di Redazione FdS
Ha attraversato i millenni, ha visto sorgere e tramontare imperi, ha contribuito al crollo di una delle più raffinate città della Storia, ma oggi si parla di lui perchè le sue acque trattenute da argini malsicuri minacciano costantemente l’area archeologica dell’antica città magno-greca di Sibari. Si tratta del fiume Crati, l’antico Kràthis (un idronimo greco che allude all’idea di potenza), il fiume più importante della Calabria per lunghezza del suo corso (91 km), superficie di bacino idrografico (2.440 km²) e volume d’acque alla foce. E’ anche il terzo del Sud Italia dopo il Volturno e il Sele. Oggi il Crati presenta un regime spiccatamente torrentizio, alternando a forti e talvolta disastrose piene invernali forti riduzioni estive del flusso. Questo fiume occupa un suo posto di rilievo nel nostro ideale atlante dei Luoghi del Mito perchè il suo nome è associato a leggende e storie dell’antichità di cui fonti remote hanno conservato traccia.
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Come spesso accade per la toponomastica magno-greca, i nomi riecheggiano realtà omologhe della madrepatria e anche per il nome Kràthis scopriamo che designava già un fiume greco nella regione dell’Acaia, presso la città peloponnesiaca di Ege. Così ci racconta nel II° sec. d.C. Pausania (VII, 25, 11), che ricorda anche l’omonimo fiume calabrese che scorre nella piana di Sibari. Nel V° sec. a.C. Erodoto (I, 145) riconduceva l’omonimia alla provenienza da quella regione greca dei coloni che si erano stanziati sulle rive del Crati calabrese. Il filosofo e scrittore latino Claudio Eliano (II° sec. d.C.) fornisce invece un’altra spiegazione circa l’origine del nome riportandola a quello di un giovane pastore venerato a Sibari (Nat. an. VI, 42). La leggenda vuole che il pastore si fosse innamorato della più bella capra del suo gregge e che un ariete geloso lo uccise mentre dormiva; allora il suo corpo fu sepolto nei dintorni e gli abitanti diedero il nome di Khratis al corso d’acqua presso il quale si svolse la vicenda. La leggenda narra ancora che la capra amata, dopo qualche tempo, partorì un bambino dalle gambe caprine che, ritenuto una divinità, fu adorato come un dio delle foreste e delle valli.
Alle acque del fiume Crati gli antichi attribuivano virtù prodigiose come quella ricordata da Euripide secondo il quale “il bellissimo Crati ravviva le bionde chiome nutrendo con le divine correnti e fertilizzando la terra madre di eroi”: questo scrive nel V° sec. a.C. il grande tragediografo nell’opera Le Troiane (vv. 226-229). Euripide non è però l’unico autore antico a riportare la virtù del fiume di rendere biondi i capelli di chi vi si bagnasse: ne parlano anche il geografo Strabone (I° sec. a.C.) – che accenna anche alla proprietà di sbiancare il pelame degli animali viventi sulle sue sponde, in contrasto con le acque del vicino fiume Sybaris che invece lo rendeva scuro – il poeta latino Ovidio (I° sec. a.C.) e lo storico Plinio (I° sec. d.C.).
Si narra inoltre che presso la foce del fiume si trovasse l’Agro Camere menzionato da Ovidio (I° sec. a.C.) nei Fasti (III, 581), in cui viene citato come luogo del favoloso arrivo di Anna sorella di Didone partita da Cartagine ed ivi sbattuta dalle burrasche mentre andava in cerca di Enea dopo la morte della sorella e la conquista della sua città da parte di Iarba. Secondo alcune fonti, il nome della località, ancora una volta riprodurrebbe l’onomastica della madrepatria greca, in tal caso l’allusione sarebbe a Camiro una delle tre città dell’isola di Rodi, alcuni abitanti della quale, giunti sulla costa jonica calabrese, vi avrebbero appunto fondato una piccola città poi abbandonata per essersi essi uniti ai Sibariti; del nome di questa località, a dire dello storico e archeologo napoletano dell’800 Nicola Corcia, che si richiama a Luca De Rosis, rimarrebbe eco alterata nel toponimo Camara “presso il castello di S. Angelo, nel territorio di Rossano, lungo la spiaggia di questa città”.
Sempre alla foce del Crati, il poeta greco Licofrone (IV sec. a.C.) nel suo poema drammatico Alessandra riconduce un altro episodio mitico: l’incendio delle navi achee ad opera delle Troiane che i Greci avevano portato con sè a bordo come preda di guerra. La leggenda narra che le donne erano stanche del tanto peregrinare per mare per cui decisero di incendiare le navi dei vincitori nella speranza di indurli a fermarsi. La Troiana che per prima appiccò l’incendio fu Setea poi crudelmente punita per il suo gesto venendo crocifissa su alcuni scogli vicino alla foce del fiume. Secondo Strabone testimonianza dell’episodio rimarrebbe a livello toponomastico nel nome di un piccolo fiume locale che si chiamava Nieto, nome la cui origine deriverebbe da νέας αιθειν ossia “incendiare le navi”. Il geografo Stefano Bizantino (VI sec. d.C.) riporta addirittura l’esistenza di una Σηταιον χωρα (Setaeum Regio), ossia una contrada nei pressi di Sibari che evocava il nome della troiana incendiaria ricordata da Licofrone. Lo storico Nicola Corcia ipotizza che però l’episodio possa essere avvenuto altrove, nell’Egeo, ma che se ne sia radicata la memoria presso Sibari a seguito dell’arrivo di genti da Melibea o dei coloni che fondarono Thurii dopo la distruzione di Sibari; ad ogni modo riporta però che alla foce del Crati esistono davvero “alcuni grandi scogli, ad uno de’quali ebbe a rimanere il nome di Seteo dal supposto supplizio della schiava trojana”.
Il Crati compare inoltre citato in modo buffo nel frammento rimastoci di un’antica opera satirica, i Thuriopersai (Thuriopersiani), che all’autore comico ateniese Metagene valse la vittoria alle Lenee nel 410 a.C. La commedia era stata scritta in onore della colonia panellenica di Thurii, fondata sotto l’egida di Pericle nel 444-443 a.C. nei pressi di quella che era stata l’opulenta Sibari. Nel frammento supersite l’autore immagina nella città sulla costa ionica un quadro ideale di ricchezza e prosperità per virtù dei due fiumi Crati e Sybaris. Ecco cosa scrive Metagene: “Per noi il fiume Crati spinge a valle enormi mazai [sorta di focaccia – NdR] che si sono impastate da sole, mentre l’altro fiume trascina un flusso di focacce, di carni e di razze bollite che vi si rotolano. Qui scorrono piccoli ruscelli di calamari arrostiti, con pagri e aragoste, là di salsicce e di carni tritate, qui con bianchetti, lì con frittelle. E dall’alto tranci di pesce, cottisi da soli, si lanciano nella nostra bocca, mentre altri stanno proprio davanti ai piedi. Inoltre ci nuotano attorno focacce di farina fina” (1). Come scrive la studiosa Luciana De Rose (2) “la chiave caricaturale sceverata dai cibi…consente di riconoscere alcuni prodotti ittici che di certo popolavano le tavole: razze, calamari, pagri, aragoste e bianchetti guizzanti tra i flutti. I pesci menzionati non sono d’acqua dolce, ma è possibile che nelle zone più saline della foce fosse possibile trovare pesci di mare. Il frammento può essere un indizio della vita nelle acque del Crati, fonte di cibo anche nei pressi di Cosenza…”
Passando dal Mito alla leggenda su basi storiche, Strabone racconta (Geografia, VI, 1, 13) che nel 510 a.C., dopo una guerra durata 70 giorni, i Crotoniati conquistarono la città di Sibari e la fecero sommergere dalle acque del fiume Crati appositamente deviato, fatto a cui nel 444-443 a.C. seguì nelle vicinanze la fondazione panellenica di Thurii, dal nome di una fonte presente nel luogo.
Se questi sono i racconti più antichi legati al nome del fiume Crati, vi è tuttavia un’altra leggenda molto celebre, di diversi secoli più tarda, e cioè quella secondo la quale nel punto di confluenza fra questo fiume e l’affluente Busento sarebbe stata occultata la sepoltura di Alarico I° re dei visigoti dal 395 d.C. fino alla sua morte (410). Narra la storia che Alarico marciò per la terza volta su Roma e, il 24 agosto 410, dopo che la porta Salaria fu aperta a tradimento, la prese e la saccheggiò per tre giorni (il celebre Sacco di Roma). I Visigoti lasciarono Roma carichi di bottino e Alarico, passando da Capua e da Nola, si diresse a Reggio, dove preparò una flotta, con l’intenzione di conquistare l’Africa, il granaio dell’impero, per poi impadronirsi dell’Italia. Ma una tempesta disperse e affondò le navi quando erano già in parte cariche e pronte a partire. Allora Alarico lasciò la città diretto a nord, ma quando era ancora in Calabria, nei pressi di Cosenza, si ammalò improvvisamente e morì. Secondo la leggenda venne seppellito con i suoi tesori in terra calabrese, a Cosenza, in un punto non meglio precisato fra i due fiumi, e gli schiavi, che avevano lavorato alla temporanea deviazione del corso del fiume, furono uccisi perché fosse mantenuto il segreto sul luogo esatto della sepoltura.
Fiume Crati
Lungo il suo corso il Crati bagna il territorio di ben 19 comuni. Le sue sorgenti sgorgano intorno a 1.650 m di altezza, tra Timpone Tenna e Timpone Bruno, sulle pendici occidentali della Sila, nel comune di Aprigliano, dove il corso d’acqua prende il nome di Craticello. Scende in direzione nord bagnando subito la città di Cosenza, dove raddoppia di dimensioni grazie alla confluenza da sinistra del fiume Busento e dove separa il centro storico dalla parte moderna.
Da qui con ampio letto di ciottoli attraversa la pianura cui dà nome di Valle del Crati dove si arricchisce dell’apporto di svariati affluenti: da destra i fiumi Arente, Mucone (suo principale tributario su questo versante) e Duglia, da sinistra i torrenti Finita, Turbolo, Cucchiato, Campagnano, Mavigliano, Emoli e Settimo. Con una portata di oltre 20 m³/sec e dimensioni ragguardevoli scorre quindi nel suggestivo tratto incassato di Tarsia dove una diga lo sbarra formando il lago artificiale omonimo diventato una riserva naturale regionale, entrando poi alcuni chilometri più a valle nell’alluvionale Piana di Sibari, dove nell’antichità sorgeva la fiorente città greca di Sibari. In questo tratto rallenta notevolmente la sua corsa ricevendo l’ultimo affluente, il fiume Coscile (tradizionalmente identificato con l’antico Sybaris), suo principale tributario di sinistra che ne raddoppia quasi la portata, avviandosi poi con andamento lento a sfociare nel golfo di Taranto presso la marina di Corigliano Calabro (Schiavonea). Anche la sua foce è Riserva Naturale Regionale essendo un biotopo di grande interesse naturalistico, una zona umida ospitante grande varietà di avifauna migratoria e stanziale.
Note: 1) Traduzione di Luciano Canfora in Ateneo, I Deipnosofisti (Salerno editrice, 2001) ; 2) cfr. Tra Calabria e Mezzogiorno – Studi storici in memoria di Tobia Cornacchioli, a cura di Giuseppe Masi (ed. Pellegrino, Cosenza, 2007)
Grazie per la dotta e ricca messe di fonti storiche e proto-storiche.