di Alessandro Novoli
Se le tracce più remote ad oggi trovate di produzione d’olio d’oliva si fanno risalire al 4000 a.C. in Armenia e Palestina, luoghi nei quali il prezioso fluido vegetale veniva utilizzato soprattutto come unguento per la pelle, per alimentare le lucerne e come medicinale, in Europa le tracce più antiche erano state finora rilevate in alcuni vasi scoperti a Cosenza (Calabria) e a Lecce (Puglia) e risalenti al XII e XI secolo a.C., epoca in cui verosimilmente le tecniche di coltivazione dell’olivo e quelle di produzione dell’olio, nonché lo stesso prodotto finito, cominciarono a circolare sulla scia degli antichi contatti commerciali con il mondo ellenico. In realtà un recente studio, effettuato su reperti custoditi presso il Museo Archeologico di Siracusa, ha rivelato la presenza di tracce d’olio d’oliva risalenti addirittura a oltre 4000 anni fa. Determinanti da questo punto di vista sono stati una giara di ceramica e altri frammenti di terracotta rinvenuti in Sicilia negli anni ’90 a Castelluccio di Noto (Siracusa). I reperti sono stati analizzati soltanto adesso dal gruppo del ricercatore italiano Davide Tanasi, che lavora negli USA presso la University of South Florida, e che ha pubblicato il risultato sulla rivista Analytical Methods.
“La prima prova chimica del più antico olio d’oliva l’abbiamo individuata nella preistoria italiana” ha detto Tanasi. Questo, ha aggiunto, “spinge indietro di almeno di 700 anni la produzione dell’olio d’oliva, portandoci alla prima Età del Bronzo”. Sostanze chiave per accertare la presenza di olio d’oliva sono stati gli acidi oleico e linoleico, vere e proprie ”firme” dell’olio d’oliva rilevate sulle ceramiche rinvenute a Castelluccio, la cui area archeologica risale appunto all’età del Bronzo e in particolare al periodo compreso tra la fine del 3.000 a.C e l’inizio del 2.000 a.C.
Alla scoperta si è arrivati – ha spiegato Tanasi – “grazie all’intenzione di scoprire a che scopo venissero usati questi contenitori”. Da qui la scelta di analizzare i resti conservati nel Museo Archeologico di Siracusa dove negli ultimi anni erano stati restaurati e riassemblati. I restauratori del museo hanno infatti ricostruito completamente la giara in ceramica ricomponendo ben 400 frammenti che hanno ridato forma a un contenitore alto un metro, di forma ovoidale, con tre anse sui lati e contenente al suo interno residui di sostanze organiche. Dallo stesso sito provengono anche i frammenti di altri due contenitori in terracotta, contenenti anch’essi tracce di sostanze organiche la cui natura, i ricercatori, sono riusciti ad accertare attraverso l’analisi chimica dei resti.
Va così a confermarsi e ad accrescersi l’antichità plurimillenaria di un prodotto naturale che, al di là dell’uso gastronomico che soprattutto noi italiani quotidianamente ne facciamo e delle sue straordinarie proprietà benefiche, è simbolo di sacralità per Cristianesimo, Ebraismo e Islam, elemento vitale e taumaturgico, emblema di floridezza e di benessere, immagine stessa della forma più alta e nobile di civiltà.
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