In principio fu la tratta Napoli-Portici, primo convoglio ferroviario italiano, inaugurato dal re Borbone con grande solennità il 3 ottobre 1839. Nel 1840 la via ferrata arrivò a Torre del Greco, nel 1842 a Castellammare. I lavori furono continuati per portare la Ferrovia fino a Nocera e terminarono nel 1844. Un secondo tronco ferroviario, finanziato direttamente dallo Stato, raggiunse Caserta nel 1843 e Capua nel 1844. Nel 1853 fu concessa in appalto la costruzione della Nola-Sarno-San Severino, che avrebbe dovuto proseguire per Avellino. Il programma prevedeva poi che la linea Napoli Capua raggiungesse Cassino allacciandosi con la ferrovia dello Stato Pontificio. La Napoli-Avellino doveva proseguire da un lato per Bari-Brindisi-Lecce, dall’altro per la Basilicata e Taranto. Furono programmate anche le linee per Reggio e la tratta da Pescara al Tronto. In Sicilia erano previste le linee Palermo Catania-Messina, e Palermo-Girgenti-Terranova. Insomma grandi progetti e grandi aspettative ma…ad unità d’Italia avvenuta, nel Mezzogiorno l’estensione della linea ferrata era ancora di soli 184 chilometri, tutti concentrati in Campania, mentre il Centro-Nord aveva ormai fatto il grande salto in avanti. A parlarci in particolare della tratta pugliese e della sua bizzarra mancata realizzazione è il gustosissimo articolo di Rita Guastamacchia, alla quale diamo il benvenuto su FAME DI SUD (Redazione Fds).
Le ultime parole famose: «Questo cammino ferrato gioverà senza dubbio al commercio e considerando come tale nuova strada debba riuscire di utilità al mio popolo, assai più godo nel mio pensiero che, terminati i lavori fino a Nocera e Castellammare, io possa vederli tosto proseguiti per Avellino fino al lido del Mare Adriatico» (Ferdinando II di Borbone, durante la inaugurazione della Napoli-Portici)
di Rita Guastamacchia
Spesso si fa la caricatura a noi meridionali sul fatto che siamo affetti da superstizione cronica. Eccone un esempio con tanto di corona e corna!
Bello, affascinante, seducente nel suo potere di convincimento, l’ingegnere barese Emanuele Melisurgo, che ostinatamente cercava di indurre Ferdinando II di Borbone a costruire nel 1855 una ferrovia delle Puglie, si trovò bloccato da un paio di corna da parte del sovrano:
“Va’, vattenne, si no faccio comme ‘e femmene, te dico de sì!”
Melisurgo non si arrese, il progetto fu varato, ma “malauguratamente” le previsioni per raccogliere capitali dalle province del Regno fallirono miseramente; sottoscrissero azioni per la ferrovia solo mille, anzichè 55mila cittadini delle province che avrebbero dovuto trarre vantaggio dal passaggio della rete ferroviaria. La prima pietra rimase tale e il progetto abortì per una selva di “corna” levate alla faccia di Melisurgo.
Di chi la colpa? Melisurgo aveva voluto sfidare la sorte, che l’aveva messo in guardia nella persona del più famoso “jettatore” nazionale del Regno delle Due Sicilie.
Signore e Signori, paratevi: era il Duca di Ventigliano.
Se esaminiamo l’aneddotica della vita di Napoli e delle sue Province, Puglie comprese, la storia degli jettatori e delle loro vittime è avvolta in un’atmosfera comica. Con meticolosità Raffaele De Cesare ci dipinge la figura di Don Cesare della Valle, Duca di Ventigliano. Tutti tremavano quando apriva bocca. Lo stesso Ferdinando II non poteva fare a meno di invitarlo, ma era certo che ogni volta che lui era in questione qualche sciagura era in agguato. E puntualmente, senza tema di essere smentito, come nel caso della Ferrovia delle Puglie, nella quale disse di non credere, Ventigliano “azzeccava”. Nella fattispecie gli ingegneri foggiani boicottarono l’iniziativa. I capitali risultarono del tutto inadeguati e gli strascichi giudiziari relativi al fallimento di Melisurgo si trasmisero sino a suo figlio. Probabilmente dopo l’increscioso evento l`irriducibile ingegnere avrà attribuito maggior credito alla materia relativa alla superstizione.
E voi? Siete restii dal mettervi a tavola quando siete il tredicesimo? Toccate le chiavi o altro quando incontrate un carro funebre vuoto? Cambiate strada quando ad attraversarla prima di voi è stato un innocente gatto nero? Ma se non usate precauzioni del genere e vi va storto qualcosa, con chi ve la prendete? Con la cattiva sorte. Bene, non siete soli. Siete prevedibilmente vittime di un retaggio che ancora da noi nel Sud è duro a morire.
La superstizione, dalle sue forme più elevate di culti e rituali, sino a quelle di ostinate credenze nella jettatura, è stata oggetto di studio e di amenità, registrate dalle cronache di tutti i tempi. Diotallevi, giornalista del Messaggero alla vigilia della Grande Guerra, assimilava la superstizione alla catena al piede dei galeotti: quando i forzati uscivano dal bagno penale per tornare in libertà, continuavano a strascicare il piede a cui la catena era stata attaccata. Allo stesso modo – scriveva – anche noi conserviamo la falsa piega dell’anima, contratta in tempi passati. E’ tanto vero questo, che i popoli meridionali, più tardi liberati, sono quelli nei quali è più marcato questo difetto. I più superstiziosi sono gli italiani, gli spagnoli e gli jugoslavi: in Italia lo sono di più le popolazioni del Mezzogiorno che quelle del Settentrione. E forse è ancora così, anche se qualche Milanese doc cerca di rubarci l’appellativo.
Ho un po’ paura a pronunciare questa parola per un “grande vecchio” come l’ex Primo Ministro Silvio Berlusconi (il cui nome è diventato tabu da un giorno all’altro, come per qualcuno davanti al quale ci si copre la faccia). Fu lui che un tempo bloccò un collega con uno sconveniente paio di corna. Ma ultimamente non ci sono state corna tali da garantire la sua protezione davanti ai giudici e nemmeno davanti ai suoi stessi compagni di partito.
Con ben altro sostegno e approfondimento Ernesto De Martino approda alle stesse conclusioni nei suoi saggi dedicati ai fenomeni magici, da Sud e magia a La terra del rimorso, sul fenomeno del tarantismo pugliese, la cura rituale del morso della mitica “taranta”. Ma forse per quei retaggi di cui sopra, a noi piace esorcizzare la paura deridendola. E facciamo i dovuti scongiuri.
Ma perchè le corna, o meglio, il corno? Perchè il corno altro non è che una punta, e per le punte la forza vitale dell’uomo si ritiene possa uscire facilmente, andando a neutralizzare la forza che emana dal temuto jettatore. Come accade per il parafulmine, che serve a neutralizzare con l’elettricità di cui è caricata la Terra le scariche emanate durante i temporali. Le dita non son altro che punte.
La superstizione però non è solo parare i fulmini di malocchio e jettature, è pure ricercare talismani portafortuna. E mi piace augurarvela, una buona fortuna, regalandovi un ideale mazzetto di fiorellini bianchi, che nascono spontanei nelle lande scozzesi: l’erica bianca, tanto cara un tempo ai gentlemen inglesi, che non uscivano di casa senza portarne qualche fiore all`occhiello.
Dalla Scozia partivano vagoni di erica per tutto il Regno Unito, e sino all’inizio del secolo scorso intorno a questa simpatica abitudine si era creato un fiorentissimo commercio. Per le strade di Londra i venditori di erica gridavano: White Scotch Heater, very good luck, buona fortuna con l’erica bianca della Scozia. Oggi i gentlemen sembrano essere ormai una razza in estinzione, e non solo in Gran Bretagna. E nessuno più usa credere al linguaggio dei fiori. Non ci sono più gentlemen, ma mi ostino a dire, al contrario di ogni superstizione:
E’ vero, ma ancora non ci credo.
FdS – courtesy of Rita Guastamacchia