intento polemico – alle fatiscenti statue in stucco dell’antico salone nobiliare. Il tutto sarcasticamente legato dall’immagine di un chiosco sul lungomare che con la sua insegna “Da Bellezza” sembra non farsi alcuna remora nello statuire con leggerezza una nuova categoria del bello. Nella video-intervista realizzata in occasione della mostra al MAXXI, così Garzia descrive il suo lavoro: «Il mio è un lavoro documentario, neutrale ed estraniato in superficie, ma attento alla presenza nel quotidiano di elementi perturbanti o almeno incongrui. In una fotografia cerco un punto di equilibrio per quanto provvisorio e mobile tra sguardo e realtà esterna, cercando di generare possibilmente effetti collaterali di investimento e di senso. Così ogni cosa è “illuminata”, non c’è più un ordine gerarchico tra le visioni possibili. Ma non esiste una foto “giusta”, perché questo presupporrebbe un sistema riconosciuto e condiviso di regole rigide, quasi una grammatica normativa del visibile. Il fotografo, come diceva Stendhal del romanziere, è solo un viandante che attraversa uno spazio con uno specchio, e non è perciò responsabile di quello che lo specchio riflette; egli è solo il testimone neutrale, ma non indifferente».
Aula Magna Attilio Alto del Politecnico di Bari
Via Orabona n 4
ore 17,15
Ingresso libero
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