di Enzo Garofalo
Dopo il fiume Tara e la Calabria di Scilla e Cariddi, rieccoci ancora una volta a Taranto, città nella quale la “poesia” del Mito convive con la “prosa” più grigia ed avvilente di una contemporaneità che, soprattutto negli ultimi decenni, l’ha resa vittima di irresponsabili aggressioni all’ambiente e di umiliazioni sociali e civili inflitte in nome del vile profitto. Ripensare Taranto è un percorso che per noi oggi passa innanzitutto attraverso una riscoperta del suo illustre passato; alludiamo in particolare a quel periodo dell’antichità magno-greca che la vide prestigioso centro di studi filosofici, matematici, astronomici, artistici, musicali, patria di grandi atleti che le dettero lustro nei giochi di Olimpia, nonché luogo ispiratore di nobile letteratura. Non si tratta di anacronismi, ma semplicemente della riscoperta delle radici robuste di un albero millenario la cui chioma oggi è malata; radici che a nostro avviso sono ancora capaci di trarre ed offrire linfa ad una pianta che può tornare a germogliare rigogliosa. Un recupero di identità che può aiutare a guardare con rinnovata fiducia al futuro.
Ritorniamo pertanto lungo le sponde del Mar Jonio alla ricerca ancora una volta di un fiume, forse il più piccolo del pianeta – appena 900 metri – eppure ispiratore di poeti ed artisti come pochi altri luoghi in Europa. Si tratta del Galeso, un corso d’acqua di origine carsica che ha la sua sorgente, il “citro”, in un minuscolo laghetto nell’entroterra del Mar Piccolo di Taranto, mare nel quale va a sfociare dopo il breve percorso su un letto d’una profondità oscillante fra i 0,30 e i 2,80 metri, con una larghezza che in alcuni punti è di 12-14 metri ed una portata di 4 mila litri al secondo. Sono questi i suoi connotati idrografici tutto sommato molto modesti, ma il suo fascino immortale risiede nelle storie, nelle leggende e nelle suggestioni letterarie da cui è avvolta la sua esistenza; una presenza, quella del Galeso, che neppure la fumosa e spettrale Ilva è riuscita a cancellare.
Partiamo dall’origine del nome. C’è chi lo farebbe derivare da lingue orientali col significato di “trasmigrazione”; secondo altri la radice “gal” alluderebbe invece al significato di fiume “dalle fresche acque”, e per altri ancora il nome ricondurrebbe all’aggettivo “albus”, nell’accezione di “bianco”, per alludere al “candeggio delle lane” che pare si esercitasse in quelle acque. L’umanista Cataldantonio Atenisio Carducci lo riconduce alla radice ebraica Galas, che significa “tosare”, alludendo sempre alla tradizione che vuole fosse praticata nelle acque del Galeso l’usanza di lavare le pecore prima di tosarle per renderne più morbida la lana che, a quanto pare, veniva lasciata al naturale per non diminuirne il pregio con le tinte. Columella, celebre autore del De re rustica (I° sec. d.C.), aggiunge che le pecore venivano lavate con l’acqua e la radice dell’erba lanaria (Gypsophila struthium ) rigogliosa nei dintorni del Galeso, mentre il poeta Orazio (I° sec. a.C.) – cantore del fiume insieme ad altri poeti celebri fra cui Virgilio, Properzio, Marziale (v. link a fondo pagina) – riferisce il curioso uso di rivestire tali pecore con pelli di altri animali a mo’ di cappottino per preservarne l’integrità della lana. Qualunque ne sia stata l’origine, il nome Galeso dovette essere la forma più antica se è vero, come riporta lo storico greco Polibio (I° sec. a.C.), che i tarantini solevano chiamarlo anche Eurota (dal greco “εύρoέω” = “che scorre bene”) in memoria dell’omonimo fiume che scorreva presso la città madre Sparta.
Ad ogni modo, in epoca classica il fiume fu tenuto in grande considerazione se si pensa che nei suoi pressi sorse un intero quartiere di Taranto detto Ebalia (secondo alcuni invece una città autonoma fondata da Ebalo, leggendario figlio di Telone Re di Capri e della ninfa Sebetide) mentre all’epoca delle guerre puniche si vuole che lungo il suo corso si accampasse l’esercito del cartaginese Annibale. Nel medioevo il Barone Riccardo di Taranto di ritorno dalla prima crociata (1169), fece costruire l’Abbazia di Santa Maria del Galeso (oggi ne sopravvive solo la piccola chiesa), consacrata dall’arcivescovo Ghirardo. Nel 1915, prima della scoppio della Grande Guerra, furono invece installati a poca distanza dalla sua foce i Cantieri Navali, mentre oggi le sue acque sono utilizzate soprattutto dai contadini per l’irrigazione di agrumeti e campi di ortaggi.
E’ stata dunque questa la progressiva metamorfosi di un luogo che coerentemente con le credenze mitiche degli antichi si riteneva presieduto da un Genio, un’entità agreste che regola i ritmi naturali delle acque e che, all’occorrenza, si manifesta in sembianze umane, come nel racconto riportato da Tommaso Niccolò d’Aquino, il quale nelle sue “Deliciae Tarentine” – poemetto in esametri latini in quattro libri, tradotto e pubblicato nel 1771 dall’umanista Cataldantonio Atenisio Carducci come elogio della città di Taranto mediante la descrizione delle sue bellezze naturali e delle attività dell’uomo – narra del pescatore Antigene che giunto sul fiume nell’ora meridiana vede apparire il Genio del luogo, coronato di foglie di pioppo e di canna, di fronte al quale è preso dal timore ma “infine rincuorato, apprende da lui il segreto della riproduzione delle cozze nere; e oltre a questo, viene istruito sui nomi dei vari pesci e crostacei nonché sull’arte e sugli strumenti per pescarli.” Il Genio invita l’uomo a divulgare quei segreti presso i suoi compagni perché possano essere loro utili in quei momenti in cui rimarranno a terra oziosi a causa del mare grosso.
Prima di approdare alla rappresentazione letteraria del Galeso da parte di alcune delle voci più alte della letteratura latina, specchio di un’epoca in cui il paesaggio italiano godeva ancora della sua integrità originaria, chiediamoci come si presenta oggi. Se immaginate di approdare alla sua foce dal mare, essa vi apparirà costeggiata a sinistra da un bosco di alti eucalipti preceduti da una piccola pineta, mentre a destra accanto ad altri eucalipti si intravvede una fascia rada di tamerici che seguono la linea della vicina strada costiera di passaggio sul fiume tramite un minuscolo viadotto preceduto, un po’ più su, dal ponte ferroviario della linea Taranto-Nasisi le cui banchine restringono alquanto il canale. A monte, il fiume scorre costeggiato da banchine e lungo il corso d’acqua sono visibili ampie e verdissime colonie di Cymodocea prolifera e di Caulerpa prolifera miste a Cloroficee e ad Ulva lactuca, fra le quali si vedono scorrazzare numerosi pesci come piccoli cefali, gobius e gambusie, oltre a gamberetti e granchi. Avvicinandovi verso la sorgente vedrete scorrere il Galeso fra dense macchie di cannucce d’acqua che si ritrovano anche nei pressi della polla sorgiva accanto a macchie di crescione e colonie di cloroficee; lo spazio qui si allarga al massimo raggiungendo i 20-25 metri di ampiezza e fra le acque chiare e trasparenti si intravvede un fondo sabbioso color cenere.
Questo è dunque il Galeso oggi. Si trova in una zona di Taranto a campi coltivati, per fortuna non eccessivamente antropizzata, il che ha impedito più gravi devastazioni, ma l’area in cui scorre il Galeso – per quanto poco urbanizzata – è in uno stato di deplorevole abbandono ed avrebbe bisogno di una radicale riqualificazione ridonando la dovuta dignità a questo piccolo gioiello della Natura. La maggior parte dei tarantini sembra essersene dimenticata, eppure negli anni ’50, e anche oltre, era una meta popolare per i bagni estivi di chi in treno si recava nella vicina frazione di Nasisi. E’ un luogo ricco di memorie storiche che meriterebbe la creazione di un apposito parco ambientale e letterario, un luogo di meditazione dove fermarsi – i tarantini per primi – a ripensare al futuro di una città troppo bistrattata dalla pochezza di un Potere animato solo dalla propria avidità. Da anni si parla di salvare il Galeso dall’incuria, ma mai nessuno degli amministratori locali sì è seriamente preoccupato di salvaguardare questo delizioso angolo di “identità” cittadina.
Ecco cosa già nel 1793 scriveva il naturalista svizzero Carlo Ulisse de Salis-Marschlins nel suo “Viaggio nel Regno di Napoli” per deplorare lo stato di abbandono in cui era lasciato il Galeso: “Quali rimproveri avrei voluto allora rivolgere ai Tarantini, per non esservi nessuno capace di sentire la venerazione degli antichi e saper scegliere quella bellissima posizione dominante tutto il panorama della città — che si disegna come una pittura in mezzo ai due mari — per fabbricare ville e giardini, che sarebbero l’Eliso istesso, fiancheggiate dal classico ruscello! ” Ed ecco, circa due secoli dopo, nel 1971, la denuncia di Antonio Rizzo su La Voce del Popolo: “…Fermiamo l’opera degli sradicatori di alberi e degli sbancatori di argini e degli inquinatori di acque. Ma soprattutto salviamo il Galeso dall’incuria, dalla sonnolenza, dal quietismo dei Tarantini. In quale altra città d’Europa un fiume così ricco di memorie storico-culturali sarebbe stato abbandonato all’inciviltà di coloro che lo hanno trasformato in lavatoio pubblico per automobili? In quale altra città d’Europa si sarebbe lasciata perdere l’occasione per trasformare una zona ricca di acque sorgive in un ampio e riposante parco pubblico?…” Auguriamo alla città di Taranto di cogliere al più presto questa occasione…prima che sia troppo tardi.
Il Galeso nella Letteratura
Ci sono luoghi che hanno la forza di far riecheggiare in chi li osserva o in chi li vive arcane forze interiori che quando si combinano con la presenza di una sensibilità poetica e letteraria, danno vita ad immagini immortali dotate dell’impronta del Mito. Il fiume Galeso di Taranto è uno di questi e nel link seguente (IL GALESO NELLA LETTERATURA) vi segnaliamo una serie di “voci” che hanno cantato questo minuscolo e affascinante corso d’acqua, rapite dalla sua bellezza lieve e struggente.
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