<< Leggi l’articolo introduttivo
di Alessandro Novoli
Il nostro viaggio nelle tradizioni popolari legate alla festa autunnale dei defunti prosegue passando in rassegna le usanze di altre tre regioni del Mezzogiorno, l’Abruzzo, il Molise e la Sicilia…senza rinunciare ad uno sguardo verso i territori del Nord Italia che fin dall’antichità condividono tradizioni del tutto simili.
Per l’Abruzzo abbiamo scelto di portarvi a Serramonacesca, piccolo borgo di 570 abitanti in provincia di Pescara. Un luogo le cui origini si fanno risalire ad un primitivo nucleo di famiglie longobarde. Qui si conservano la splendida Abbazia di San Liberatore a Majella – costruita nell’856 e all’origine del nome Serramonacesca (serra dei monaci) – e l’omonimo suggestivo complesso delle tombe rupestri situato lungo una parete della valle in cui scorre il fiume Alento. Ai Benedettini dell’Abbazia si deve anche il vicino Eremo di S. Onorio, sorto sulla Majella sfruttando in origine alcune cavità naturali. In questo scenario, per l’ennesima volta da tempo immemorabile, vagheranno le anime dei morti nella notte di Ognissanti. Gli abitanti del posto la chiamano L’aneme de le morte (le anime dei morti) per definire quella notte in cui si apre un varco fra regno dei morti e quello dei vivi. I defunti tornano nel loro luogo d’origine e ad evocare simbolicamente l’evento ci pensano i serresi che nei giorni precedenti hanno svuotato zucche lavorandole in sembianze umane. Illuminate da candele, le “Cocce de morte” (teste di morto) saranno portate in giro dai ragazzi per le vie del borgo antico quali personificazioni delle anime dei morti, mentre qualcuno busserà per loro alle porte di ogni casa chiedendo che sia data qualcosa in suffragio. Nel domandare chi sia che bussa, il padrone si sentirà rispondere “L’aneme de le morte” e allora saprà che dovrà apprestarsi a donare monete, frutta secca e dolci. Talora la questua è accompagnata da un canto, come accade a Pettorano sul Gizio (L’Aquila), uno dei borghi più belli d’Italia, dove gruppi di ragazzi, contadini o artigiani, vanno di casa in casa intonando queste parole dal chiaro significato:
“Ogge è lla feste de tutte li sande:
Facete bbene a st’aneme penande…
Se vvu bbene de core me le facete,
nell’altre monne le retruverete.”
A Roccamonacesca, in tempi più recenti, il paese ha aggiornato la sua tradizione istituendo anche una sagra della zucca che si svolge nelle serate del 31 ottobre e del 1° novembre, animate con musiche, canti e balli. Dunque nulla di orrorifico, perfettamente in linea con la cifra che da sempre contraddistingue la festa dei morti in Italia. Non ci sono spiriti maligni da scacciare, bensì anime da accogliere, il cui rapporto con il mondo dei viventi non si esaurisce mai del tutto, come vuole la credenza popolare.
Fondamentale per la ricostruzione degli antichi riti abruzzesi legati alla commemorazione dei defunti è senza dubbio l’opera in più volumi Usi e costumi abruzzesi di Antonio De Nino, edita nel 1879, la quale riferisce l’usanza dei monelli di Chieti di bussare a ripetizione, nella notte tra l’1 e il 2 novembre, ai portoni della città recando in giro “delle zucche vuote con fori che vi rappresentano occhi, naso e bocca di un teschio e con un lumicino dentro”, oggetto rituale che non era raro trovare esposto anche sui davanzali delle finestre. A Sulmona (L’Aquila), gli scheletri dei defunti venivano invece evocati dai ragazzi attraverso le bianche figure ottenute lanciando contro i portoni delle case “pallottole di calce fresca” oppure tracciandole con un pennello intinto in un secchio di calce stemperata; bizzarra usanza per la quale l’antropologo azzarda un possibile collegamento con “la simbolica morte del sole” nel freddo periodo autunnale. Sempre a novembre, ma un po’ posticipate rispetto alla classica ricorrenza dei defunti, vediamo comparire le zucche intagliate anche nel borgo marsicano di Ortucchio (L’Aquila); questa sfasatura cronologica non deve sorprenderci perché, come già detto altrove, il periodo considerato favorevole per “relazionarsi” coi morti si protraeva fino all’Epifania: ebbene, a Ortucchio, durante la vigilia della festa di San Martino, nel corso di una rumorosa festa collettiva, i ragazzi esibivano delle zucche vuote (cococce), intagliate a mo’ di volto umano, con adattata all’interno una candela accesa; in molti casi alle zucche venivano aggiunte un paio di corna e dopo averle affisse in cima a un palo si attendeva che calasse la notte per poi portarle in giro per il paese al grido di “Viva San Martino! Viva le corna!”. L’accensione di questi strani lanternoni fece ipotizzare al De Nino che potesse trattarsi di un vago ricordo dei ceri portati in processione durante gli antichi Saturnali. Se le zucche erano le grandi protagoniste della vigilia di San Martino, ciò non toglie che già diverse sere prima di quella data i ragazzi di Ortucchio girassero per le case del paese con le zucche illuminate chiedendo offerte in denaro, usanza che ancora una volta riporta al rito della questua già visto altrove nel resto d’Italia in correlazione alla commemorazione dei defunti.
Altro antico rito abruzzese legato al giorno dei morti era quello di assicurarsi che la notte della vigilia nessuna traccia di fuoco rimanesse nel camino. Al fuoco, simbolo di vita, doveva contrapporsi in quel momento solenne l’estinzione della vita, oggetto appunto della commemorazione funebre. Il rispettoso rigore di questa usanza non comportava tuttavia la rinuncia all’idea della vita come costante e irrinunciabile contraltare della morte, e ciò è ravvisabile in particolare nella ricorrente importanza attribuita al cibo: nel borgo di Pacentro (L’Aquila), ad esempio, le famiglie più agiate imbandivano per la vigilia una mensa esclusivamente per i morti che, si credeva, vi si sarebbero apprestate per rifocillarsi nel loro temporaneo viaggio di ritorno nei luoghi di origine. Il giorno successivo le pietanze preparate per l’occasione venivano distribuite ai poveri. Usanza nella quale il De Nino intravide “una reminiscenza del convito funebre dei nostri antichi”.
Spostiamoci in Molise ed andiamo a Carovilli (Isernia), dove la sera di Ognissanti ha luogo la festa della “Mort cazzuta” in occasione della quale viene organizzato ‘R’cummit’ (il convito), una cena particolare il cui piatto principale sono le “Sagne e jierv”, cioè delle lasagnette preparate con farina e acqua, condite con della verza a cui la prima gelata dell’anno abbia conferito particolare tenerezza, e insaporite con pancetta di maiale. Al termine della cena, condivisa con parenti e amici, un piatto della pietanza viene messo sul davanzale di una finestra, affinché i parenti defunti possano cibarsene durante quella notte in cui tornano a visitare la casa. Accanto al piatto viene posta una zucca svuotata e intagliata con all’interno una candela accesa, la cui espressione può essere sorridente, piangente, spaventosa o beffarda rispecchiando la visione personale che l’intagliatore ha della morte. Il bizzarro nome di “Mort cazzuta” dato alla festa deriva proprio dall’intaglio delle zucche, in quanto il termine ‘cazzuta’ nel dialetto locale significa ‘tagliata’. L’uso di intagliare zucche e di illuminarle con candele si registra anche a Montemitro, un paesino di 460 abitanti in provincia di Isernia che insieme ad Acquaviva Collecroce e San Felice del Molise è da ricondursi alla colonia croata fondata dai profughi dalmati giunti in Italia nel XV secolo a ripopolare alcuni centri del Molise.
Anche in Sicilia, per alcuni giorni, l’evento estremo dell’esistenza umana si spoglia delle sue connotazioni drammatiche ed assume il carattere di realtà che ha a che fare con l’ordine naturale delle cose. Nell’isola più grande del Mediterraneo protagonisti principali della festa dei morti, a parte le anime degli avi, sono i bambini: a Palermo in particolare, a loro viene detto che nella notte tra l’1 e il 2 Novembre le anime dei parenti defunti arriveranno con dolci, giocattoli, vestiti e tanto altro da regalare ai piccoli (in Sicilia esistono allo scopo delle vere e proprie fiere di doni dette ”Fiere dei morti”) che sono stati buoni durante l’anno, mentre per coloro che hanno fatto i capricci c’è il rischio di vedersi ripassare i piedi con la grattugia, attrezzo domestico accuratamente nascosto dai bambini per evitare la punizione. Del resto la loro unica e legittima aspirazione è trovare l’indomani tanti doni accanto al letto, come suggerisce questa filastrocca-preghiera rivolta ai defunti:
Animi santi, animi santi,
io sugnu unu e vuiautri síti tanti:
mentri sugnu ‘ntra stu munnu di guai
cosi di morti mittitimìnni assai.
Anime sante, anime sante,
io sono uno, voi siete tante:
mentre sono in questo mondo di guai
‘cose di morti’ (metafora dialettale per ‘regali’) portatemene tante.
Per assolvere a questo compito i defunti si aggirano dunque per la città e si dice lo facciano seguendo un ordine ben preciso: per prime avanzano le anime dei morti di morte naturale, poi quelle dei giustiziati, quindi i morti ‘di subito’ ossia improvvisamente, e via dicendo, secondo una poco decifrabile gerarchia. I defunti escono dunque dai cimiteri ed entrano in città seguendo un percorso processionale ricordato alla fine dell’Ottocento dal demologo Giuseppe Pitrè, che segnala la presenza di tale credenza non solo a Palermo, ma anche a Casteltermini, a Vicari, a Catania, a Salaparuta, a Monte Erice e in numerosi altre località dell’isola. Un tema questo della ”processione dei morti” che ricorre in quasi tutti i paesi meridionali: “i morti – dice l’antropologo Luigi M. Lombardi Satriani – si riappropriano simbolicamente dello spazio pubblico e di quello domestico (i morti visitano anche le loro rispettive case), con significativo capovolgimento analogico rispetto alle tappe del corteo funebre che ha, invece, una forte funzione liberatrice”.
Nella rutilante gastronomia siciliana, in occasione della festa dei morti, un ruolo di primo piano è rivestito dai dolci: soprattutto dolci di forma umana che, nella versione più antica, riproducono i personaggi del Teatro dei Pupi, sebbene non manchino altri personaggi del mondo infantile: si chiamano pupaccene o pupi ri zuccaru alludendo alla materia prima con cui sono modellati; più evidentemente allusivi alla speciale ricorrenza sono gli Ossi di morto (ossa ri morti), dolci a forma di tibie umane a base di farina, zucchero e chiodi di garofano. Non mancano poi i dolci di pasta di mandorle modellati in forma di frutta, ossia i frutti di Martorana, e poi biscotti di cioccolato, pane, e tanta frutta secca (scacciu).
Pietanze in tema anche nella cucina ‘salata’: significative le favi a cunigghiu (fave a coniglio), condite con olio, sale e pepe, che evocano la antichissima valenza funeraria di questi legumi, che a Palermo sono spesso accompagnati dalle muffulette – un tipo di pane morbido e tondo che si “conza” (si condisce) con olio, acciuga, origano, sale e, volendo, anche pomodoro fresco – e dalla murtidda nivura e bianca (mirto nero e bianco). In alcune zone della Sicilia, le fave si accompagnano invece con le armuzze (piccole anime), un pane antropomorfo che raffigura a mezzo busto le anime del Purgatorio con le mani incrociate sul petto. Particolare anche l’uso di un pane ad anello modellato in forma di un unico braccio che unisce due mani, è il pane dei morti, un pane antropomorfo concepito come offerta alimentare alle anime dei cari estinti. Questo continuo ricorrere della forma umana nel cibo è evidentemente un modo simbolico per ristabilire un contatto con i propri avi attraverso un gesto molto intimo come quello del cibarsi.
…E NEL RESTO D’ITALIA?
Ci congediamo dai nostri lettori con una veloce carrellata su altre località italiane, esterne all’area del Mezzogiorno ma sorprendentemente legate a tradizioni non dissimili, fra cui quella delle zucche intagliate:
In Emilia Romagna era diffusa un tempo, per la festività dei morti, la pratica della questua: i poveri ricevevano cibo dopo aver bussato alle porte delle case e aver chiesto “la carità di murt” (la carità per i morti). In Friuli, dove diffusa è la credenza nelle processioni notturne dei morti verso certi santuari così come nella loro scomparsa alle prime luci dell’alba, troviamo la tradizione di intagliare le zucche in forma di teschio, con simbologie identiche a quelle del Sud Italia, così come non dissimile dalle tradizioni di altri luoghi è l’abitudine dei contadini friulani di lasciare per i defunti la sera di Ognissanti un lume acceso, un secchio d’acqua e un po’ di pane sulla tavola. In Toscana era diffusa (qualcuno la pratica ancor oggi) la tradizione contadina cosiddetta dello zozzo o della Morte secca, nome dato alla zucca intagliata, illuminata con una candela e posta su un muretto dopo il tramonto; per simulare un vestito le si applicavano degli stracci o addirittura un vestito vero e proprio; l’usanza si praticava non solo nel periodo della festività dei defunti, ma addirittura già a partire dal mese di agosto. Una pratica analoga risulta documentata nel nord del Lazio e si fa risalire almeno alla metà dell’Ottocento. In Lombardia, a Bormio (Sondrio), la notte del 2 novembre era d’uso mettere sul davanzale, per le anime dei morti, una zucca scavata e piena di vino mentre in casa si imbandiva la tavola per la cena. Nella zona di Vigevano e in Lomellina vi era invece l’usanza di lasciare in cucina un secchio d’acqua fresca, una zucca piena di vino e nel camino il fuoco acceso, con le sedie lasciate attorno al focolare. L’uso di intagliare le zucche e illuminarle con una candela si riscontra anche in Liguria, ad esempio nella cultura tradizionale di Riomaggiore, nelle Cinque Terre. In Piemonte, si era soliti lasciare per la cena un posto in più a tavola riservato ai defunti tornati a visitare la casa. In Val d’Ossola, dopo la cena, tutte le famiglie si recavano al cimitero, lasciando ai morti la possibilità di ristorarsi in pace nelle case vuote. Il rientro dei vivi veniva annunciato dal suono delle campane affinché i defunti potessero ritirarsi prima del loro arrivo.
Più in generale – come ricorda la storica Elena Percivaldi – la pratica di intagliare zucche a forma di teschio per poi riempirle con candele e porle, la notte fra il 31 ottobre e il 1° novembre, davanti a usci e finestre, era diffusa in tutto il Nord e parte del Centro della Penisola, non meno che al Sud: “In Lombardia, per esempio, queste lucerne improvvisate – scrive la studiosa – si chiamavano popolarmente lùmere, e nelle case di tutto l’arco alpino, almeno fino agli anni Cinquanta, si era soliti, in quella magica notte, attendere l’arrivo dei defunti intorno ad un lauto banchetto”. E a proposito di cibo, anche il Centro-Nord Italia vanta un campionario di pietanze e di dolci ‘tematici’ che ci mostrano quanto l’Italia fosse “unita” attraverso i percorsi della cultura popolare. Soffermandoci solo sui dolci, scopriamo che in Emilia-Romagna, Lazio, Lombardia, Marche ed Umbria sono di tradizione le Fave dei morti, pasticcini morbidi alla mandorla, di forma ovoidale e schiacciata, cosparsi di zucchero a velo; un po’ diverse, sebbene sempre a base di mandorla, sono le Favette dei Morti, dolcetti in tre colori (panna, marroni e rosa) dal croccante al morbido, tipici del Nord-est, ma presenti soprattutto in Veneto e in Friuli. Ossa di morto sono invece biscotti di consistenza dura, con mandorle ed albume d’uovo, tipici di Marche, Piemonte, Lombardia e Veneto. A Parma lo stesso nome designa però dolci di pastafrolla ricoperti di glassa di zucchero o cioccolato. Nel senese, con origine da Montepulciano, le Ossa di morto sono dolci rotondi, di consistenza friabile, impastati con le mandorle tritate.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Bibliografia:
– Lamberto De Carolis, Bisenti, storia, leggenda, cultura, tradizioni, Ed. Edigrafital, 1970
– Antonio De Nino, Usi e costumi abruzzesi descritti da Antonio de Nino, Vol. I, Tipografia di G. Barbera, Firenze, 1879, pp. 207
– Gennaro Finamore, Tradizioni popolari abruzzesi, Forni editore, Bologna, 1894
– Bianca Maria Galanti, Vita tradizionale dell’Abruzzo e del Molise, L. S. Olschki, Firenze, 1961
– Elena Percivaldi, I Celti, Giunti, Firenze, 2005
– Giuseppe Pitrè, Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, ed. Luigi Pedone Lauriel, Palermo 1880
– Giuseppe Pitrè, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, ed. Luigi Pedone Lauriel, Palermo 1889