di Carlo Picca
Leonardo Palmisano è nato nel 1974 a Bari, città dove attualmente vive. Insegna Sociologia Urbana alla facoltà di Ingegneria Edile e Architettura del Politecnico. E’ laureato in Lettere con una tesi in Sociologia ed ha completato in Tunisia un dottorato in Economia e Demografia lavorando sulle migrazioni dall’Africa Centrale verso il Maghreb. Progetta e dirige percorsi di partecipazione per la rigenerazione urbana e coordina gruppi di ricerca su temi diversi: territorio, anziani, immigrazione, scuola, ambiente, povertà, prostituzione, criminalità, lavoro e lavoro nero. Ha da poco pubblicato un libro denuncia, Ghetto Italia, per FandangoLibri, con Yvan Sagnet, un reportage sulla condizione dei braccianti stranieri che vivono nei ghetti italiani che sta facendo molto discutere. Molto disponibile, lo abbiamo incontrato per scambiare qualche battuta sulla sua vita e sulla sua attività di scrittura.
Leonardo Palmisano, Ghetto Italia è un libro denuncia che ha acceso riflettori e suscitato attenzioni non sempre positive, se pensiamo alle intimidazioni che lei ha subito. Perchè un lettore dovrebbe leggerlo?
Ghetto Italia è il primo reportage narrativo sulla condizione dei braccianti che vivono nei ghetti, in Italia. Un romanzo che entra nei ghetti e dà voce ai protagonisti. Un lettore dovrebbe leggerlo per almeno due motivi: perché non è mai stato fatto un lavoro del genere in Italia, si tratta di una novità assoluta, e perché quello che rivelo in questo reportage racconta quanto sia ormai disastrato e feroce il nostro Paese, da Sud a Nord. Ho reagito denunciando in procura, contattando le forze dell’ordine. Le minacce o pseudotali rivelano quanto siamo stato capaci di interpretare il fenomeno del nuovo caporalato. Abbiamo cominciato a toccare interessi forti e il nostro lavoro sta muovendo qualcosa anche dalle parti del crimine. Meglio così.
La sua scrittura denota una certa padronanza della narrazione e della descrizione dei fatti, i suoi autori di riferimento quali sono ?
Tante e tanti. La Yourcenar, per il vocabolario; Vassilj Grossman, per la dedizione appassionata; Dante, per la vastità di temi e di scene; Izzo, Carlotto, Simenon, Volponi, Camus, Alkseievic, Faulkner, Murakami, Nothomb, Houellebecq… E molti altri. Li uso come posso, per i temi, le parole, le aperture, i cieli che dipingono o gli inferni che mi consegnano. Leggo anche saggistica, poesia, filosofia. In fondo leggo il leggibile, mentre lascio sugli scaffali l’oltraggioso illeggibile.
Il suo libro si può definire certamente un libro-inchiesta, cosa ne pensa dello stato del giornalismo in Italia?
Lo stato del giornalismo in Italia è stato ampiamente criticato, anche troppo negativamente. Penso che c’è giornalismo buono quando c’è formazione, quando c’è inchiesta fatta facendo parlare le persone e gli archivi, non solo le dichiarazioni dei protagonisti…Sono aspetti che riguardano lo stato culturale del Paese. C’è tanta stampa buona precaria e sottopagata, che rischia la pelle e le querele per due lire, ma pochi sono gli editori capaci di sostenerla. C’è anche stampa improvvisata, cialtrona, perché c’è chi la paga tanto. Forse questo è il punto vero: per fare buona stampa ci vogliono nuovi editori, giovani, colti, non ricchissimi ma ambiziosi. Quasi quasi mi metto a fare l’editore!
Il complimento più bello e la critica che più l’ha colpita, fra quelli ricevuti…
Il complimento più bello viene proprio dalla critica: ‘Una durissima inchiesta sulle condizioni di vita dei braccianti stranieri nelle campagne italiane’. L’ha scritto Loredana Lipperini su Repubblica a fine febbraio, e ha colto molto meglio di altri la fatica dura di questa inchiesta. Doppia fatica: farla e poi trasporla in una forma narrativa accessibile a un numero potenzialmente molto ampio di lettori e lettrici. Diciamo che la Lipperini ha centrato il bersaglio e mi ha commosso.
Che progetti hai per il futuro?
Molti progetti. Il primo è vivere dentro le scritture. Ho molto lavoro alle spalle, molta roba che non vede l’ora di uscire, di rinascere dalla sepoltura nel cassetto. Poi voglio partire, riprendere a fare reportage da mondi altri. Ghetto Italia è stato un ritorno ai migranti, ora voglio andare dove migranti non ci sono, ma ci sono radici. In Africa centrale, per esempio.
© RIPRODUZIONE RISERVATA