di Angela Capurso
Non basta vedere la festa. Neppure basta vederla una sola volta. Ci vorrebbe una magica ubiquità per seguire il Maggio e la Cima, e i loro rispettivi corteggi, che dai boschi di Montepiano e di Gallipoli-Cognato procedono contemporaneamente in direzione del loro incontro, il Largo S. Vito, in paese, e ciascun albero nel suo splendido rigoglio, come coppia destinata all’annuale hierogamia, il matrimonio sacro. Bisogna vivere il Maggio a Accettura, dove si fa la festa a S.Giuliano e al più superbo albero del bosco, sin da tempi immemorabili, istituzionalmente dal 1797: per fare si intende l’atto creativo del poiein e la disposizione d’animo che consiglia il compianto antropologo materano, storico delle tradizioni popolari, Gian Battista Bronzini (Accettura. Il contadino. L’albero. Il Santo, Galatina 1979), unico mezzo per penetrare davvero all’interno di un clima di orghìa sacra, insieme ai suoi attori, la comunità accetturese.
La ricchezza demologica dei numerosi riti arborei delle montagne lucane, come le note festività consacrate a Oliveto Lucano, Pietrapertosa, Castelmezzano, Rotonda, Viggianello, Castelsaraceno, Terranova del Pollino, si rivela straordinaria. Non sfuggono le dinamiche umane e sociali, le ragioni e le varianti del rito, la stretta connessione dell’ambiente con la società locale coesa e omogenea, l’atemporalità sacra del ciclo naturale e dell’anno liturgico, l’aura dello spirito dei boschi in osmosi con la devozione del santo patrono, il martire Giuliano, la cui statua veste i colori della natura, il giallo, il rosso, il verde.
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Testimone antropologico tra i più ricchi e complessi d’Europa, fusione di componenti etniche pluristratificate, di sincretismo culturale e religioso, investe ancora oggi i visitatori della proiezione mobile del passato nel presente e attrae un turismo attento, pronto a cogliere i riverberi del mondo agro-pastorale, arcaico e immobile, insieme alle luci e ai chiaroscuri del futuro. Il Maggio è un cerro, il più alto e robusto del bosco, garanzia della sua funzione fecondatrice; è trascinato lungo il fianco della montagna da pariglie di buoi, guidate da uomini adulti.
Il cammino si snoda con lentezza, per le difficoltà del trascinamento di un tronco di oltre trenta metri. In un contesto così agreste, le prime posizioni si aggiudicano con la discussione e il litigio – ritualizzazione agonale – e anche la processione che segue il gigante della montagna, il maior, l’albero del Maggio, il Maibaum nordico, l’albero della cuccagna medievale, appunto, non può che essere bucolica, allietata da strumenti musicali della tradizione delle bande di bassa musica e soprattutto dal succo di Dioniso-Bacco-Liber, che libera e scioglie gli affanni. Sembrerebbe adombrare un atto di accettazione della sottomissione da parte della natura imponente e selvaggia, che si piega al rango di natura docile e addomesticata.
Al Maggio sarà unita in “matrimonio” una Cima, l’agrifoglio più ricco di fogliame sempreverde, promessa di fecondità prolifica. Più snella e leggera, la cima è portata a spalla da un corteo festante e disordinato di giovani. Procede a strappi, avanza lentamente e poi, d’improvviso, di corsa. Il gruppo dei Cimaiuoli è quello che beve più vino, molto di più, a gara, altro tassello nel comparativismo antropologico dei riti di passaggio arcaici. Non posso non pensare alle falloforie, remote forme di panegirie del bacino del Mediterraneo, legate ai culti agrari, ai riti arborei e al consumo dionisiaco del vino. Iconograficamente attestate sulla parete esterna di una coppa attica a figure nere, durante le antiche cerimonie delle falloforie, un lungo e massiccio tronco, che, ripulito e levigato, rappresenta un fallo, è cavalcato da un satiro (due uomini travestiti da satiro) che a sua volta porta in groppa un giovane. Nel registro inferiore si innesta un altro tronco, più sottile, che lo sostiene e a sua volta è sostenuto da giovani chini per il peso: la scena riconduce a rituali di fecondità e di passaggio dall’età giovanile all’età adulta, propiziatori della riproduzione.
La salita al monte di Accettura, una sorta di antichissima orobasìa, cui oggi sono state purgate tutte le sfrenatezze che già nel 186 a. C. avevano determinato il divieto di celebrare riti in onore di Dioniso, con il senatus consultum ultimum De Bacchanalibus, si svolge a partire dalla prima domenica dopo Pasqua, quando viene perlustrato il vicino bosco di Montepiano per la selezione del cerro. La domenica successiva è la volta della scelta dell’agrifoglio. I “maggiaioli” procedono a segare la base del tronco, non può che essere fatto il giovedì dell’Ascensione. È il momento per i maestri d’ascia di mostrare tutta la loro perizia: dovranno compiere il sacrificio del re del bosco, e dovranno farlo senza che soffra, come una delicata operazione chirurgica. La pianta stride e geme, trema e si abbatte con uno spaventoso schianto al suolo. Lo spostamento d’aria è violento, terribile, come le forze che sprigiona la natura, raccontano i testimoni. L’acmé del sacrificio, la fase più drammatica e crudele della festa, difficile da seguire e riservata agli attori del rito. Si liba, infatti, da parte dei “sacerdoti” che detengono il segreto sapiente delle loro scuri. Assieme al maggio, si abbattono alberi “servi”, funzionali a costruire la macchina per issare il cerro in piazza.
La pianta viene curata e custodita fino alla domenica di Pentecoste, quando avviene l’incontro e l’unione tra i due alberi nel Largo del paese. Per l’afflusso di gente sembra il culmine della festa. Tutta la giornata si svolge all’aperto, nella cornice di un paesaggio di media montagna, durante l’esplosione naturale di primavera. Non può che essere un’esperienza di richiamo e di ritorno all’autenticità. Chi partecipa decide se far parte della processione dei maggiaiuoli o dei cimaiuoli. A metà giornata al momento della celebrazione della messa da parte di don Giuseppe Filardi, autentica istituzione e guida spirituale dell’intera liturgia cristiana, le cinquanta- sessanta pariglie di buoi si riposano nel bosco. Ma non si tratta di un semplice bivacco. Al seguito dei maggiaioli si partecipa al banchetto rituale nel bosco; in un calderone di rame si consuma al fuoco la “pastorale”, un grandioso bollito di pecora aromatizzata con erbe. Tutti ne prendono parte. Il responsabile della cottura, investito del compito da alcuni decenni, spiega con orgoglio ogni singola fase. Dalla sua meticolosità nell’assaporare la carne e valutare l’ultimazione della preparazione dipende la riuscita di un altro segmento del rito.
È il momento di raggiungere la “sposa”, che arriva dalla parte del paese che volge verso il bosco di Gallipoli. Il trasporto del tronco di agrifoglio, portato a spalla da un corteo poco sobrio che procede a scatti, è più delicato, bisogna cercare di non distruggere il fogliame della cima. Si comprende che è il corteo dei giovani della comunità, pronti, come nei riti arcaici, a lasciarsi alle spalle la loro natura selvaggia, indomita e intemperante, per entrare a far parte, con il matrimonio, dell’ordine costituito e stabile dell’età adulta. I cortei di ricongiungono all’imbrunire nelle strade del paese; la cima è eretta non nella piazza principale, ma in un largo dove accadde un tempo un evento miracoloso, spiegano gli abitanti. Da quel momento restano due giorni per celebrare il sacro vincolo.
Il lunedì è una giornata di lavoro intenso, tutto al maschile: sistemate le “crocce”, ossia i pioli e i puntelli di sostegno, le funi e gli argani della complessa macchina che servirà a issare l’albero maschio, una volta compiuta la delicata fase dell’innesto con l’albero femmina. Il martedì si svolge il matrimonio, il momento più delicato e forte al tempo stesso, senz’altro il più sentito dai fedeli. L’erezione dei tronchi congiunti, preceduta da un innalzamento di 45 gradi dal suolo, avviene in concomitanza con l’ostensione della statua di san Giuliano e la spettacolare processione delle “cende”, monumentali offerte di candele, nastri e fiori, a forma di piramidi a gradoni, portate in equilibrio sulla testa come sapevano fare un tempo tutte le contadine del sud. Oggi si è più indulgenti, non ci sono divieti e limitazioni per l’espressione della devozione popolare.
Accettura vanta una tradizione di valentissimi scalatori, negli anni del dopoguerra Francesco Labbate, detto Nchianatridd (da nchianat, ossia salita), successivamente Giuliano Mariano, detto Zizilone (Giuggiolone) , Giulio Onorati detto Krusciov e il loro erede odierno, Antonio Martello, in grado di fare spericolate acrobazie mentre si arrampica, in un primo tempo aiutandosi con una fune alla base del tronco, poi via via che il diametro si restringe, a mani nude, fino a raggiungere il mazzo di fiori appeso alla cima, secondo le regole della conquista della cuccagna, e affrontare la ben più pericolosa discesa.
Gli anziani del posto ricordano che alcuni decenni fa si appendevano capi di bestiame di piccola taglia, bersagli dei cacciatori, poi la fase dello sparo alla cima, spettacolo troppo cruento, venne sostituito da tacchette di metallo, anch’essa abolita per ragioni di sicurezza. Oggi i fuochi d’artificio svolgono la funzione degli spari antimalefici e propiziatori, per allontanare dalla dimora della sposa gli spiriti aggressivi e rendere fecondo l’accoppiamento. La festa è davvero finita. Gli alberi genereranno altri alberi. Della cima e del maggio, uniti e divisi in ciocchi, la comunità beneficerà durante l’inverno.
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