di Kasia Burney Gargiulo
L’idea di scrivere questo articolo è nata da una serie di circostanze concomitanti, fra revival e attualità. Il primo input è arrivato dalla visione di una vecchia puntata del Maurizio Costanzo Show che un’amica di mia madre registrò un po’ di anni fa, nella quale si vede il noto scrittore e regista napoletano Luciano De Crescenzo rispondere in modo folgorante ad un leghista che aveva dato libero sfogo al proprio razzismo antimeridionalista: “Quando voi abitavate ancora sugli alberi e mangiavate carne cruda, noi al Sud eravamo già omosessuali…”. Un modo simpaticamente sferzante, quello di De Crescenzo, per attestare il primato di un Sud antichissimo nel quale il dominio del pensiero e della cultura consentivano stili di vita che per molti sono ancora oggi motivo di pregiudizio e di scandalo. L’altra circostanza è stata invece l’uscita, lo scorso anno, di un articolo sul quotidiano Il Tempo nel quale si evidenziava come in materia di omosessualità le leggi vigenti nel borbonico Regno delle Due Sicilie fossero le più illuminate dell’Italia pre-unitaria, “così illuminate – scriveva l’autore – che nel codice penale di quel Regno di omosessuali e omosessualità non si faceva nemmeno parola”. Dei reati sessuali, quelli legati a violenza e abuso, il codice borbonico si occupava certo, ma “prescindendo del tutto dal sesso dei soggetti…particolare del tutto irrilevante”. Nessuna proibizione dunque, al contrario dei regni sabaudi Piemonte e Sardegna, per le cui leggi l’omosessualità era da considerarsi un vero crimine (l’art. 425 del codice puniva gli atti omosessuali su querela di parte o in caso di pubblico scandalo). Ciò ovviamente non significa che nel Sud, fra Sette e Ottocento, si fosse diposti a cuor leggero ad ammettere la propria omosessualità, anche perchè, pur escludendo divieti di legge, rimaneva da fare i conti con il rigore della morale di matrice religiosa, che permeava di sè soprattutto le classi sociali medio-alte, mentre molta parte del popolino si barcamenava fra restrizioni e una paganeggiante licenza che dopo secoli era tutt’altro che sopita.
E’ proprio in questo contesto che nasce un libro del quale voglio parlarvi, poco noto al grande pubblico ma legato alla penna di uno dei patrioti più stimati dell’Italia pre-unitaria, del quale lo scorso anno ricorreva il bicentenario della nascita. Mi riferisco al napoletano Luigi Settembrini, considerato un Padre della Patria, autore dell’opera autobiografica ”Le ricordanze della mia vita”, fulgido esempio di letteratura risorgimentale, un tempo nota persino ai bambini delle scuole elementari. Ebbene, quest’uomo – figlio di un avvocato di fede giacobina che aveva preso parte alla Rivoluzione Partenopea del 1799, avvocato a sua volta ma poi approdato con risultati più che brillanti agli studi umanistici, allievo di Basilio Puoti e di Pasquale Galluppi, giornalista, traduttore dal greco antico, sposato con un figlio, arrestato per la sua militanza nella fila mazziniane, attivissimo nel dibattito politico con il famoso Protesta del popolo delle due Sicilie, pamphlet che gli costò una fuga a Malta, arrestato e condannato a morte per cospirazione a seguito della restaurazione borbonica ma poi messo all’ergastolo sull’isola di Santo Stefano, e infine avviato insieme ad altri patrioti alla deportazione in Argentina su una nave che grazie all’intervento del figlio fu dirottata verso l’Inghilterra, paese dove restò su richiesta di Cavour fino all’unificazione del Regno di cui sarebbe diventato senatore – quest’uomo, dicevo, fu sorprendentemente autore di un romanzo erotico gay al centro di uno dei casi più eclatanti di quella censura non dichiarata che si chiama volontario oblio. Si tratta de I Neoplatonici, un romanzo breve scritto durante il periodo della prigionia e pubblicato postumo solo nel 1977, perchè prima di allora – nonostante fosse già noto agli ambienti letterari – si ritenne che l’argomento erotico omosessuale trattato contrastasse con l’immagine austera che la critica aveva sempre dato dello scrittore-patriota. Il libro, uscito la prima volta per la Rizzoli con una nota di Giorgio Manganelli e la prefazione del grecista Raffaele Cantarella, è stato ripubblicato in tempi più recenti dalla Sallerio di Palermo e da altri editori.
Settembrini aveva terminato la sua autorevole traduzione dal greco delle opere di Luciano di Samosata quando pose mano a questa fiaba omoerotica ambientata nell’antica Grecia e prodiga di particolari sull’amore fra uomini. Una volta completata l’opera, la fece pervenire alla moglie spacciandola per traduzione da un autore greco antico, un inesistente Aristeo di Megara. Il libro non ha una vera trama, limitandosi a seguire le vicende di due ragazzi, Callicle e Doro, che s’innamorano reciprocamente e diventano amanti. Questo non impedirà loro di sposarsi regolarmente, matrimonio che peraltro non segnerà affatto la fine della loro relazione. A ben pensarci la scrittrice americana Annie Proulx e il regista Ang Lee con il loro Brokeback Mountain non hanno inventato nulla di nuovo.
Il racconto di Settembrini, composto con stile fresco ed elegante, comprende anche descrizioni di rapporti sessuali sodomitici, caratteristica che non ha eguali nella letteratura italiana del tempo mentre, dal punto di vista delle atmosfere che vi si respirano, c’è da dire che sebbene – come molti ritengono – il romanzo appaia evidente espressione di privatissime e mai rivelate inclinazioni dell’autore, il testo non reca tracce di quella morbosità o malinconia che potrebbero spiegarsi in presenza di una qualche forma di auto-repressione (qualcuno, in virtù di questa considerazione, ne ha dedotto che Settembrini avesse della ‘materia’ una conoscenza da ‘praticante’), ma offre un’immagine assolutamente positiva e serena dell’omosessualità, presentata come una possibile declinazione dell’amore umano non priva di gioie per chi la vive. Sì perchè nell’opera di Settembrini non c’è solo sesso, ma anche una importante dimensione affettiva, connubio che conferisce allo sguardo dell’autore un’impronta di grande modernità.
Ecco l’avvertimento con cui lo stesso Autore introduce la narrazione, che finge di aver tradotto da Aristeo: “I Neoplatonici di Aristeo di Megara è una di quelle favole milesie, di cui i delicatissimi Elleni tanto si dilettavano. È un racconto osceno sino a la metà, ma è una opera d’arte; e perché bella opera d’arte, è tradotta in italiano. Noi uomini moderni abbiamo tutti i vizi degli antichi Elleni, e forse anche più e maggiori, ma li nascondiamo non so se per pudore o per ipocrisia: quelli non nascondevano nulla, ed abbellivano con l’arte anche i vizi. Uno dei caratteri principali dell’Arte greca è questo che ella non è ipocrita, non nasconde nulla, rappresenta l’uomo nudo qual’è, anche con le sue vergogne. I moralisti potranno biasimare questo racconto, gli artisti se ne compiaceranno certamente, e diranno che l’arte fa bella ogni cosa. E da questo racconto ancora si vede come sia antica l’opinione di alcuni discreti uomini, i quali credono che l’amor platonico non sia amore purissimo e scevro di ogni sensualità, come alcuni furbi han dato ad intendere per nascondere i loro amori maschili. E di questo volevo avvertire coloro che leggeranno.”
Alla morte di Settembrini il romanzo rimase fra le sue carte inedite e come risulta da una lettera datata 6 ottobre 1953, inviata dal noto epigrammista Emidio Piermarini a Raffaele Cantarella (la corrispondenza è citata da Francesco Gnerre nel libro L’eroe negato), lo stesso Piermarini lo aveva inventariato e catalogato escludendone la pubblicazione per motivi di riservatezza, pur considerandolo “un lavoretto d’abilità magistrale (…), un’opera vivace, a tratti vivacissima, di fresca grazia, da fare onore ad un artista di alta classe come fu il Settembrini …”, che “ha tratti delicati e gentili nel parlare di bellezza corporea e di gioventù, e di vita lieta e coraggiosa nel vivere degli antichi Greci…”.Va precisato che Piermarini discute della cosa con Cantarella perchè era stato proprio quest’ultimo a scoprire il manoscritto nel 1937 presso la Biblioteca Nazionale di Napoli. Piermarini racconta quindi della sua iniziativa di parlarne con Benedetto Croce e con Francesco Torraca che di Settembrini era stato allievo. Quest’ultimo, pur attribuendo al romanzo un carattere di opera “ingegnosa e viva”, rimase dispiaciuto della scoperta e consigliò di lasciare il libro “nell’ombra di un armadio di biblioteca”, e anche il Croce, con scarso coraggio, impose il veto alla pubblicazione giudicando I Neoplatonici un “lubrico e malsano errore letterario del Venerato Maestro, martire patriottico dei Borboni”.
In conclusione, non può non ricordarsi il messaggio – una vera excusatio non petita – che Settembrini allegò al manoscritto nell’atto di inviarlo a sua moglie appena terminata la stesura, perchè in esso raggiunge l’apoteosi quell’umanissimo processo di trasferimento sul piano letterario di una sfera intima e personale che gli altri, a partire dalla stessa moglie, quasi certamente non abrebbero compreso nè accettato se fosse stata loro rivelata: “Mi dirai tu: ‘E come ti viene in capo di tradurre scritture dove è qualche oscenità?’ Ecco qui, Gigia mia: le opere greche sono piene di queste oscenità, quale più, quale meno: ma era il tempo, era la gente voluttuosa: e le più belle opere ne sono piene.”
Ebbene, sono passati più di 150 anni dalla stesura de I Neoplatonici e non sembra essere cambiato molto, almeno in Italia, in merito alla necessità di coprire con veli e controveli “l’amore che non osa pronunciare il suo nome”.
Sia pure con quasi un anno di ritardo, rendiamo omaggio anche noi al Bicentenario del maestro Settembrini invitandovi a leggere la sua opera “segreta” oggi disponibile sulla Rete in pubblico dominio (Wikisource).
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