di Enzo Garofalo
Signor Sindaco, vi prego di dire alla nostra diletta Palmi tutta la mia filiale riconoscenza e tutto il mio amore. Ditele che essa è e resterà nel mio cuore con un attaccamento tanto più vivo e tenace quanto più il cumulo degli anni affretta il mio distacco dalla vita.
Con queste parole, oggi scolpite sul mausoleo che dal 1962 custodisce le sue spoglie mortali, il compositore Francesco Cilea esprimeva il suo profondo legame con la natia Palmi, la bella cittadina affacciata su uno dei tratti più suggestivi della costa tirrenica calabrese. Parole appassionate, vergate in una lettera appena cinque mesi prima che la morte lo cogliesse a Varazze, comune ligure nel quale trascorse gli ultimi anni della sua vita insieme alla moglie Rosa Lavarello e che, in omaggio al suo talento musicale, gli aveva offerto la cittadinanza onoraria. Di Cilea, considerato uno degli ultimi grandi maestri italiani del melodramma, ricorrono quest’anno (2016) i 150 anni dalla nascita, circostanza che ci piace celebrare ripercorrendo alcuni momenti significativi della sua vita e soffermandoci a riflettere sul valore di quell’arte che lo avrebbe fatto assurgere a una fama internazionale ancora viva a 66 anni dalla sua scomparsa. A quest’ultimo scopo ci siamo affidati alla sapienza e alla sensibilità del M° Nicola Scardicchio, compositore, direttore d’orchestra e docente di Storia ed Estetica della Musica presso il Conservatorio “Niccolò Piccinni” di Bari, autore di una breve nota sulla musica di Francesco Cilea.
FRANCESCO CILEA: UNA VITA PER LA MUSICA
Quella per la musica fu per Cilea una vocazione rivelatasi prematuramente quando, ancora ragazzino, ebbe l’occasione di ascoltare nella villa comunale della sua Palmi il finale della celebre Norma del compositore siciliano Vincenzo Bellini, eseguito dalla banda musicale del paese. Una folgorazione che lo avrebbe presto distolto dagli studi giuridici a cui il padre Giuseppe, avvocato, intendeva instradarlo. Lo stesso musicista, nei suoi ricordi, narra della “profonda e avvincente commozione” provata di fronte alle note di quell’immortale capolavoro, capace di generare in lui “vivo stupore e quasi un desiderio di pianto”, emozione che sarebbe rimasta “incancellabilmente impressa” nel suo animo “assicurando al Bellini un’ammirazione non soggetta a contrasti”. Fu questo l’inizio di un percorso che lo avrebbe portato a studiare presso il prestigioso Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli dove un precoce talento e uno strenuo impegno gli valsero la medaglia d’oro del Ministero della Pubblica Istruzione.
Quegli anni di studio lo videro accanto a colleghi destinati, come lui, ad essere ricordati nei libri di storia della musica per le loro opere: dal foggiano Umberto Giordano, autore dell’Andrea Chénier, ai napoletani Ruggero Leoncavallo, autore di Pagliacci, e Franco Alfano, noto soprattutto per il finale della Turandot rimasta incompiuta a causa della morte di Puccini. Appena quattordicenne, Cilea era in loro compagnia a cantare nel coro del Conservatorio partenopeo quando, nel 1880, vi fece visita il celebre ed ormai anziano compositore tedesco Richard Wagner. Gli allievi lo accolsero eseguendo il Miserere del compositore pugliese settecentesco Leonardo Leo: “Giordano alto alto, io piccolo piccolo – avrebbe ricordato decenni dopo il musicista. “Quando arrivò Wagner vicino a noi ci sudavano le mani, non sapevamo più cosa rispondere a questo signore che ci diceva, guardandoci: ‘Tutti compositori’ ?”. Presto avrebbe rivisto Wagner anche nella Camera della Musica a Castel Capuano mentre infreddolito, sedeva tra Franz Liszt e Francesco Florimo (importante storico della musica, anch’egli calabrese come il Nostro) in attesa di ascoltare ancora quei musicisti in erba: “il Maestro ci dà lui il primo via, prima che ce lo dia il nostro…alla fine batte le mani e viene da noi. Dà la mano con gesto di augurio a quelli che ha più vicini, fino a raggiungere me e Giordano. Dà una mano a lui e l’altra a me. Non so quella di Umberto, certo la mia trema, tutta fredda in quella di Wagner”. Piccoli aneddoti che riassumono tutta l’emozione di un gruppo di ragazzi di provincia di fronte ad uno dei monumenti della musica europea.
Nell’Arte, espressione dello spirito, norma costante ed intransigente mi è stata sempre l’italianità, ammodernata nel progresso delle forme e della tecnica, mai soffocata, né deformata, come attestano e comprovano “Arlesiana”, “Adriana” e “Gloria”, le tre creature della mia fantasia e del mio sognato ideale.
Così Cilea amò descrivere il suo intimo rapporto con la musica operistica, quella con cui i posteri hanno soprattutto identificato la sua arte di musicista colto e raffinato. Un rapporto iniziato molto presto, a partire da quella Gina che nel 1889 presentò con successo nel teatrino del Conservatorio al termine degli studi. Un piccolo lavoro che tuttavia attirò su di lui l’attenzione dell’editore Sonzogno, il quale gli commissionò una Tilde, opera d’impronta verista composta da Cilea più per compiacere il prestigioso committente che non per reale convinzione; eppure fu un lavoro di buon successo di cui però, persa la partitura, sopravvive oggi solo la riduzione per canto e piano. La prima opera di cui invece rimane ancora oggi vivo il ricordo è L’Arlesiana, il cui libretto fu tratto dall’omonimo dramma di Alphonse Daudet e nel cui cast figurava un giovanissimo Enrico Caruso.
L’appuntamento cruciale per la carriera di Cilea fu però quello del 1902, al Teatro Lirico di Milano, con il debutto della sua Adriana Lecouvreur, opera in quattro atti su libretto di Arturo Colautti di ambientazione francese settecentesca, basata su un dramma di Eugène Scribe e destinata a diventare un’opera di successo internazionale, ancora oggi rappresentata nei maggiori teatri del mondo. Non a caso al principale ruolo femminile, ispirato alla figura di un’attrice della Comédie-Française realmente esistita, è legata la carriera di grandi interpreti del calibro di Magda Olivero, Renata Tebaldi, Leyla Gencer, Monserrat Caballé, Joan Sutherland, Raina Kabaivanska e Renata Scotto, solo per citare le più note. Alla fortunatissima prima milanese, nel ruolo di Adriana c’era il soprano Angelica Pandolfini, mentre in quello di Maurizio ritroviamo il grande tenore Enrico Caruso.
Nel 1907 il Teatro alla Scala di Milano fu invece lo scenario dell’ultima opera, Gloria, la sua preferita, basata su una pièce di Victorien Sardou. Diretta dal grande Toscanini, riportò nel tempo una serie di successi ma elementi di innovazione nella struttura compositiva pare l’abbiano resa ostica al grande pubblico di allora. Un mancato riscontro che, unitamente ai difficili rapporti subentrati con gli editori, spinsero Cilea ad abbandonare il teatro lirico. Musica da camera, vocale e strumentale, e musica sinfonica continuarono tuttavia a contrassegnare l’impegno artistico del compositore calabrese, insieme all’attività didattica che lo vide insegnante al Conservatorio di Firenze e successivamente direttore del Conservatorio ‘Vincenzo Bellini’ di Palermo e del Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, presso il quale concluse la carriera. Oltre che sui palcoscenici dei teatri d’opera, la sua memoria riecheggia nell’odierna intitolazione di alcune strade a Torino, Varazze, Trieste e Napoli, mentre Reggio Calabria ha voluto dedicargli il Conservatorio e il Teatro cittadino.
MEMORIE DI CILEA A PALMI
Palmi, la sua città natale, ha recuperato in pieno il proprio rapporto “materno” col musicista quando nel 1962 la salma vi venne traslata da Varazze, città ligure dove morì senza figli nel 1950 (lasciò infatti la sua villa alla Società Italiana Autori ed Editori, mentre i diritti d’autore andarono agli artisti della Casa di riposo G. Verdi di Milano): per accogliere la salma venne eretto su Piazza Pentimalli, nel centro storico di Palmi, un moderno mausoleo la cui realizzazione fu affidata all’architetto Nino Bagalà e allo scultore Michele Guerrisi, diventato meta di melomani e di musicisti come il M° Riccardo Muti che nel 2014 ha voluto rendere omaggio al compositore. Spartiti, bozzetti di scena, manoscritti e documenti relativi all’attività del Maestro, il calco in gesso della sua maschera funebre, oltre ad un epistolario di circa 5 mila lettere (in gran parte pubblicato negli anni ’90 a cura del Comune e del Conservatorio di Reggio Calabria), a una biblioteca musicale e a numerose fotografie, sono invece custoditi nel locale Museo intitolato a Cilea e al suo più “antico” collega, il compositore Nicola Antonio Manfroce, artista di grandissimo talento scomparso poco più che ventenne nel 1813. La sua casa natale sorgeva invece sulla via omonima, ma oggi, completamente ristrutturata, ha cambiato proprietà.
Come racconta in una sua raccolta di aneddoti il noto giornalista palmese Domenico Zappone, scomparso negli anni ’70, il legame di Cilea con la sua Calabria – anche nei lunghi anni della sua assenza – è sempre passato attraverso la musica: le sue opere – racconta Zappone – “dovevano figurare nel repertorio delle bande che venivano a Palmi o in Calabria durante le feste dell’estate, pena l’ostracismo”. Erano momenti di grande coinvolgimento “quando nel più religioso silenzio, la prima tromba attaccava le arie famose dei “Poveri fiori” e di ‘Io son l’umìle ancella’, e i palmesi si beavano fino al pianto in una specie di delirio e quasi deliquio che li rendeva irriconoscibili.” Zappone rievoca poi una visita del Maestro a Palmi nel 1932, della quale fu testimone diretto. Cilea mancava dal paese da diversi anni e nessuno lo aveva riconosciuto durante un suo giro in vari uffici. Felice di essere riuscito a sfuggire al prevedibile assalto dei concittadini, fu in realtà notato da qualcuno mentre si accingeva a ripartire in automobile. Inutile dire che in pochi attimi si ritrovò circondato da migliaia di persone, acclamato a gran voce e portato in trionfo sul tetto dell’auto lungo le vie principali del paese, “come i santi taumaturghi, accompagnato da una folla impazzita, additato ai pargoli perché ne tenessero a mente la immagine come quella di un dio, coperto di fiori lanciati dai balconi a ceste”, mentre una fanfara improvvisata intonava alla meno peggio arie e romanze delle sue opere.
Fu quindi condotto fin nella villa comunale con vista sullo Stretto e sulle isole Eolie, quand’ecco che un vecchio corista ottantenne, già interprete della sua opera giovanile Gina, ne intonò la romanza “Torna l’aprile, ritornano i fiori” ricevendo il commosso plauso del Maestro. Cilea tornava così, a pieno titolo, ad essere figlio di quella città il cui paesaggio – come avrebbe scritto anni dopo la poetessa polacca Kazimiera Alberti nel suo bel libro “L’anima della Calabria” – ha una stretta affinità con la sua musica: “il succo di poesia, le sfumature di incomparabile luce, la larga frase delle onde marine che da lontano colpì le orecchie del giovinetto; tutte le ispirazioni ideali (…) sempre risveglianti le più tenere corde del sentimento; insomma tutto il musicale paesaggio di Palmi ha trovato la sua profonda espressione nella musica di Cilea”.
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Riferimenti bibliografici:
– Kazimiera Alberti, L’anima della Calabria, Conte editore, Napoli, 1950
– Cynthia Cutuli, Pagine di Calabria, Rubettino editore, Soveria Mannelli, 2002
– Maria Grande, Francesco Cilea: documenti e immagini, Laruffa editore, Reggio Calabria, 2001
– Agnese Palumbo, Maurizio Ponticello, Il giro di Napoli in 501 luoghi, Newton Compton editori, Roma, 2014
– Leonida Repaci, Francesco Cilea, Rubbettino editore, Soveria Mannelli, 2000
– Domenico Zappone, Le maschere del Saracino e altre storie, Rubettino editore, Soveria Mannelli, 2014