La scoperta casuale di un dattiloscritto ingiallito ci parla di un Fellini pronto a calarsi nelle suggestioni di un profondo Sud Italia «antico e misterioso, vibrante di echi remoti», contesto di un film mai venuto alla luce
di Redazione FdS
Federico Fellini, Rimini 1920. Cento anni fa nasceva uno dei massimi registi della storia del cinema, un artista che in quarant’anni di pluripremiata carriera ha affascinato il mondo con il suo immaginario onirico e visionario, popolato di figure indimenticabili. Pellicole come I vitelloni, La strada, Le notti di Cabiria, La dolce vita, 8½ e Amarcord hanno portato sugli schermi – con variabile dosaggio di ciascun elemento – quella mirabile fusione di fiabesco, di surreale e di autentiche tipologie umane, che il suo personale sguardo ha finito col trasformare in archetipi, in simboli. Attratto e, al tempo stesso, inquietato dal “mistero che ammanta l’essere umano”, Federico Fellini è stato inoltre capace – come ha scritto Isabella Cesarini nel suo Edificio Fellini. Anime e corpi di Federico – di penetrare “in mondi altri” e di restituire “in fotogrammi un cosmo enigmatico sino ai confini dell’assurdo”. Ebbene, affascinati dall’universo felliniano e impegnati a raccontare il Sud Italia anche attraverso l’immagine che di esso viene percepita e veicolata da osservatori esterni, ci siamo chiesti se il genio romagnolo avesse mai preso in considerazione l’idea di ambientare nelle nostre contrade una delle sue storie.
Le informazioni biografiche più note a lui riferibili non ci sono state però di alcun aiuto, finché il caso ha voluto che ci imbattessimo in un articolo del 4 marzo 2011 nel quale Alessandra Mammì, giornalista de L’Espresso, narra di un interessante ritrovamento. L’articolo è senza dubbio già noto agli esperti di cinema e a quanti hanno avuto occasione di intercettarlo alla sua uscita, ma ci piace rievocarne il contenuto proprio per ricordare come la ricerca espressiva di Fellini abbia toccato significativamente anche il Sud Italia, sebbene ciò sia avvenuto con un progetto cinematografico purtroppo mai venuto alla luce. Di questo film mai nato, pochi anni fa Cecilia Mangini – energica 93enne regista e sceneggiatrice di origini pugliesi, prima documentarista donna in Italia, autrice di opere come Stendalì e La canta delle marane, scritte da Pier Paolo Pasolini, e All’armi siam fascisti, codiretto con il marito Lino Del Fra e Lino Miccichè – ha ritrovato la bozza del soggetto firmato da Fellini e dal suo storico co-sceneggiatore Tullio Pinelli.
Mentre riordinava alcuni scaffali, un faldone, contrassegnato di suo pugno con la generica dicitura ”Fellini”, le è caduto letteralmente sui piedi. All’interno oltre un migliaio di fogli ingialliti di varia natura. Tra le pagine d’argomento cinematografico – preziose tracce della genesi di alcuni capolavori felliniani – ecco spuntare le circa dieci pagine di un soggetto inedito che – scrive Alessandra Mammì – “da una parte si lega a La Strada e dall’altra anticipa immagini del Casanova”. Anzi, questo testo potrebbe addirittura precedere La Strada – capolavoro premiato nel ’57 con l’Oscar al Miglior film straniero – forse costituendone una sorta di cellula originaria, sebbene poi sottoposta a una radicale mutazione.
Ma come mai quei fogli si trovavano a casa Mangini? La regista improvvisamente ha ricordato che suo marito, intorno alla metà degli anni Sessanta, avendo intenzione di scrivere un libro sull’opera omnia di Fellini, aveva chiesto aiuto a Tullio Pinelli ottenendo tutto quel materiale, prova concreta del gioco di squadra da cui nasceva il cinema del grande regista. Nel tentativo di dare così un ordine a quei fogli vergati da mani diverse, talvolta veri e propri rebus, ha deciso di affidarsi allo storico del cinema Fabrizio Natalini, docente all’Università di Roma Tor Vergata. Dallo studio delle carte sono riemersi come fantasmi dalle nebbie del passato, tutta una serie di personaggi destinati a non prendere vita sulla schermo o a subire vere e proprie metamorfosi. Tra questi anche le figure che animano l’inedito “Soggetto di Federico Fellini e Tullio Pinelli”, un racconto senza titolo che si presenta come una successione di scene nelle quali si intrecciano magia, spiritismo, madonne, guaritori, sesso. Elementi ricorrenti del cinema felliniano, che in questo caso si stagliano sullo sfondo di un Sud Italia “sempre più antico e misterioso, vibrante di echi remoti”, come annotano gli stessi autori.
Lo storico del cinema Andrea Minuz, nel suo Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, ascrive l’inedito testo felliniano a quella più ampia opera di riscoperta del ”magico” e del ”folklorico” che ebbe nell’antropologo Ernesto De Martino uno dei massimi protagonisti e che fu fortemente ostracizzata da diversi intellettuali nazionali ostili alle cosiddette “correnti irrazionaliste” della cultura italiana così come alle ”contaminazioni” del cinema neorealista con la dimensione fiabesca e onirica. Una presa di posizione vacuamente integralista che per la parte cinematografica è testimoniata dal vivace dibattito sollevato dal film La Strada. Ma né De Martino né Fellini si lasciarono turbare dalle polemiche. Fellini dal canto suo proseguì in quella che Goffredo Fofi ha definito “la ricerca di una verità ‘oltre’, di un’alterità, di una verità più profonda, anche metaforica, che nella mera registrazione o idealizzazione del reale mancano, sfuggono”. Del resto “i poeti non pescano soltanto dalla realtà, pescano anche dal loro travisamento della realtà, dal loro intervento fantastico sulla realtà”. E non c’è dubbio che Fellini sia stato un poeta della macchina da presa.
Per rendere omaggio al grande regista, nell’anno del suo Centenario, e a questo Sud che tanto ci sarebbe piaciuto vedere sullo schermo, vi proponiamo alcuni frammenti del soggetto – riprendendoli dal citato articolo di Alessandra Mammì – accompagnati da nove suggestive tavole realizzate dall’artista Angelo Ventimiglia che, in una sorta di atipico e visionario storyboard, ha ambientato le corrispondenti scene nella sua Calabria, ideale emblema di quel Sud “antico e misterioso, vibrante di echi remoti” immaginato da Fellini.
Tavola I. Il dattiloscritto felliniano esordisce con un breve ritratto del primo dei protagonisti: “Un uomo a piedi scalzi, i capelli lunghi e sciolti alla nazarena sulle spalle entra in un piccolo paese dell’Italia Meridionale”. L’uomo si chiama Salvatore Incorpora (cognome diffuso tra Sicilia e sud della Calabria) e da circa cinque anni esercita da girovago il suo mestiere di guaritore, o almeno come tale si presenta alla gente che incontra lungo la sua strada. Non mancano riferimenti a tratti della sua personalità: “Il suo animo è uno strano impasto di scetticismo senza limiti e di sensualità faunesca”. Nella seguente tavola, Angelo Ventimiglia lo ha immaginato sullo sfondo di Pentedattilo, suggestivo borgo dell’estremo sud della Calabria.
Tavola II. Il dattiloscritto descrive l’uomo come uno compie prodigi un po’ ovunque e, ogni volta, “guarisce, cade in estasi trasuda sangue”. A un certo punto lo vediamo infatti mentre “fra un’eccitazione mistica e pagana, entra nelle basse stanze senza luce, fissa sui malati due occhi magnetici e vivissimi, impone le mani, recitando a mezza voce preghiere miste a parole incomprensibili”. Qui la scena è immaginata da Ventimiglia presso il borgo di Roseto Capo Spulico, noto per il suo antico castello federiciano a picco sul mare.
Tavola III. L’uomo, descritto come dotato “di sensualità faunesca” e capace di esercitare un ”potere sessuale ed elementare” finisce con attrarre irresistibilmente Regina Macallè, descritta come una ragazza lussuriosa, ossessionata dal sesso, ma anche dotata di poteri magici, tra cui la capacità di spostare gli oggetti con la forza del pensiero. Insieme si incamminano dunque lungo un Sud Italia “sempre più antico e misterioso, vibrante di echi remoti”, raggiungendo paesini tra i monti e accampamenti di pastori dai quali ascoltano storie di tesori nascosti, streghe e miracoli. “Ogni luogo genera un’avventura diversa”, si legge nel dattiloscritto, e nella tavola seguente ritroviamo i due protagonisti alle prese con una famiglia che Salvatore inganna nel tentativo di sedurne la bellissima figlia. Ventimiglia ha qui immaginato la scena nel paese arbëreshë di Lungro.
Tavola IV. Poichè all’ingannatore presto o tardi tocca di essere ripagato con la stessa moneta, ecco Salvatore finire a un certo punto nella rete di un gruppo di giovinastri che lo chiudono in una tomba, con “beffa tragica, spietata che rischia di costargli la vita”. Intanto Regina “sente la voce di lui giungere di sottoterra, cavernosa e disperata, e quasi impazzisce per il terrore”. Ventimiglia ha immaginato la scena nell’antico e suggestivo insediamento rupestre di Zungri.
Tavola V. L’attrazione fisica e la dipendenza psicologica da Salvatore non impediscono a Regina, in uno dei passaggi cruciali del racconto, di accorgersi che i prodigi di Salvatore sono in realtà una truffa. Lei scopre infatti i suoi trucchi, fatti di false pozioni colorate, finte reliquie, carte truccate. Allora sceglie astutamente di assecondarlo nel tentativo di saperne di più, ma rimane dell’idea che almeno qualcuno dei suoi prodigi sia autentico. In questo caso la ”visione” di Angelo Ventimiglia è fatta di oggetti e di simboli, tra cui il volto del noto cantautore crotonese Rino Gaetano, che in tante sue canzoni ‘smaschera’ e irride le farse e l’arroganza del Potere.
Tavola VI. Regina è la protagonista di questa scena, che ha tutta l’aria di una visione dai potenziali sviluppi inquietanti. Scrivono Fellini e Pinelli: “Un giorno d’estate nell’ora meridiana, quando il sole brucia ogni cosa e sui campi deserti stanno immobili i buoi solenni come idoli antichi, Regina ritorna scarmigliata e accesa in volto da un convegno con un garzone di fattoria”. Si accorge allora di “una bambina che cammina compostamente ai margini del viottolo. Una bimba strana, vestita con abiti che portavano le bambine cent’anni fa”. In questo caso Ventimiglia ha immaginato la scena nelle assolate campagne di Cutro, ma nella tavola non mancano altre suggestioni calabre come la colonna greca di Capo Colonna (Crotone) e le bizzarre ceramiche di Seminara.
Tavola VII. Un’altra scena vede Regina in viaggio su un treno lentissimo dal quale scorge “un uomo a cavallo che galoppa calmo a fianco del vagone. Porta un cappello piumato e strani abiti multicolori”. Una visione che Angelo Ventimiglia interpreta collocandola sull’altopiano della Sila, con Regina in viaggio sull’antico e lento treno a vapore di Camigliatello Silano.
Tavola VIII. In questa scena il soprannaturale irrompe in modo plateale. È una sera di vento e pioggia e Regina sta tornando al casolare dove ha trovato rifugio con Salvatore, quando d’un tratto “una grande luce si accende sul ciglio della strada. Una signora vestita di bianco, alta due metri con una grande corona di lampadine multicolori intorno al capo, sta ritta a mezz’aria e le parla. Regina si sente tremare le gambe e cade in ginocchio nel fango”. E forse l’inizio di una crisi mistica? Stavolta l’ambientazione scelta da Angelo Ventimiglia è nel borgo di Rossano, antica patria di mistici bizantini.
Tavola IX. Un destino di redenzione dalle sue travolgenti passioni terrene attende Regina sul finale di questo racconto riemerso dai sogni cinematografici di Fellini. Regina è scomparsa, travolta dalla visione della Vergine. Salvatore la cerca invano per mesi, quand’ecco una voce di strada rivelargli che quella ragazza bella e lasciva ha trovato rifugio nelle celle di un antico convento in cima a un monte, luogo che nel soggetto felliniano è descritto così: “Antico edificio, qualcosa di mezzo tra un crollante cascinale e un palazzotto feudale che nel pallido sole di dicembre sembra addormentato e deserto”. Ed è lì che Salvatore la vedrà per l’ultima volta. Gli si mostra come mai avrebbe immaginato di vederla, “insaccata in un abito grigio da conversa, i piedi nuotanti in grossi sandali, la testa quasi completamente rasata. Tutto in lei è trasformato: lo sguardo, la voce, il contegno. Salvatore la contempla sbigottito senza capire”. Sulla scia di Fellini, la penna di Angelo Ventimiglia conclude questo breve tour evocativo in Calabria collocando la scena nel Santuario della Madonna delle Armi, complesso medievale sorto su un antico sito monastico bizantino di Cerchiara di Calabria, alle pendici del monte Sellaro, nel Parco Nazionale del Pollino, a poca distanza dai luoghi che conobbero la grandezza di Sibari, emblema di città gaudente.
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Bibliografia:Goffredo Fofi, Federico Fellini, cantore di matti e marginali, in Internazionale, 18 gennaio 2020
Alessandra Mammì, Fellini, il film mai nato, in L’Espresso, 4 marzo 2011
Alessandra Mammì, Lo scrigno segreto di Fellini, in L’Espresso, 7 marzo 2011
Andrea Minuz, Viaggio al termine dell’Italia. Fellini politico, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011, pp. 242
Fabrizio Natalini, Fellini segreto, in Luci e Ombre, Anno III, n. 4 Ottobre-Dicembre, 2015