La Theotokos, la Marunnella è, nel romanzo, Morfisa, venerata protettrice di Napoli, adorna di babbucce purpuree, una sorta di potente Madre Nostra che governa di fatto la città e ne è forse l’anima più segreta, la ragazza bruna e deforme nata dalla contaminazione e dallo stupro, portata a riva, come molte delle nostre Madonne, dalle acque del mare. Acqua, in fondo, ella stessa, Morfisa è detentrice di saperi segreti e di poteri sovrannaturali, custode del virgiliano Uovo magico dal cui destino dipende quello della città, circondata dal brulicare di diversità che popolano il Ducato di Napoli all’alba del mille, i Bizantini, i Longobardi, i Saraceni, i Normanni, i Salernitani, gli Amalfitani, ciascuno dei quali vi anela come a una coppa dorata, sospesa in bilico e forse equidistante tra mondi paralleli e in guerra tra loro, come le immaginarie fazioni di donne devote rispettivamente ad antichissimi o a più recenti santi, a Virgilio o a San Gennaro. Altre parole restano, invece, immutate, come ciottoli sottratti al flusso, impigliati nella rete del tempo: Anàssa, per esempio, che vuol dire “signora”, o Basilìssa, che vuol dire “imperatrice”, restano, come nel greco bizantino, parossitone; parole greche che, pur invariate, sembrano assolutamente, genuinamente napoletane.
Morfìsa stessa è, in fondo, una parola napoletana di assai probabile origine greca, un nome attestato dalle fonti come quello di una delle più potenti casate della Napoli bizantina e che pure sopravvive nella toponomastica attuale della città, ad esempio nel nome della chiesa di San Michele Arcangelo “a Morfisa”, nella zona corrispondente all’attuale quartiere del Nilo, tra Monterone e Spaccanapoli, che è stata riconosciuta come il centro pulsante e la sede del potere nella sua fase bizantina. Con la lingua acquatica del romanzo, in cui il greco e il napoletano si infiltrano raffinatamente in un italiano magnifico, e si contaminano e si rigenerano nella loro osmosi, acquistando una potenza evocativa altrimenti impensabile, Antonella Cilento ci restituisce il mondo, immaginabile proprio perché in larga parte incognito, dei sei lunghissimi secoli del Ducato napoletano, colto alla vigilia del suo disfarsi e ormai sull’orlo di un’apocalissi, e con esso il senso di una tradizione e di una continuità, che si credevano perdute. Nel farlo, ci accompagna alla fonte, simile a quella di marmo bianchissimo che è all’inizio del Decamerone, da cui zampillano tutte le storie.
Intervistando la scrittrice in esclusiva per FamediSud, abbiamo cominciato col domandarle che cosa c’entri Napoli con Bisanzio…
Credo che la risposta più ficcante alla questione sia in una celebre frase di Curzio Malaparte che definiva Napoli l’unica città del mondo antico sopravvissuta nella modernità: le somiglianze fra Napoli e Istanbul sono moltissime, in questo senso. Benché Napoli sia parecchio più antica, entrambe le città sono state importanti capitali in cui la grecità ha avuto un ruolo centralissimo e fondante. Entrambe sono crogiuoli culturali di etnie, culture e religioni stratificate, entrambe hanno vissuto l’esperienza, tragica eppure anche vivificante per certi aspetti, di essere sottomesse a diverse dominazioni. L’immersione nel tempo verticale della Storia che le due città propongono a chi le visita è simile: entrambe sono città di continuo visitate da scrittori e artisti alla ricerca di un passato o di una identità perduta. Entrambe sono sfondo di narrazioni mitiche e fiabesche. Poi c’è il tempo vero della relazione, i lunghi secoli che collegano Napoli a Costantinopoli-Bisanzio a causa di ragioni politiche e amministrative. Certo, il Ducato napoletano non ha lo stesso destino dell’Esarcato di Ravenna o dei Temi di Sicilia e delle Calabrie ma l’impronta dell’Impero d’Oriente è fortissima sul piano amministrativo, burocratico, culturale. Il fatto che a Napoli il Duca si facesse chiamare Ipato come accadeva nelle alte sfere dell’Impero, che sul Pretorio fosse collocato un cavallo rampante come ce n’erano nell’Ippodromo di Costantinopoli (quelli famosi che ora sono a Venezia), che la gestione amministrativa, anche quando ormai Napoli era del tutto indipendente dall’Impero, restasse ad esso ispirata parla di un’identità culturale molto avvertita, che lega la città partenopea da sempre alla sua matrice fondativa greca, quasi saltando a piè pari la sua pur lunghissima storia romana. Insomma, stiamo parlando di due città situate non a caso su porti strategici che giocano un gemellaggio nemmeno troppo silenzioso nel cuore del Mediterraneo…
Come è nata in lei l’idea di raccontare Napoli in relazione a Bisanzio?
Mi incuriosiva la struggente melanconia con cui Benedetto Croce, Bartolomeo Capasso e numerosi altri storici fra Otto e Novecento guardavano a questo poco esplorato e mai narrato periodo del Ducato Bizantino, come a un sogno di indipendenza mai vissuto, a un paradiso irraggiungibile dall’ottica post-colonialista del Regno meridionale che lottava per diventare parte di un’unica nazione, da un lato, ma coltivava da sempre sogni di autonomia. Napoli libera? E com’è? Come era? E poi mi interessava moltissimo – mi ha sempre molto incuriosito insegnando a scrivere racconti e romanzi – l’alba della narrazione romanzesca così come noi la concepiamo. È in Omero? È nel romanzo greco o in quello alessandrino? O nel decaduto e disordinato romanzo bizantino che Boccaccio prende in giro nella novella di Alatiel, dove una vergine stuprata per tutto il Mediterraneo (ahinoi, il tempo delle donne non passa mai) arriva poi illibata al matrimonio? Tornare indietro alle forme che precedono Cervantes, di solito considerato all’unanimità il fondatore del romanzo moderno, mi portava per forza di cose a Bisanzio, così come ogni strada, diciamola tutta, riporta ad Ariosto o a Basile, insomma alla soglia del Rinascimento che è in fondo rifusione e reinvenzione della letteratura che viene da Oriente e da Occidente.
La Napoli di Morfisa é come Bisanzio caratterizzata da un mescolamento di lobby e di etnie. Cosa ha da insegnarci, in questo?
Le famiglie ebbero un peso importante nella storia della città: lo ricorda Amedeo Feniello quando allude ai clan di epoca angioina, un’ipotesi suggestiva che in fondo dice di Napoli la storia odierna, ovvero che, per superare la perdita di indipendenza dovuta al predominio straniero e normanno per primo, la città si organizzi in un sotto-stato legato ai poteri delle grandi famiglie. Però, Napoli è nel romanzo come nella storia che ci è stata tramandata dalle fonti per necessità un luogo di continuo melting-pot: riabitata dai Vandali africani dopo carestie e spopolamenti, capace di accogliere alessandrini e franchi, normanni e siriani, da sempre prodotto di un mescolamento naturale in tutto il Mediterraneo, dovrebbe insegnarci a non alzare barriere, come di fatto Napoli non ne ha mai alzate nella sua vicenda cittadina: e proprio non è il momento di cominciare… Nel romanzo si vede per un istante la composizione del Senato del Ducato che è ovviamente il prodotto di ogni Sud e di ogni Nord, di infiniti intrecci, amori, invasioni, relazioni commerciali… Noi siamo il mondo, questo raccontano in realtà le città di quello che a torto è chiamato Medio Evo, come se il buio fosse ovunque.
Molto della Napoli e più in generale del nostro Meridione bizantino ci è ignoto, per l’assenza o per l’aridità delle fonti. Forse è per questo che il romanzo storico ha bisogno di riversarsi quasi nel fantasy? Abbiamo bisogno, in un certo senso, di tradire la storia per potercela raccontare?
Le fonti del Ducato sono davvero poche, è vero, e molto difficili da leggere, come la scrittura curiale napoletana considerata la più difficile da interpretare di ogni epoca: ideogrammi, disegnini, parole criptate. È stato meraviglioso e spaventoso entrare nelle pagine di quegli anni da porte privilegiate, come gli scritti del prof. Nicola Cilento e di tanti altri storici, che occorreva per forza tradire: il romanzo non entra in gara con la Storia, come diceva Manzoni, può fornire versioni alternative, può raccontare quel che sarebbe dovuto accadere, come ricordava Enzo Striano. Nel mio caso, non è il romanzo storico come genere che mi interessa o pratico: in Morfisa è la letteratura a prevalere nettamente sulla Storia, di conseguenza era indispensabile il dato fantastico (e assolutamente non fantasy: il fantasy parla di mondi che non esistono e sono paralleli a quello reale, qui il dato magico scivola in una faglia della realtà verisimile e compone una visione, è cosa diversa: Kafka o Silvina Ocampo non sono fantasy, non più di Stevenson o Calvino, per intenderci). In ogni caso, tradire ovvero tradurre è il primo e unico gesto di chi racconta, da sempre e ovunque.
Quanto il Sud ha oggi bisogno, secondo lei, di riscoprire la sua eredità bizantina e perché?
Fa sempre bene conoscere meglio il proprio passato per non cadere in letture ideologiche del presente. Fa bene anche perché i pochissimi resti di un’epoca cancellata dalla vittoria schiacciante del culto romano hanno un serio bisogno di restauro e valorizzazione. Non si possono cancellare di colpo oltre seicento anni di Storia meridionale, non si possono ignorare: è un buco di conoscenza pericoloso, detta idee condizionate sui secoli a seguire, sulla nostra identità culturale, sui rapporti con il resto del Mediterraneo. Ed è anche un modo affascinante di far ripartire il turismo culturale in tante diverse zone del nostro Sud.
Il potere dell’acqua è, secondo Morfisa, quello delle storie. Che potere hanno le storie?
Hanno il potere più grande e il più sottovalutato: quello di farci sognare. Sogniamo perché la vita è breve e tormentata e chiede di essere vissuta in una prospettiva più ampia e collegata. Sogniamo perché la notte è spaventosa e al tempo stesso ricca di opportunità. Sogniamo perché sognare è realizzare i sogni che da sempre facciamo. Le storie e lo stile con cui le raccontiamo informano una nuova idea di bellezza: e la bellezza, ci piaccia o meno, è l’unica salvezza, nel senso antico e greco del termine.
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