di Redazione FdS
La storia che stiamo per raccontarvi ha le tinte del giallo internazionale, e sebbene la sua trama sia stata in gran parte ormai dipanata, potrebbe riservare ancora dei risvolti inediti. Tutto inizia nel 1987 con una cartolina di saluti e di auguri di buon lavoro raffigurante una straordinaria scultura antica in marmo policromo con due grifoni alati che sbranano una cerva. Quella scultura è un Trapezophoros, ossia la base di una mensa rituale del IV sec. a.C. proveniente dall’Italia meridionale ma esposta in una sala del Getty Museum, celebre museo californiano spesso al centro delle cronache legate al traffico internazionale di reperti archeologici. A inviare quella cartolina, a un ufficiale del comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri, è un noto avvocato, abituale patrocinante in processi a carico di tombaroli. La cosa ha tutta l’aria di essere una sorta di invito subliminale ad occuparsi di quel magnifico oggetto d’arte finito chissà come negli Stati Uniti.
UNA SORPRENDENTE SCOPERTA IN SVIZZERA
Accantonata la cartolina, qualcosa di inaspettato accadde nel 1995 quando un filone di un’indagine condotta dal compianto magistrato della Procura di Roma, Paolo Giorgio Ferri, approdò in Svizzera. In quella occasione i Carabinieri portarono a buon fine un’eccellente operazione che inflisse il primo durissimo colpo alla grande razzia di beni archeologici da decenni consumata in Italia. Si scoprì infatti che una vasta costruzione con all’interno decine di container blindati, dal contenuto riservatissimo, ubicata nel Porto Franco di Ginevra, era in realtà una importante centrale operativa dell’archeo-crimine. Gli investigatori, in seguito ad una indagine relativa ad un furto di opere d’arte avvenuto a S. Felice Circeo, ottennero una rogatoria internazionale che consentì loro di entrare nel deposito di una società riconducibile a un noto antiquario romano: 240 mq assicurati per due milioni di dollari. Un vero tesoro: oltre a migliaia di reperti e documenti, gli investigatori trovarono e sequestrarono un’infinità di polaroid raffiguranti reperti non ancora restaurati, spesso appena estratti illecitamente dal terreno. Era consuetudine che i tombaroli le usassero per garantire l’autenticità degli oggetti agli occhi del mercante d’arte così come del cliente finale.
Nel 1997 il pm Ferri affidò ai consulenti Maurizio Pellegrini e Daniela Rizzo, archeologi della Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale, e ad alcuni accademici, il compito di svolgere, insieme ai Carabinieri del TPC, una approfondita analisi delle fotografie, dei reperti e della documentazione sequestrati a Ginevra. L’analisi, svolta per qualche anno nella città svizzera e successivamente a Roma, appurò l’origine illecita di numerosi reperti, tra cui alcuni esposti in musei stranieri, oltre a mettere in evidenza il ruolo strategico di note case d’asta nel conferire una patente di provenienza lecita ad oggetti in realtà provenienti direttamente dal sottosuolo. Nel 2000 i magistrati svizzeri finalmente inviarono alla Procura di Roma il materiale sequestrato a Ginevra e i carabinieri provvidero a ricavare copia della documentazione scritta e fotografica, mentre i reperti furono depositati al Museo di Villa Giulia. Durante lo studio del materiale fotografico, il consulente Maurizio Pellegrini individuò le polaroid di reperti appena scavati, tra cui quelle che ritraevano il Trapezophoros del Getty suddiviso in più pezzi, uno dei quali riposto nel cofano di un’auto su fogli di un giornale italiano.
I tombaroli avevano volutamente frantumato la scultura per riuscire a trasportarla. Quelle immagini evidenziavano in modo chiaro come l’oggetto fosse stato rinvenuto nell’ambito di uno scavo clandestino eseguito in Italia e poi fatto espatriare fino ad arrivare nelle sale del museo americano. Dal materiale emerse anche una immagine privata del mercante che lo ritraeva in posa davanti ai Grifoni nella sala del museo californiano, secondo una prassi, riscontrata anche in immagini di un altro noto intermediario, per la quale innocenti foto-ricordo attestavano invece le vendite portate a segno. Il maresciallo Salvatore Morando, della sezione archeologia del nucleo speciale dei Carabinieri, che aveva curato il trasferimento in Italia dei materiali sequestrati in Svizzera, riconobbe nelle polaroid con i Grifoni lo stesso reperto del Getty raffigurato nell’enigmatica cartolina arrivata al Comando anni prima; inoltre, basandosi sugli ingrandimenti degli scatti in cui si scorgevano alcuni giornali in lingua italiana, riuscì a identificarne la matrice pugliese, aprendo così uno spiraglio su una possibile pista d’indagine a livello locale.
I RIMORSI DI UN TOMBAROLO
La lunga inchiesta fu intanto intervallata da trasferte interlocutorie del pm Ferri e dei suoi consulenti presso il Getty Center di Malibu, quand’ecco arrivare, nei primi anni 2000, una nuova svolta che ebbe per protagonisti i due marescialli dei Carabinieri Roberto Lai e Salvatore Morando. Questi si recarono a casa di Savino Berardi, un vecchio tombarolo di Stornarella, nel foggiano, con la speranza che fosse in grado di fornire informazioni su quel trafugamento avvenuto molti anni prima. Abbiamo parlato con Roberto Lai – oggi ex maresciallo e libero professionista impegnato come consulente investigativo nella lotta al crimine contro il patrimonio culturale nonché collaboratore del web magazine di settore JCHC – per farci raccontare come andarono realmente le cose con Berardi e gli incredibili sviluppi successivi che permisero, insieme alle prove già raccolte e dopo numerose difficoltà, di riportare in Italia il Trapezophoros, oggi magnificamente esposto nel Polo Museale di Ascoli Satriano (Foggia). Restituzione alla quale seguì anche quella di altri pregevolissimi reperti e di una serie di frammenti, tutti facenti parte dello stesso corredo funerario rinvenuto in quel lontano scavo clandestino, molto probabilmente all’interno di una ricca tomba a camera del IV sec. a.C. riconducibile all’aristocrazia daunia, che intratteneva stretti rapporti con le popolazioni di cultura magno-greca.
Il Trapezophoros si sarebbe infatti presto ricongiunto con una serie di splendidi vasi modellati nel marmo bianco di Paros, tra cui un cratere e un podanipter (o lekanis), rarissimo bacino rituale policromo con scena raffigurante la dea Teti con Nereidi e Ippocampi che trasportano le armi di Achille forgiate da Efesto. Insieme formano un gruppo di opere la cui bellezza lascia senza fiato e che, da sole, valgono un viaggio ad Ascoli Satriano. Noi le visitammo nel 2015 poco prima che l’allora Assessore alla Cultura Biagio Gallo accompagnasse il Trapezophoros all’EXPO internazionale di Milano, dove rimase esposto in rappresentanza dell’Italia. Ma torniamo ai retroscena di questo eccezionale recupero.
Parlando con Lai scopriamo così che la visita a casa del tombarolo Berardi aveva già avuto un prologo in un’aula giudiziaria: “Agli inizi del 2002 – racconta l’ex maresciallo – incontrai Savino Berardi presso il tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Entrambi ci trovavamo nella stessa aula, lui come imputato poiché coinvolto in traffici di reperti archeologici nell’operazione denominata “Gerione”, io come testimone per essere stato uno degli investigatori. Alla fine del processo si avvicinò e mi chiese se stavamo ancora indagando sul Trapezophoros. Risposi chiaramente di sì e aggiunsi che il Getty Musem, pur messo di fronte all’origine illecita del reperto, continuava a tergiversare. Mi invitò così ad andarlo a trovare in Puglia, a Stornarella, dicendomi testualmente “ve lo faccio recuperare io perché sono io quello che l’ha scavato”.
LA CONFESSIONE
Il mistero sull’origine di quell’oggetto straordinario sembrava dunque vicino a una soluzione. A causa di vari altri impegni di lavoro passò qualche mese prima che Lai riuscisse a organizzare la visita a casa dell’uomo: “Parlai dell’invito di Berardi al collega Morando – ricorda -, quindi decidemmo di andare a trovarlo in Puglia. Berardi era gravemente ammalato e ci fece una richiesta sorprendente. Con tono accorato ci chiese di fargli una promessa: che avremmo fatto tutto il possibile per riportare i Grifoni ad Ascoli Satriano”. I ricordi del vecchio tombarolo cominciarono così a fluire come un fiume in piena: “Berardi ci raccontò che una notte del 1978, una come tante, stava scavando insieme ad altri complici nell’area in cui era in costruzione un impianto per lo smaltimento dei rifiuti. La stretta buca che andavano praticando nel terreno rivelò improvvisamente una grossa cavità. Con una buona dose di coraggio si calò nell’antro buio dotato soltanto di una piccola torcia, ma col suo occhio esperto ci mise un istante a capire di aver scoperto qualcosa di eccezionale. Aggiunse di essersi calato con una fune in un ambiente profondo almeno 4/5 metri. Con la torcia si faceva largo tra diversi marmi, rimanendo folgorato dalla loro policromia ed impressionato da alcune colonne, talmente grosse da non riuscire ad abbracciarle. L’ambiente era pieno di reperti, ma presto dovettero interrompere per un pericolo di crollo. Secondo il Berardi quell’ambiente doveva essere una tomba, ma non escludeva si potesse trattare di un tempio. Disse che sicuramente era la scoperta più importante che avesse mai fatto. A quel tempo era giovane e nel pieno delle forze, nonché il tombarolo più famoso tra quelli attivi nella zona”.
Il racconto del Berardi ai due militari prosegue fornendo dettagli sempre più sorprendenti: “Una volta dentro quella voragine, disse di essersi guardato intorno e di aver notato una grande lastra di marmo. Sopra c’erano 8 vasi affusolati, sempre di marmo. E soprattutto due oggetti assolutamente straordinari: un alto cratere, scolpito nel marmo cristallino e trasparente, decorato con una corona d’oro a foglie d’edera e grappoli di frutta, e una lekanis, ovvero un tipico bacile per uso cerimoniale: sul fondo era raffigurata la scena del trasporto delle armi di Achille da parte delle Nereidi che cavalcano mostri marini. Una scena vivida come se fosse stata dipinta oggi. Prima di tornare in superficie però, qualcosa sul fondo della tomba attirò l’attenzione di Berardi che puntò la torcia per vedere meglio: dal buio vide emergere un gruppo scultoreo dalle straordinarie forme modellate nel marmo. Una volta portato fuori, di fronte alla banda di tombaroli si materializzò un’autentica meraviglia: una coppia di grifoni scolpiti in un prezioso marmo policromo. Le loro ali azzurre si aprivano verso l’alto mentre coi becchi adunchi divoravano una cerva inerme. Le estremità delle ali erano arrotondate perché sopra ci si potesse appoggiare una lastra di marmo che serviva da tavola per le offerte. Solo in seguito Berardi e i suoi soci vennero a conoscenza di aver scoperto ciò che gli esperti chiamano Trapezophoros, un pezzo unico al mondo. Oltre a questi tre preziosi reperti, portarono via altri frammenti di marmo destinati ad essere smembrati”.
I REPERTI MANCANTI
Berardi – aggiunge Lai – volle quindi mostrare a lui e al suo collega il luogo preciso in cui aveva avuto luogo lo scavo, dopodiché confidò loro un episodio accaduto nei giorni successivi: “Ci disse di aver mostrato i reperti, subito dopo lo scavo, a un noto ricettatore della zona che, pur rendendosi conto di avere davanti dei pezzi di grande valore, provò come al solito a tirare sul prezzo. Contrattarono, senza però riuscire a mettersi d’accordo. Il ricettatore andò via, sicuro che di lì a qualche giorno lo stesso Berardi si sarebbe rifatto vivo pregandolo di accettare quanto gli aveva offerto. Nel frattempo però andò a trovarlo un tipo distinto presentatosi come un antiquario romano e mise sul piatto un bel po’ di denaro. Ovviamente Berardi, senza pensarci due volte, gli vendette i reperti ritenuti più importanti, tenendo per sé gli altri marmi. L’antiquario caricò tutto sulla sua station wagon e ripartì per Roma. Quando il ricettatore locale tornò al garage per riprendere la trattativa, apprese che il tombarolo aveva già venduto i pezzi più pregiati a un altro, quindi andò via fortemente contrariato. Per ripicca fece una telefonata anonima alla Guardia di Finanza, indicando subdolamente Berardi come contrabbandiere di sigarette. Presa per buona la soffiata, i finanzieri andarono a perquisirgli la casa ma, come previsto dal suo accusatore, non trovarono sigarette, bensì i reperti che Berardi aveva tenuto per sé.”
UNA CACCIA AL TESORO
E qui comincia la parte paradossale della vicenda. Di quei reperti sequestrati dalle autorità si era persa traccia, eppure avrebbero potuto rivelare molto sul nucleo originario di oggetti trovati nello scavo clandestino. “Certamente – aggiunge Lai – Berardi conosceva il valore di quei reperti, e sebbene questo non fosse facile da riconoscere per un non esperto, i finanzieri li sequestrarono ugualmente. Berardi ci disse che dovevamo assolutamente rintracciarli, poiché quegli oggetti erano tutti riconducibili alla tomba principesca da lui profanata ad Ascoli Satriano. Con il collega Morando iniziammo la ricerca. La prima tappa fu la Pretura di Foggia. Qui trovammo un collega, il maresciallo Foglia, che si offrì di darci una mano dicendoci che prima di tutto bisognava cercare nella ‘bandetta’, un enorme faldone di fogli di carta leggerissima con l’elenco di tutti gli arresti degli ultimi decenni. La scovammo e dentro c’erano i documenti risalenti a 30 anni prima riguardanti il procedimento a carico di Berardi. La tappa successiva di questa sorta di caccia al tesoro fu la Pretura di Orta Nova. Arrivati lì trovammo però una brutta sorpresa: uffici e magazzini non esistevano più. I documenti che vi erano custoditi, tra cui le carte del processo a Berardi con l’indicazione di destinazione dei reperti sequestrati, erano stati messi in un container e portati alla nuova Pretura di Cerignola. Rintracciato il container, vi entrammo e ci trovammo di fronte a centinaia di faldoni tanto malridotti da essere buoni solo per il macero. Malgrado polvere e muffa, ci mettemmo subito al lavoro. Alla fine i nostri sforzi vennero premiati: trovammo il fascicolo con le informazioni che cercavamo e che ci indirizzarono verso il Comune di Foggia”.
Quell’assurdo gioco dell’oca si avviava finalmente alla conclusione, non senza ulteriori colpi di scena:“Partimmo per Foggia non prima di esserci consultati con la locale Soprintendenza, che confermò l’esistenza di un suo deposito nel sottotetto del palazzo del Comune. Tra centinaia di scatoloni dimenticati ne individuammo uno col cartellino “Berardi Savino”. Erano 19 marmi e finalmente li avevamo trovati. Informammo subito il compianto pm Paolo Giorgio Ferri che, felicissimo, si complimentò e, comprendendo l’importanza dell’operazione, ci invitò a compilare un verbale di sequestro e a trasferire i beni a Roma. Il sequestro fu convalidato la mattina successiva. Tornati a Roma coi reperti, li pulimmo dalla polvere e il collega Sebastiano Antoci li ricompose. Fu un’emozione incredibile che però si interruppe bruscamente nel momento in cui un’archeologa riferì trattarsi di pinnacoli e balaustre ottocentesche. Con Morando ci guardammo e capimmo il motivo per cui quelle meraviglie erano rimaste dimenticate in un sottotetto per 30 anni.”
VERSO LA SOLUZIONE DEL CASO
A riprendere però il bandolo della matassa fu il prof. Angelo Bottini, allora a capo della Soprintendenza per i beni archeologici di Roma: “Lo chiamammo e alla vista di quei reperti quasi svenne. L’archeologo evidenziò la palese corrispondenza tra i reperti recuperati a Foggia e gli oggetti acquistati dal Getty Museum: la stessa varietà di marmo, la stessa decorazione policroma, come successivamente confermato da indagini petrografiche, geochimiche e archeometriche. Si arrivò quindi ad una svolta decisiva nel caso: l’indagine che portò al recupero dei frammenti sequestrati a Berardi si intrecciò con quella sui marmi posseduti dal Getty. I reperti foggiani furono infatti acquisiti quale fonte di prova nel processo in corso”.
È il 2006, e mentre a Roma è in corso il processo contro Marion True, ex curatrice per le antichità del Getty Museum, finita nelle maglie della giustizia italiana insieme a un noto venditore americano di antichità e a un altrettanto noto antiquario romano, processato con rito abbreviato e condannato in prima istanza nel 2004, un altro importante documento va ad aggiungersi agli altri pesanti indizi a carico del museo americano in relazione al Trapezophoros e agli altri reperti trafugati ad Ascoli Satriano: due giornalisti del Los Angeles Times, Jason Felch e Ralph Frammolino – autori del libro-inchiesta “Chasing Aphrodite: The Hunt for Looted Antiquities at the World’s Richest Museum” che valse loro un posto da finalisti al Premio Pulitzer 2006 per il giornalismo investigativo e reca in copertina proprio i Grifoni di Ascoli Satriano – contattano il magistrato Ferri per sottoporgli una nota riservata del museo, risalente al 1985, avuta da una fonte confidenziale: la nota, indirizzata da Arthur Hougthon, predecessore della True alla sezione antichità del Getty, a Deborah Gribbon, direttrice associata del museo – rivela come al Getty fossero consapevoli della provenienza illecita dei reperti di Ascoli Satriano.
Houghton riferisce infatti di aver acquistato il trapezophoros, la lekanis e numerosi altri frammenti di marmo da Maurice Templesman, famoso mercante di diamanti belga-americano, che si avvalse come intermediario di un noto antiquario inglese, tra quelli di maggior successo in quegli anni, poi rivelatosi anche uno spregiudicato trafficante. A lui il museo pagò 2,2 milioni di dollari per la lekanis e 5,5 milioni di dollari per i Grifoni. Nella nota viene citato anche il succitato antiquario romano come “il mercante che aveva acquistato gli oggetti da chi li aveva scavati”, il quale gli avrebbe riferito che gli oggetti provenivano da una tomba pugliese “che includeva anche molti vasi del Pittore di Dario” [questo dei vasi è un filone della vicenda che tratteremo prossimamente – NdR].
Il risultato dell’infaticabile lavoro – che per anni ha visto all’opera la Procura di Roma col pm Paolo Giorgio Ferri, il nucleo speciale dei Carabinieri, i funzionari di Soprintendenza, l’allora avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli, esperto giurista oltre che abilissimo diplomatico nei rapporti coi musei stranieri – è finalmente arrivato nel 2007 quando il Getty Museum, di fronte alle prove schiaccianti e a seguito delle polemiche scatenate sia dal processo romano a carico di Marion True, sia dal procedimento civile attivato dall’avvocatura Generale dello Stato, ha finalmente restituito all’Italia il Trapezophoros, via via seguito dagli altri marmi provenienti dalla tomba di Ascoli Satriano. Inutile dire che in sede di restauro si constatò come alcuni frammenti spediti dal Getty combaciassero perfettamente con i vasi trovati a Foggia dai carabinieri Lai e Morando. Ricomposto il corredo (sicuramente ancora incompleto), dopo l’accurato restauro dei capolavori eseguito da Giovanna Bandini e dalla sua equipe romana, tutti i reperti sono da qualche anno ammirabili nel museo della cittadina pugliese.
IL LUOGO DELLO SCAVO CLANDESTINO E LA PROBABILE ESISTENZA DI ALTRI REPERTI
Rimane però da raccontare un ultimo importante pezzo della storia. Durante la visita a casa Berardi, i marescialli Lai e Morando furono condotti dal tombarolo sul presunto luogo di quell’ormai lontano scavo clandestino. Una rivelazione della cui autenticità Lai si dice ancora oggi convinto: “Penso ci abbia detto la verità perché era gravemente ammalato, quindi ritengo che in qualche modo abbia voluto sdebitarsi per i tanti danni arrecati al patrimonio culturale. Ci portò in un luogo ben preciso del Comune di Ascoli Satriano e ci pregò di intercedere presso la Soprintendenza affinché venisse disposto uno scavo scientifico. Disse che ne sarebbe valsa la pena ma che si sarebbe dovuto scendere in profondità, a 4/ 5 metri o forse più. Fu il suo modo per riconciliarsi con un territorio della cui storia non aveva avuto rispetto. Quando ci recammo sul sito mi resi conto che la vegetazione aveva oramai ricoperto tutto, la natura si era ripresa i sui spazi. Credo, come ha affermato anche il prof. Bottini in un’intervista televisiva, che in quel luogo possa ancora giacere parte di quella tomba principesca di cui abbiamo avuto la fortuna di recuperare alcuni capolavori…altro che pinnacoli e balaustre ottocentesche!”
I due carabinieri mantennero la parola rapportando alla Soprintendenza la segnalazione fatta dal Berardi, riferibile peraltro a un luogo adiacente a un’area ad alta densità archeologica ben nota alle autorità. La rivelazione non produsse effetti immediati, ma non fu accolta con scetticismo se si pensa che in un’intervista del 2013 l’allora Direttore generale alle antichità Luigi Malnati – esprimendo un’idea condivisa anche dal Comune di Ascoli Satriano – non solo sosteneva che certamente altri pezzi di quel corredo mancassero all’appello, ma che fosse quanto mai necessario identificare il contesto per permettere almeno ai reperti già recuperati di “poter parlare”, ossia di svelare l’ambiente socio-culturale in cui ne erano maturati la produzione e l’utilizzo. Un obiettivo utile ad evitare – concludeva Malnati – che quegli oggetti siano sì delle “bellissime opere d’arte” ma “senza significato”. “Tutto ci fa pensare – aggiunse – che ci sia altro materiale in giro. Vedrete che la tomba dei Grifoni prima o poi la troviamo”. Un’aspirazione che ad oggi non ha ancora trovato realizzazione. Pochissimi anni fa – racconta Roberto Lai – la Soprintendenza di Foggia ha tentato un’esplorazione dell’area, ma fu poco più che una ricognizione: “si trattò di un’indagine insufficiente, brevissima e molto in superficie, non avendo raggiunto quella profondità di 4-5-6 metri indicata a suo tempo da Berardi.”
QUANDO UN NUOVO SCAVO?
Alcune fonti vicine agli ambienti della Soprintendenza, oltre a confermarci che effettivamente quella ricerca è stata brevissima e ad ipotizzare che un intervento così sommario sia stato determinato da una serie di avvicendamenti nei quadri dirigenziali dei Beni Culturali, ci hanno fatto sapere che fortunatamente l’intenzione di proseguire nelle ricerche della tomba dei Grifoni non è venuta meno. La Soprintendenza di Foggia-BAT, sulla base di fondi già individuati allo scopo, avrebbe infatti in programma di affidare al CNR una serie di indagini geofisiche e di telerilevamento volte alla ricerca di quell’ambiente ipogeo che, se individuato, potrebbe riservare interessanti sorprese. Intanto ad Ascoli Satriano non manca chi si dice convinto che il Getty non abbia restituito tutti i reperti in suo possesso. Il giallo continua.
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Per visite al Polo Museale di Ascoli Satriano (Foggia):
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Sito web: polomusealeascolisatriano.blogspot.it
Riferimenti bibliografici:
Angelo Bottini, Elisabetta Setari (a cura di), Il segreto di marmo. I marmi dipinti di Ascoli Satriano, Catalogo Electa, Milano, 2009, pp. 88
Fabio Isman, I predatori dell’arte perduta, Skira, Milano, 2009, pp. 256
Maurizio Pellegrini, Intrigo internazionale, in Archeo n. 357, Maggio 2016, Timeline Publishing, pp. 65-72