di Redazione FdS
Dopo anni di appelli lanciati da Domenico Canino – l’architetto che tempo fa riuscì a portare alla ribalta nazionale questo luogo unico della Calabria – finalmente il sito e i megaliti dell’Incavallicata, nel comune di Campana (Cosenza), stanno ufficialmente per finire sotto la lente d’ingrandimento dell’Università della Calabria che ha deciso di sottoporli ad uno studio scientifico triennale volto ad accertarne l’origine. Ai suoi appelli si aggiunsero presto quelli di Agostino Chiarello, primo cittadino del piccolo borgo dell’entroterra jonico, che in più occasioni ha rimarcato la necessità che “le istituzioni sovracomunali, la Regione Calabria e la Soprintendenza per i Beni Archeologici in primis”, si attivassero affinché venissero “stimolati, sostenuti e avviati studi e ricerche scientifiche importanti sia per approfondire l’origine dei megaliti sia, soprattutto, per contribuire, attraverso la comunicazione diffusa su questo ed altri marcatori identitari distintivi, a far diventare l’intera area della Sila Greca una destinazione turistica attrattiva e fruita tutto l’anno”. L’attesa sembra essere finalmente terminata grazie a una convenzione per il progetto di valorizzazione scientifica e culturale del sito dell’Invallicata sottoscritta dal direttore del Dipartimento di Biologia, Ecologia e Scienze della Terra (DiBEST), Giuseppe Passarino, e dal sindaco del Comune di Campana, Agostino Chiarello.
Rocco Dominici e Adriano Guido, ricercatori del DiBEST, coordineranno il progetto di ricerca per individuare l’effettiva datazione del sito – da alcuni definito la Stonehenge calabrese – e definire l’origine antropica o naturale dei megaliti, origine a tutt’oggi ancora poco chiara. Il progetto, di durata triennale, mira a fare luce su diversi interrogativi di natura scientifica ed è volto, inoltre, alla creazione di progetti di tutela e valorizzazione turistica, culturale e ambientale dei territori dello Jonio Cosentino e dell’alto Crotonese.
La notizia è di particolare interesse perchè i megaliti (l’Elefante non è l’unico “oggetto” di probabile fattura umana presente sull’altura dell’Incavallicata) non hanno infatti goduto finora di alcuno studio scientifico, e ciò nonostante la remota attenzione ad essi riservata dall’uomo, come dimostrano antiche testimonianze testuali e cartografiche, così come la presenza nell’area di ulteriori “formazioni” degne di studio.
UN AFFASCINANTE MISTERO
I cosiddetti “Giganti dell’Incavallicata” sono due ciclopiche “formazioni” modellate nella pietra arenaria di cui abbondano le alture circostanti. I due colossi – evocanti un elefante e la parte inferiore del corpo di un guerriero – stanno facendo molto parlare di sé ormai da anni, soprattutto da quando l’architetto Domenico Canino, appassionato di archeologia, ha pubblicato il libro “Le Pietre dell’Incavallicata” allo scopo di dimostrarne l’origine non naturale, convinto che si tratti di sculture risalenti ad una non meglio precisata civiltà che avrebbe preceduto la colonizzazione greca dell’VIII sec. a.C. A un’osservazione ravvicinata, i due colossi non mancano di soprendere il visitatore: l’impressione è infatti che si tratti di manufatti, come del resto ha già da tempo concluso il geologo Alessandro Guerricchio dell’Università della Calabria, autore di un primo studio pubblicato nel 2008 sul Bollettino della Società geografica italiana. Del resto è finora rimasto senza risposta il quesito su come possano le intemperie modellare una roccia conferendole su entrambi i lati particolari perfettamente uguali e simmetrici. A questo si aggiunga che ciascuna delle due figure risulta formata da elementi sovrapposti, inframezzati da quella che ha tutta l’aria di essere una sottile fascia di malta destinata a tenerli insieme. Evidenti anche i resti di quelle che dovettero essere le zanne dell’elefante, forse un esemplare di Elephas Antiquus, specie estinta che rimanderebbe a un’epoca ben più antica della presenza in zona del cartaginese Annibale a cui qualcuno vorrebbe ricollegare i due colossi. E che un esemplare di Elephas Antiquus possa essere stato il modello del colosso di Campana, è una tesi tornata in auge dopo il ritrovamento, sulle sponde del Lago Cecita, nel cuore dell’altopiano della Sila, di uno scheletro intatto del mastodontico animale.
I colossi dell’Incavallicata sono noti da sempre alla popolazione locale, nel senso che ogni campanese che si rispetti ha sentito parlare dei Giganti dell’Incavallicata fin dall’infanzia; così com’è facile trovare traccia di essi negli album fotografici dei matrimoni, con gli sposi ritratti nei loro pressi. Sul posto si racconta inoltre che i nonni di un tempo, nel raccontare ai nipoti storie di briganti e di tesori nascosti ambientate nella zona, nel citare i colossi di pietra asserivano essere stati gli “Antichi” a scolpirli per cercarvi riparo dalle intemperie. In tal caso è evidente l’allusione alle due piccole grotte poste immediatamente sotto l’altura su cui svettano le due figure, cavità facilmente accessibili e di indubbia origine artificiale come dimostrano le fitte scalfitture sulla superficie della pietra.
In realtà, la conoscenza di questo luogo e delle due bizzarre figure in pietra risale già a diversi secoli fa, comparendo nelle fonti via via come “giganti” o semplicemente “pietre”: in uno scritto della fine del 1600 il vescovo Francesco Marino, riferendosi alla figura oggi denominata ”guerriero”, lo definiva “il gran colosso”, caduto al suolo a causa di terremoti. Invece in una mappa della Calabria Citra del 1606 di Giovanni Antonio Magini risulta segnalata un’altura denominata “Cozzo delli Giganti”. Poichè pare che Magini non sia mai stato in Calabria, quella indicazione sembrerebbe suggerire che il cartografo si sia rifatto a mappe preesistenti, oggi presumibilmente perdute. Diverse furono anche le mappe successive che, almeno fino agli inizi dell’800 indicarono quel punto come “Cozzo del Gigante”.
Le peculiarità dell’Incavallicata non si esauriscono nella presenza dei due menzionati colossi: guardando verso la collina prospiciente, è infatti possibile scorgere fra il verde della macchia una strana formazione rocciosa detta “la testa della balena” a causa dell’enorme sagoma che ricorda realisticamente quella d’un cetaceo. Altre due grotte apparentemente e probabilmente simili a quelle adiacenti ai “giganti” si aprono verso la vallata in corrispondenza di quelli che sembrano due enormi occhi. A circa 500 metri di distanza, in una fitta boscaglia di erica arborea e pungenti cespugli di ‘spina di Cristo’, un altro misterioso reperto accoglie gli sporadici visitatori: un lungo serpentone in pietra, formato da tanti segmenti combacianti, alcuni dei quali scostati fra loro dai millenni e dai movimenti tellurici, fino a mostrarne la cavità interna. Anche in questo caso c’è da dubitare fortemente che si tratti di una formazione naturale e ancora una volta è difficile immaginare chi possa aver realizzato un’opera così monumentale, sebbene sorga spontanea l’ipotesi che tutte queste figure possano aver fatto parte di un unico remotissimo luogo di culto.
Il sito dell’Incavallicata non ha fino ad oggi goduto di particolari attenzioni, sia in termini di conservazione (nonostante siano venuti alla ribalta da pochi anni, in realtà i colossi sono da decenni meta di curiosi che contribuiscono, non meno delle intemperie, al loro deterioramento; esistono infatti immagini degli anni ’70 in cui le loro forme appaiono decisamente più nette rispetto a quelle odierne), sia di fruizione turistica (la gestione dell’area è rimasta affidata alla meno peggio al solo Comune di Campana, dato il protratto disinteresse della Soprintendenza ai Beni Archeologici a condurre uno studio che prendesse in seria considerazione anche il contesto, alla ricerca di eventuali altri reperti in grado di fornire determinanti elementi conoscitivi). C’è dunque da augurarsi che l’annunciato studio dell’Unical possa finalmente fare luce su questo luogo e i suoi misteriosi megaliti, imprimendo una svolta al loro destino.
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