di Redazione FdS
Tipici del periodo natalizio – da gustare magari accompagnati da un vino passito calabrese di pregio come lo straordinario Moscato di Saracena – i panicilli sono uno dei prodotti più raffinati della gastronomia del Sud Italia. Specialità prelibata della tradizione calabrese, con una interessante e gustosa variante campana, sono il risultato di una lunga e complessa preparazione che vale la pena raccontare sia per il suo indiscutibile fascino, sia perché sono ormai poche le persone in grado di realizzarli. Fino alla metà del Novecento, nel tratto di litorale tirrenico calabrese che va sotto il nome di Riviera dei Cedri e nel suo immediato entroterra, in località come Verbicaro, Santa Maria del Cedro e Diamante, fare i panicilli (nel dialetto locale panaciedd) era un’usanza abituale per quasi ogni famiglia, tramandata da una generazione all’altra come tutti i segreti della cucina ma soprattutto di quegli alimenti che, destinati alla conservazione, necessitano di una laboriosa preparazione. Sebbene legati principalmente al consumo domestico, è noto come fino al secondo dopoguerra, in virtù della loro prelibatezza, i panicilli fossero oggetto anche di una intensa attività di esportazione.
Ma scopriamo le materie prime e i passaggi fondamentali della loro preparazione. A cominciare dal gruppo di erbe spontanee destinate, ancora verdi, ad essere bruciate in primavera per ottenerne la cenere utile a preparare la liscivia (nel dialetto locale lissìa), vale a dire la soluzione alcalina di cenere e acqua che, contenendo idrossido di sodio o di potassio, serve a disinfettare i grappoli d’uva poi sottoposti a essiccazione. Tali erbe vengono raccolte a mano preservando la pianta madre per l’anno successivo: fra le altre ricordiamo l’aromatico cisto marino, arbusto comune nella macchia mediterranea, così come il mirto, le cui proprietà antisettiche e antinfiammatorie oltre che ornamentali era già note agli antichi greci e romani, e il lentisco, pianta dotata di proprietà antibatteriche e antiossidanti. Per preparare la liscivia, la cenere ottenuta dalla combustione viene messa insieme all’acqua nel furnieddu, una sorta di pozzetto in pietra collocato a ridosso di un terrapieno in aperta campagna; sul suo fondo vengono preventivamente posizionati una serie di rametti di legno sui quali, a fare da filtro, si pone un intreccio di rami di Inula viscosa (pulicaria, nel dialetto locale), erba molto aromatica i cui olii essenziali hanno un effetto antisettico, antiossidante e balsamico.
Il vitigno dal quale si ottiene l’uva passa è localmente noto come duraca, varietà di uva bianca Zibibbo (o Moscato d’Alessandria) di cui rimangono in zona pochi esemplari. Al tempo della vendemmia, quest’uva dai grossi acini polposi e dolci viene raccolta (secondo la tradizione in un giorno sereno, asciutto e di luna calante) e i suoi grappoli legati con lo spago in filari di circa 3 metri poi posizionati su un’impalcatura in legno detta cuonzu. A questo punto viene messa a bollire la liscivia nella caudara (caldaia), pentolone incassato in una specie di forno in muratura dotato di una bocca inferiore per la combustione della legna. In prossimità dell’ebollizione, i filari di uva vengono trasferiti in piccoli gruppi su un palo di legno detto pezzente dal quale saranno via via prelevati per essere immersi nella liscivia bollente. E’ un’operazione breve e delicata che richiede accortezza ed esperienza: un attimo in più di immersione potrebbe rovinare tutto. L’immersione avviene a più riprese in modo da garantire una lessatura uniforme dell’uva. La liscivia produce delle piccole spaccature sugli acini che contribuiscono alla loro successiva essiccazione lasciandone evaporare l’umidità in eccesso; al tempo stesso forma sulla loro superficie una patina che li protegge dalla formazione di muffe e dagli attacchi di insetti per il periodo in cui i filari rimarranno esposti al sole su un apposito stenditoio (spannituro, nel dialetto locale). E’ il caso qui di ricordare come la produzione di uva passa, fino al XIX secolo, sia stata molto fiorente in quest’area, da dove partiva via mare in sporte o barili per raggiungere varie città d’Italia o paesi esteri come Francia, Svezia, Germania, Olanda e Inghilterra.
Terminata l’essiccazione, i filari di uva vengono conservati in casa fino al momento della preparazione dei panicilli, che coincide col periodo di ottobre-dicembre, quando si pratica la potatura degli alberi di cedro, il pregiato agrume che in quest’angolo di Calabria ha trovato il suo habitat ideale. Si comincia con il paziente lavoro di deraspatura, ossia il selettivo distacco dal raspo degli acini d’uva che, con l’essiccazione e l’alta concentrazione di zuccheri, diventano dolcissimi. Le foglie di cedro, che servono da involucro per i panicilli, vengono staccate dai rami ottenuti con la potatura e quindi pulite con un panno di cotone umido. Con un coltello affilato viene poi staccata la spessa buccia dei cedri che, tagliata a cubetti e unita agli acini di uva passa (passuli, nel dialetto locale), conferirà ai panicilli un gradevole aroma dovuto agli oli essenziali rilasciati durante la cottura: aromi che, sommandosi a tutti gli altri acquisiti nell’arco dell’intero processo di lavorazione, rendono il prodotto finito qualcosa di davvero unico.
Si prepara quindi l’involucro sovrapponendo ad arte alcune foglie di cedro al cui centro si pone una piccola quantità di composto di uva passa e scorza di agrume. Si ripiegano le foglie formando un fagottino che viene legato con sottilissimi rami di ginestra selvatica raccolti e selezionati in precedenza. Inizia così l’ultima fase della preparazione, anch’essa ad alto tasso di aromi: i fagottini sono pronti per essere cotti in un forno a legna alimentato con i resti della potatura dei cedri e con tralci di vite. Il calore del forno farà sciogliere gli zuccheri presenti (glucosio e fruttosio) che daranno coesione agli acini senza intaccarne la morbidezza. Dopo la cottura è importante evitare che si rompa l’involucro di foglie per scongiurare l’alterazione del prodotto fino al momento della consumazione.
PANICILLI, DESSERT “LETTERARIO”
Questa autentica delizia della gastronomia calabrese non mancò di stregare uno dei maggiori protagonisti della letteratura italiana otto-novecentesca. Nel suo lungo racconto La Leda senza cigno – edito a puntate nel 1913 sul Corriere della Sera e nel 2016 in volume – il celebre poeta e scrittore Gabriele d’Annunzio descrive infatti alla sua amante i panicilli, scelti come prezioso omaggio per lei. Di seguito, il brano tratto dal racconto:
“…Sorrido pensando a quegli invogli di fronde compresse e risecche, venuti di Calabria, che un giorno vi stupirono e incantarono, quando ve li offersi sopra una tovaglia distesa su l′erba di Dama Rosa, non ancor falciata, ove da per tutto tremolavano i fiori scempii e le avene fatue fuorché nei solchi segnati dal giuoco dei levrieri. Gli invogli erano di forma quadrilunga come volumetti suggellati d′un solitario che avesse confuso felicemente la biblioteca e l′orto. Ci voleva l′unghia per rompere la prima buccia. La membrana andava in frantumi ma le nervature resistevano come quelle del dosso d′un libro legato in cartapecora. La seconda foglia era più tenace e la terza ancor più, e la quarta più ancora. Il viluppo si faceva più stretto assottigliandosi. Le dita non arrivavano mai in fondo; e l′attesa irritava la curiosità; e l′indugio faceva credere al gusto che là dentro si celasse la più saporita cosa del mondo. E m′ho tuttavia nella memoria quella grazia del viso chino, ove la bocca si socchiude e chiude per l′acqua che le viene. Ecco l′ultima foglia in cui è avvolto il segreto, profumata come il bergamotto. L′unghia la rompe; le dita s′aprono e si tingono di sugo giallo, si ungono di non so che unguento solare. Pochi acini di uva appassita e incotta, color tanè oscuro, di quel colore che « pare ottenga nell′occhio il primo grado », pochi acini umidi e quasi direi oliati di quell′olio indicibile ove nuota alcun occhio castagno ch′io mi so, pochi acini del grappolo della vite del sole appariscono premuti l′un contro l′altro, con un che di luminoso nel bruno, con un che di ardente senza fiamma, con un sapore che ci delizia prima di essere assaporato…”
IL CEDRO CALABRESE
Nei panicilli il cedro è un ingrediente-chiave imprescindibile. Come si accennava prima, esso ha trovato il suo habitat ideale nella fascia costiera della Riviera dei Cedri, territorio dell’alto Tirreno calabrese dove si coltiva con risultati eccellenti. Fra le varie località in cui si produce non può non menzionarsi Santa Maria del Cedro dove ogni anno, fra luglio e agosto, come da lunga tradizione, giunge una delegazione di Rabbini per selezionare e raccogliere di persona i frutti migliori, indispensabili per la solenne festa di Sukkòth (Festa delle Capanne) che si celebra a ottobre e rappresenta per gli ebrei di tutto il mondo un importantissimo evento religioso a ricordo dell’esodo dall’Egitto.
Il cedro (etrog) è una delle quattro piante utilizzate per questa festa, insieme a palma, salice e mirto. Gli ebrei considerano l’agrume “il frutto dell’albero più bello” (Perì ‘etz adar) – non a caso è citato 72 volte nelle Sacre Scritture – e in Calabria vengono a raccogliere quello della varietà liscio di Diamante, ritenuto il più pregiato, di cui selezionano gli esemplari privi di qualsiasi macchia o rugosità. E’ una sorta di ritorno alle origini, considerato che l’introduzione del cedro nella zona sarebbe da attribuirsi proprio agli ebrei approdati, già dagli ultimi secoli prima dell’era cristiana, nelle colonie greche dell’Italia meridionale. Il cedro, bisognoso di un clima stabile senza sbalzi di temperatura, di acqua abbondante e di posizione al riparo dai venti, ha qui trovato le condizioni climatiche migliori per crescere e fruttificare. Determinante è peraltro il ruolo dei contadini che si prendono cura delle piante coprendo d’inverno le cedriere con canne o teli, e intervenendo in vario modo su di esse per favorirne lo sviluppo, operazioni a cui spesso partecipano anche i rabbini, presenti dunque sul territorio in vari momenti dell’anno e non solo in quello della raccolta.
I FOLLOVIELLI, “CUGINI” CAMPANI DEI PANICILLI
Se dalla Calabria ci spostiamo in Campania, lungo la splendida Penisola Sorrentina, troviamo quelli che possono considerarsi gli unici “parenti” stretti dei panicilli, e cioè i follovielli o follarelli, fagottini di foglie di limoni della costiera con all’interno uva passa e scorze candite di arancia. Se sull’origine de nome esistono varie ipotesi – secondo alcuni deriverebbe da “folia volvere”, ossia avvolgere nella foglia, oppure da “follare”, cioè “pigiare”, evidente riferimento alla farcitura compatta dei fagottini, o infine da “folliculus”, che vuol dire sacchetto, guscio – le opinioni sono concordi nel considerare questo ”scrigno” di sapori un prodotto di origine antichissima: sarebbero diretti discendenti di un originale d’epoca romana che prevedeva l’utilizzo delle foglie di fico, di platano o di vite come involucro per conservare l’uva passa. Preparati oggi per lo più con uva passa di origine siciliana (si privilegia per qualità quella di Pantelleria), i follovielli vengono prodotti da novembre a gennaio con un procedimento che prevede la bollitura per qualche minuto dell’uva nel vino bianco e la successiva asciugatura in forno. Una volta raffreddata, l’uva viene avvolta con pezzi di scorza candita d’arancia in foglie di limone legate con del filo di rafia. I fagottini così formati vengono ripassati brevemente in forno a temperatura non troppo elevata e sono così pronti per arrivare sulle tavole natalizie accanto a tutto quell’insieme di sfizi chiamati simpaticamente “sciòsciole” e composti da noci, nocciole, fichi secchi, castagne e simili, consumati durante un’amabile conversazione, magari sorseggiando un bicchiere di ottimo passito.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Bibliografia:
– AA. VV. Rivista di frutticoltura e di ortofloricoltura, Vol. 67, Edagricole, Bologna, 2005
– C. Barberis, Mangitalia: la storia d’Italia servita in tavola, Donzelli, Roma, 2010, 287 pp.
– W. Dello Russo, Calabria, la Riviera dei Cedri, Sime Books, Palermo, 2011, 64 pp.
– M. F. Minervino, In fondo a Sud: Calabria e altri turismi, Philobiblon, Ventimiglia, 2006, 283 pp.
– A. Piromalli, La letteratura calabrese, 2 Vol., Luigi Pellegrini editore, Cosenza, 860 pp.