di Kasia Burney Gargiulo
E’ già da alcuni anni che è guerra aperta intorno alla costruzione della Trans Adriatic Pipeline (TAP) il metanodotto lungo 871 chilometri che mira a collegare l’Azerbaijan con l’Europa dopo aver attraversato per 510 chilometri la Grecia e per 151 l’Albania con approdo a San Foca (marina di Melendugno), in provincia di Lecce. Ora sta per avvicinarsi la data fatidica nella quale sulla questione si esprimerà il governo italiano e l’atmosfera è tornata a surriscaldarsi. Oggetto del contendere è il rischio di gravissimo impatto ambientale che quest’opera andrebbe ad imporre ad un territorio che per il presente e l’avvenire della propria economia sta puntando tutto sul turismo e sulla conservazione dell’ambiente. A denunciarlo sono la Regione Puglia e i Comuni dell’area coinvolta, tutti sfavorevoli al progetto di impianto che, una volta attraversato l’Adriatico, dal litorale andrà a raggiungere Mesagne (Brindisi) per collegarsi alla rete nazionale, prevedendo anche una centrale di depressurizzazione tra ulivi e muretti a secco, con tutto ciò che ne consegue in termini di alterazione dell’ambiente.
Quella che si sta combattendo è una guerra di cifre e di scenari inquietanti che vede fronteggiarsi su posizioni contrapposte da un lato la multinazionale svizzera a cui è affidata la realizzazione del progetto e dall’altro la Puglia con le comunità locali su cui andranno a ricadere le conseguenze di un’opera del genere. La multinazionale descrive quest’opera come un progetto a bassissimo impatto ambientale, con il mare privo di ripercussioni, la spiaggia neppure sfiorata, la pineta costiera interessata solo nel sottosuolo dal passaggio del gasdotto, gli ulivi sradicati ma ripiantabili, i muretti a secco ricostruibili, il turismo senza calo ed i residenti ricompensati. Praticamente una favola, che i fautori contano di trasformare in realtà a partire dalla fine del mese di agosto quando dovrebbe arrivare l’ok del Governo all’inizio dei lavori.
A quanto affermano i responsabili della multinazionale, ci sarebbe già un accordo intergovernativo firmato, un parere favorevole dell’Unione Europea e un iter lungo e complicato da affrontare ma accettato senza problemi. Uno scenario nel quale non sembra però avere alcun peso il parere negativo della Regione Puglia nell’ambito della procedura di Valutazione di Impatto Ambientale, non vincolante e pertanto quasi irrilevante. Scarsa importanza sembrerebbe avere anche il profondo dissenso maturato da mesi sul territorio tra delibere negative dei Comuni, attivismo degli ambientalisti, rinunce alle sponsorizzazioni che la multinazionale va offrendo da tempo a sagre e feste patronali per accattivarsi il consenso della gente. Sarà la commissione nazionale V.I.A a dover dare il vero responso che se anche dovesse essere negativo, dovrebbe fare i conti con l’Autorizzazione unica necessaria per avviare i lavori.
Insomma sarà la politica nazionale e internazionale a fare da ago della bilancia, molto probabilmente anche a costo di scavalcare la volontà dei Salentini e delle autorità pugliesi. Manovre in tal senso si sono viste fin da luglio scorso quando il presidente della Repubblica dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev, è venuto a Roma per incontrare il presidente del Consiglio Matteo Renzi in seduta super riservata. Ed agli inizi di agosto, proprio a sottolineare il pressing internazionale in atto a favore della TAP, il quotidiano inglese The Guardian, scriveva del compito affidato a Tony Blair – ex premier laburista britannico ed ora lobbista per il consorzio che realizzerà l’opera – di agevolare la soluzione dei problemi “politici, sociali e di reputazione” con cui si sta confrontando il progetto.
Intanto in Puglia la levata di scudi contro la TAP è durissima. Da circa dieci anni una delle aree più depresse del Paese è in costante ascesa nel comparto turistico e culturale grazie ad un ricco patrimonio storico ed ambientale osannatissimo su quotidiani e periodici di tutto il mondo ma che ora rischia di vedere vanificati tutti gli sforzi compiuti per costruire un modello economico alternativo alla mostruosità dell’esempio Ilva di Taranto. Tutti parlano del Salento e dei suoi successi, ma forse pochi sanno quanto il Salento (in ciò accomunato ad altre zone del Sud) veda le proprie risorse ambientali e culturali costantemente minacciate da interessi economici senza scrupoli dai quali il territorio è costretto a difendersi.
Vediamo come gli oppositori della TAP ne sconfessano le magagne. Mentre sul sito ufficiale della multinazionale si continua a minimizzare le ripercussioni di quest’opera affermando che “la realizzazione del gasdotto non comporterà l’industrializzazione dell’area né tanto meno apporterà modifiche al magnifico paesaggio”, la realtà appare ben diversa se solo ci si prende la briga di esplorare le caratteristiche del territorio. Un fittissimo intrico di uliveti secolari e macchia mediterranea, una rete di piccoli ma proficui allevamenti di greggi ed asini, masserie e piccole abitazioni rurali, sentieri che tracciano il percorso in terreni costellati da chiesette e megaliti preistorici.
Tutto questo dovrebbe fare i conti con un tunnel largo tre metri che a 800 metri dal litorale di San Foca si infilerà nel fondale fino a 18 metri di profondità. In base al progetto definitivo redatto da Saipem, all’imboccatura, sul fondo marino, sarà costruito un terrapieno in calcestruzzo cementizio collocato proprio di fronte alla spiaggia per il quarto anno contrassegnata dalla Bandiera Blu per la qualità del mare. Il tubo passerà quindi sotto la pineta costiera per riemergere poco oltre in un pozzo artificiale da dove proseguirà per ben otto chilometri nell’entroterra. Il passaggio, con interramento di un metro della conduttura, prevede l’abbattimento di 1.900 ulivi, da ricollocare altrove o destinare alla combustione.
Ad infliggere una lacerante ferita alla ridente campagna punteggiata di trulli e masserie sarà poi anche la centrale di depressurizzazione, estesa su dodici ettari. Sarà sede di due macchine termiche a gas della potenza di 3,5 megawatt, con due camini alti dieci metri per smaltire i fumi delle combustioni. E’stato proprio questo uno dei punti nodali che ha fatto scendere in campo, a fianco degli oppositori anche la Lilt (Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori), la quale ha rimarcato come il Salento, già territorio ad alto tasso di incidenza del tumore al polmone negli uomini, non possa concedersi l’inalazione di altre emissioni nocive. A tutto questo va infine aggiunto l’espressa previsione che tra cinquant’anni le condutture in terra e in mare si trasformeranno in relitti inutilizzabili con ovvi “problemi di liberazione progressiva di polimeri, metalli, residui solidi del passaggio del gas naturale oltre che naturalmente gli altri problemi geomorfologici e geoidrologici, biologici e ecosistemici in genere legati alla presenza dell’infrastruttura”, come si può leggere nel rapporto depositato dal Comune di Melendugno al Ministero dell’Ambiente ed elaborato da decine di esperti, fra tecnici e giuristi, coordinati dal prof. Dino Borri, ordinario di Ingegneria del Territorio al Politecnico di Bari.
Fatte queste considerazioni e preso atto di questi dati, sorge spontanea una domanda: come potrebbe tutto ciò essere compensato da un’opera ricostruttiva una volta posta in atto la devastazione? E soprattutto, perché mai i salentini ed i pugliesi tutti dovrebbero rinunciare ad un patrimonio unico al mondo, fonte di economia turistica ecocompatibile, per cedere il posto ad un gasdotto che a conti fatti avrà una ricaduta economica pari quasi a zero?
E che questa sia la realtà lo dicono i numeri: in fase di cantiere, tra il 2016 e il 2019, saranno impiegati a tempo determinato appena cinquanta persone, che saranno ridotte a una decina in fase di esercizio. Secondo quanto dichiarato dalla stessa società (fonte: Rapporto di VIA, Allegato Impatti e Mitigazioni), lavoratori locali o italiani non potranno avere corsie preferenziali rispetto ad altri candidati maggiormente qualificati. Addirittura in un altro documento (Esia) si parla espressamente di “aspettative disattese in termini di occupazione di forza lavoro locale”. Quanto all’indotto, è ben poca cosa rispetto a quanto è già in grado di produrre il turismo: basti pensare che nell’estate 2013 San Foca ha registrato ben 400 mila presenze.
A chi servirà dunque questo gasdotto? Certo non alla Puglia. Ci sono seri dubbi che serva all’Italia, dati i consumi in crescente calo ed il surplus di metano attualmente esistente. TAP servirà forse all’Europa che la considera un’opera strategica, sebbene a quanto pare non basterà da sola a soddisfare le esigenze ora coperte da Gazprom né a rendersi autonomi dalla Russia. Resta quindi il dubbio pressante che alla fine TAP servirà davvero solo all’Azerbaijan e alla stessa multinazionale svizzera incaricata di costruirla.