di Redazione FdS
Due città dalle radici millenarie e in mezzo un fiume che lega il suo nome antico alle vicende di un principe greco. Parliamo di Gioia Tauro e Palmi (Reggio Calabria) e del fiume Petrace, l’antico Metauros, lungo le cui sponde si ambienta una delle tappe culminanti delle peregrinazione di Oreste, figlio del re miceneo Agamennone e di Clitennestra e fratello di Ifigenia, Elettra e Crisotemi. Nomi che sanno di mito e di letteratura antica, che ci riportano alla poesia di Omero e di Stesicoro e al teatro di Eschilo e di Euripide, senza contare le innumerevoli opere d’arte d’ogni tempo che hanno in Oreste il loro protagonista assoluto. Ma vediamo di cosa narra la leggenda, di cui esistono diverse varianti. Noi ovviamente vi segnaliamo quella che, seguendo le orme del giovane principe, ci porta in Calabria alla foce del Metauros e alla mitica città di Porto Oreste, fondata – si dice – dal figlio di Agamennone nei pressi dell’odierna Palmi, precisamente nell’area dello splendido tratto costiero di Rovaglioso. Ma cosa ci faceva Oreste in Calabria?
IL MITO: IN PRINCIPIO FU UN DELITTO…
Era poco più che un bambino Oreste quando assistette all’uccisione del padre Agamennone, re di Micene e capo dell’esercito acheo nella guerra di Troia, ad opera di Clitemnestra e del suo amante Egisto. La donna non aveva mai perdonato al marito il sacrificio della figlia Ifigenia compiuto sull’altare di Artemide per favorire la partenza delle navi achee. Per proteggerlo, la sorella Elettra portò Oreste dal re Strofio, in Focide, cognato ed amico di Agamennone che lo allevò insieme al figlio Pilade. I due cugini divennero così inseparabili. Ormai adulto, nove anni dopo, Oreste si recò a Delfi per avere indicazioni dal celebre oracolo su come vendicare il proprio padre. Il responso fu dei più agghiaccianti: avrebbe dovuto uccidere sua madre Clitennestra e l’amante di lei, Egisto.
Eseguito il duplice omicidio si narra che le Furie (o Erinni, dee della vendetta) fecero immediatamente impazzire Oreste e lo perseguitarono senza tregua. A questo punto, narra Eschilo, vi fu un processo contro di lui ad Atene dove Apollo (ispiratore, tramite l’oracolo, dell’assassinio dei due amanti) ebbe il ruolo di difensore di Oreste mentre le Furie quello di accusatrici. I voti della giuria furono pari e la dea Atena, quale presidente dell’Areopago (l’antico tribunale fondato dagli dei), diede il suo voto in favore di Oreste, giudicando la morte della madre meno importante di quella del padre. Ma nemmeno allora le Furie abbandonarono Oreste. Apollo gli disse allora che per trovare pace avrebbe dovuto recarsi nella terra dei Tauri, nel Chersoneso, rubare l’antica statua lignea di Artemide e poi recarsi in un luogo ove scorreva un fiume alimentato da sette sorgenti.
Oreste eseguì le indicazioni e giunto insieme a Pilade nel Chersoneso, venne catturato e, come tutti gli stranieri, preparato per il sacrificio ad Artemide. Ma ecco il colpo di scena: sacerdotessa del tempio era Ifigenia (a suo tempo sottratta al sacrificio dalla stessa Artemide), sorella di Oreste la quale, riconosciuto il fratello, ingannò Toante, re dei Tauri, dicendogli che i nuovi arrivati dovevano essere lavati nel mare poiché accusati di matricidio e chiese alla popolazione di non assistere al rito. Ciò consentì ai tre di fuggire con la statua di Artemide, prendendo il largo verso la Grecia. Toante li inseguì ma rimase sconfitto. Dopo tante peregrinazioni giunsero in Sicilia e poi nell’Ausonia (la regione corrispondente alle attuali province di Catanzaro e di Reggio Calabria) e qui Oreste approdò alla foce del fiume Metauros (oggi Petrace) a suo tempo indicato dall’oracolo di Delfi. Questo fiume è tutt’oggi alimentato da sette affluenti (Schiavo, Carasia, Doverso, Marro, Turbolo, Calabro, Razzà). Varrone (II-I sec. a.C.) ne indica i nomi antichi in Lapadone, Micode, Engione, Statero, Polme, Melcissa, Argeade. Appena vi si immerse Oreste riacquistò il senno. Le Erinni che lo avevano posseduto si trasformarono così in Eumenidi, tutrici dell’ordine naturale delle cose. E a questo punto la leggenda narra che lì nei pressi – in un luogo vicino all’odierna Palmi – Oreste fondò una città che da lui prese il nome (Porto Oreste). Qui, si narra che sia rimasta a lungo la spada di Oreste e che egli vi abbia edificato un tempio ad Apollo, dal quale i Reggini, quando partivano per Delfi, celebrati i sacri riti, erano soliti staccare un ramo d’alloro che portavano in Grecia.
IL FIUME METAUROS/PETRACE
Il fiume designato dall’oracolo di Delfi e nel quale avvenne il mitico episodio dell’abluzione che liberò il matricida Oreste dalla persecuzione delle Furie (l’antico Μεταυρος) corrisponde all’odierno Petrace, la cui conformazione rispecchia il mito essendo alimentato da sette affluenti. Ha origine dal versante tirrenico dell’Aspromonte, scorre per 27 km, e col suo tratto finale segna il confine tra i comuni di Palmi e Gioia Tauro (nella foto qui sopra, un tratto vicino alla foce). Fra i primi autori che parlano del fiume e della sua ubicazione, indicandolo anche come leggendario, vi sono Varrone nel suo “Rerum Humanarum“, Probo Grammatico e Marco P. Catone nel “De Originibus“. Anche diversi studiosi di epoche successive concordano sul fatto che il Metauros corrisponda al Petrace, e Rocco Liberti, Deputato di Storia Patria per la Calabria, in un libro su Gioia Tauro pubblicato nel 1982, scrive che Antonio De Salvo alla fine dell’Ottocento sosteneva che il territorio intorno alla città venisse definito “Furia” proprio in ricordo delle Erinni che perseguitarono Oreste. Insomma ci sono suggestioni e fonte letterarie sufficienti per riaccendere i riflettori su luoghi oggi purtroppo quasi del tutto dimenticati.
UNA STRANA COINCIDENZA
In un’opera dello storico calabrese Rosario Cardone, dal titolo “Notizie storiche di Bagnara Calabra”, risalente al 1873, si narra di uno strano ritrovamento che sembra riecheggiare la vicenda di Oreste con la sua abluzione salvifica nel Metauros, ma l’azione è spostata una quindicina di Km più a sud, sempre sulla costa, presso il fiume Caziano (poi Melarosa) che con il fiume Sfalassà (poi La Fiumara) costeggia il territorio di Bagnara. Le altre condizioni geografiche deducibili dalla leggenda di Oreste qui non sussistono, nè sul posto sembra aver mai preso corpo una leggenda simile, eppure Cardone riferisce del ritrovamento di un frammento di una iscrizione marmorea presso un orto adiacente all’antico convento distrutto dei Padri Paolini. A ritrovare la lapide fu l’erudito locale Giuseppe Parisio Lucisani che ne fece dono allo storico. L’epigrafe, di autore e datazione ignoti, è probabile che facesse parte di qualche antico bagno presso il fiume Caziano in essa citato e poi, per qualche ragione, custodita dai monaci del convento.
Dopo il terribile terremoto del 1783, quella lapide, trovata fra le macerie del convento da qualche contadino, finì col fungere da gradino nell’orto in cui infine fu ritrovata. Come si può notare sul testo riportato dal Cardone, sono diversi i punti lacunosi, ma da quanto è rimasto leggibile si rileva chiaramente che una persona di riguardo, affetta da furiosa pazzia,andò a bagnarsi in uno dei due fiumi del luogo, per ricuperare il senno. Cardone ipotizza una origine remota del reperto per via della dedica a Giove Ottimo Massimo. Inoltre ne deduce che in essa sia descritta l’infelice condizione di un uomo che si duole dell’avverso fato; che dice di essere stato orribilmente straziato dalle Furie, e che infine dà ad intendere di avere riacquistata la salute coll’essersi bagnato in uno dei fiumi. L’analogia con la vicenda di Oreste balza subito agli occhi e c’è chi, come lo stesso Cardone, la utilizza per avocare a Bagnara i fatti del principe miceneo. Ma in ciò che resta dell’iscrizione non compaiono nomi e quindi, nota lo stesso Cardone, essa potrebbe essere stata incisa per ricordare qualche altra singolare guarigione qui avvenuta su un altro matto, di questo come di altro luogo. Se si esclude quindi il riferimento diretto ad Oreste, in una sorta di riambientazione della sua vicenda in omaggio alle virtù terapeutiche delle acque del posto, certo l’iscrizione dovette riguardare qualcuno che di Oreste volle ripercorrere le orme.
LA TRADIZIONE SU PORTO ORESTE
Tralasciando le origini di Gioia Tauro – l’antica Metauros, secondo alcuni fondata nell’VIII sec. a.C. dai calcidensi di Zancle (Messina), secondo altri dai greci di Locri Epizefiri (Locri) o di Reghion (Reggio) – e quelle di Palmi – che sarebbero da ricollegare all’antica città di Taureana, sorta sulla riva sud del fiume Metaurus nel IV sec. a.C. ad opera di coloni Achei o di un gruppo di Brettii noti come Tauriani – concentriamoci invece su quanto si tramanda in merito alla città fondata dal mitico principe greco: a fronte delle numerose fonti sul mito di Oreste in Calabria, in realtà pochissimi sono gli autori antichi che citano Porto Oreste, uno dei quali è Plinio il Vecchio, che nella sua Naturalis Historia (III, 73) scrive: “…Poi [c’è] Ippone, che ora si chiama Vibo Valentia; il Porto di Ercole, il fiume Metauro, la città di Tauroento, il Porto di Oreste e Medma”. Sulla scia di Plinio, secoli dopo parlano di Porto Oreste gli umanisti calabresi Gabriele Barrio e Girolamo Marafioti (XVI -XVII sec.) e il geografo tedesco Filippo Cluverio (XVII sec.).
Portus Orestis è dunque il nome mitico di una città-porto nei pressi di Palmi per il quale, negli anni, sono state diverse le proposte di ubicazione. Stando a quanto pubblicato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della Calabria, l’ipotesi più accreditata allo stato attuale delle ricerche archeologiche, sarebbe quella che il bacino del porto si trovasse a sud di Contrada La Scala, in un tratto di costa d’antica formazione ma oggi occupato in gran parte da strutture moderne, un luogo dove la lettura della cartografia aerea degli anni ’50 ha evidenziato una lingua sabbiosa naturale che poteva fungere da riparo alle imbarcazioni nel caso di venti spiranti sia da sud che da ovest. E tale approdo naturale in età romana, è probabile si sia trasformato con adeguate opere murarie, in un vero e proprio bacino portuale attrezzato con moli. Un porto che deve essere stato estremamente rilevante per la sopravvivenza della città in età imperiale e tardo-antica e che la tradizione letteraria ricorda attivo anche nei secoli successivi fino al XVIII, così come si ricava dalle opere ottocentesche di Antonio De Salvo il quale ne cita il disarmo spiegando che “…poiché l’interrimento sempre più avanzatesi…” il Porto di Oreste fu soppiantato da quello di Gioia Tauro, per volere del Vicario generale di Calabria “…avendovi fabbricato il primo magazzino di deposito, per il commercio dell’olio”.
Se al di là delle vaghe prove archeologiche, ci rivolgiamo ancora alla tradizione, scopriamo che un documento del XVIII sec. pare citi l’esistenza di una Cappella dedicata alla SS. Vergine di Porto Oreste proprio nella zona di Rovaglioso, luogo che la tradizione popolare fa coincidere con la sede del misterioso insediamento. Certo la presenza di una cappella dedicata non è una prova di esattezza del contesto geografico, ma un semplice indizio da non trascurare. Da ricordare è poi anche la menzione che di Porto Oreste fa Tommaso Aceti, vescovo, bibliotecario e filologo calabrese vissuto fra Sei e Settecento, che nell’occuparsi delle città scomparse della Calabria cita Porto Oreste collocandolo “inter Taurianum et Palman, nunc Rovaglioso”, riportandoci ancora una volta lungo l’affascinante tratto costiero. Rievoca inoltre la presunta importanza del luogo, se è vero che fu sede vescovile agli albori del Cristianesimo in Calabria, ma poi dice che la furia distruttiva dei saraceni spinse gli abitanti a trasferirsi nella vicina Taureana che avrebbero lasciato a seguito della sua distruzione nel X sec. Costoro – aggiunge il De Salvo – si sarebbero infine rifugiati nella parte alta della costiera, tra il monte Aulinas (oggi Sant’Elia) ed il fiume Metaurus, nella contrada De Palmis dove vi erano alcune case coloniche, e così Porto Oreste fu condannata all’oblio. Una correlazione fra Porto Oreste e Rovaglioso la ritroviamo anche in un Vocabolario italiano-latino in due tomi del 1764, stampato a Venezia, che alla voce PORTUS ORESTIS fa corrispondere la definizione “Plin. Porto Rovaglioso in Calabria”.
Nella cartografia antica, che spesso ripropone luoghi e toponimi desunti dagli antichi scrittori, troviamo traccia del Porto Oreste, in una carta del 1652 realizzata ad Amsterdam dal cartografo, editore e incisore olandese Joannes Janssonius, incisa in rame e colorata a mano, decorata con un bel cartiglio recante l’iscrizione “Itala nam tellus Graecia major erat” (v. foto 1-2). E’ tratta dall’atlante storico “Accurata Orbis antiqui Delineatio”, curato da Hornius ed inserito da Janssonius come volume VI del suo “Atlas Novus”. La carta riprende quella originariamente edita da Ortelio nel “Parergon” del “Theatrum Orbis Terrarum”.
LA RINASCITA DI RAVAGLIOSO/PORTO ORESTE
Straordinario intreccio tra mito, storia e paesaggio, Ravaglioso è una piccola rada naturale circondata da scogliere e anfratti che si apre alla base di un costone a picco sul mare, coperto di zagare e fichi d’india in un paesaggio naturale davvero unico. A quanto pare il suo nome deriverebbe dall’espressione dialettale “ddrocu agghiusu” (laggiù) ma ha anche un nome mitico, quello di Porto Oreste. Fino a poco tempo fa il percorso per raggiungere Ravaglioso passava dalla ripida stradina, parzialmente sterrata, che si apre a metà circa della carrozzabile che va dalla località Torre alla stazione ferroviaria. Un tragitto molto suggestivo tra alti canneti e ulivi maestosi, se non fosse per alcuni scheletri di edifici incompiuti, tracce di discariche abusive e l’inopportuno accesso consentito alle auto fino ad un piazzale fra gli ulivi dal quale si accede all’insenatura tramite una ripida scaletta in gran parte crollata ma aperta su uno degli scenari più belli dell’intera costa. Almeno così veniva descritto il luogo da chi lo ha frequentato fino al 2012, anno in cui si diffuse notizia di un progetto di recupero di Ravaglioso da parte dell’amministrazione locale. Sul momento si espressero dubbi e perplessità, perché non sarebbe stato pensabile, secondo alcuni, un recupero effettivo senza ‘ripulire’ integralmente la zona, anche a costo di dover demolire qualcosa.
Ad un anno di distanza – e passiamo all’estate 2013 – ecco che qualcosa in effetti è cambiato. La stradina che conduce a Ravaglioso risulta meno dissestata e lo spiazzo-parcheggio fra gli ulivi oggi ospita panchine e tavolini realizzati in legno riciclato e piccole macchie di piante grasse. I rovi che sottraevano la vista sulla caletta sono stati tagliati ed oggi questo spazio è diventato un belvedere su un panorama mozzafiato con i suoi circa 100 metri di strapiombo. A darvi il benvenuto c’è un cartello in legno con la scritta “Rovaglioso presidio di volenterosi cittadini palmesi”, mentre altri invitano al rispetto per l’ambiente. Da un lato della radura fra gli ulivi il sentiero di 119 gradini, prima impraticabile ed ora recuperato, porta fino alla scogliera, intervallato da qualche panchina per un riposo temporaneo. In fondo alla discesa, a far compagnia al visitatore c’è solo il fruscio del vento, la voce del mare e il rumore di qualche imbarcazione di passaggio. Per il resto solo silenzio, acqua cristallina e fondali trasparenti che pullulano di vita. In un punto sgorga persino una sorgente che crea una sorta di vasca d’acqua dolce, un vero paradiso per gli amanti delle immersioni subacquee. A realizzare questo piccolo miracolo di recupero è stata nel 2013 la Provincia di Reggio Calabria. Un’opera che ha ridato visibilità ad uno scenario naturale a lungo rimasto inaccessibile al grande pubblico e riservato a singoli e temerari trekkers.
IL PREMIO DI LEGAMBIENTE
Nell’agosto 2013, a coronamento di questo bel cambiamento, Legambiente ha conferito alla Scogliera di Rovaglioso il riconoscimento ‘La più bella sei tu’ ed il sito è entrato a far parte delle 17 spiagge più belle d’Italia. A decretarlo l’esito di un sondaggio effettuato via internet, che ha permesso a chiunque di potersi esprimere sui luoghi italiani di eccezione. Rovaglioso è così entrata di diritto nella rosa delle spiagge più belle d’Italia, sebbene non siano mancati riferimenti anche ad altre suggestive località calabresi, tra le quali Praja di focu-Capo Vaticano a Ricadi, la spiaggia di Marinella a Isola di Capo Rizzuto, la spiaggia di Caminìa a Stalettì, il litorale di Roccella Jonica e molte altre.
RAVAGLIOSO PRESIDIO DI LEGALITA’
Ravaglioso non è però solo paesaggio recuperato. Il luogo è diventato anche emblema di legalità, dato che gli uliveti sovrastanti sono stati sequestrati alla potente cosca dei Mammoliti di Castellace di Oppido Mamertina, che se ne era impossessata ai danni della famiglia Cordopatri. Sulla caletta e sul sentiero d’accesso vigilano invece i ragazzi del “Presidio di volontari di Rovaglioso”, attivi nel sensibilizzare turisti e cittadini, nonché pronti ad eseguire diversi lavori di miglioramento come l’affaccio sul “Bagno delle Femmine”, i terrazzi in pietra e il ripristino dell’ex casermetta della Finanza invasa da rovi ed arbusti.
PROSSIMI PROGETTI
L’azione dei ragazzi del Presidio Rovaglioso è stata fondamentale perché intorno a questo luogo, straordinario mix di storia, mito e bellezza, si risvegliasse anche l’interesse delle Istituzioni. Infatti, secondo quanto dichiarato l’estate scorsa dai rappresentanti locali di Legambiente, il prossimo obiettivo sarà quello di completare la riqualificazione attraverso la protezione del luogo dagli smottamenti invernali e l’abbattimento dei manufatti abusivi che intaccano la bellezza del sentiero a monte della cala, il tutto nella speranza che quanto conquistato non venga più perduto.
Un libro: “Il porto di Oreste – Racconto mitologico”, di Walter Cricrì, Pellegrini Editore, Cosenza, 2005